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“È impossibile per una persona perbene andare avanti senza cocaina” afferma Ametistov, procurandosi la sostanza stupefacente dal cinese Gan-Dza-Lin detto Gasoline, nel secondo atto de L’appartamento di Zoja, pièce di Michail Bulgakov andata per la prima volta in scena al teatro Vachtangov il 28 ottobre 1926.
Personalmente la curiosità verso l’effettiva conoscenza ed esperienza di Bulgakov nel campo delle sostanze stupefacenti mi si è accesa assistendo proprio a questo spettacolo all’Elektroteatr Stanislavskij a Mosca ormai diversi anni fa. Al di là degli aneddoti sul tema che circolano tra i lettori e appassionati dell’opera di Bulgakov, esistono intere ricerche sull’argomento, di recente condotte persino attraverso esperimenti scientifici in laboratorio.
Sempre al 1926 risale il racconto di Bulgakov intitolato Morfina (in italiano ne esistono varie edizioni, come questa per Passigli e questa per Neri Pozza): protagonista è un giovane medico (quale era anche Bulgakov prima che si dedicasse esclusivamente alla scrittura) che ha sviluppato una dipendenza profonda dalla morfina, determinando con ciò quella che, senza rovinare troppo il finale ai futuri lettori, sarà la sua condanna.
Sull’esperienza diretta dello scrittore rispetto alla cocaina e, in particolare, alla morfina esistono diverse testimonianze (specialmente della prima moglie, Tat’jana Lappa).
Per quanto riguarda la prima, pare che Bulgakov nel 1913 (o 1914, a seconda delle fonti), all’epoca studente di medicina, l’abbia provata per curiosità a suo modo scientifica, non restandone entusiasta. Farà descrivere gli effetti al medico protagonista di Morfina:
La cocaina è il diavolo nella fiala. La sua azione è tale: al momento dell’iniezione di una siringa di soluzione al due per cento quasi istantaneamente si manifesta una condizione di tranquillità e beatitudine. E questo si protrae solo per uno, due minuti. E poi tutto scompare senza lasciare traccia, come se non ci fosse mai stato. Si fanno avanti il dolore, l’orrore, il buio. La primavera rumoreggia, uccelli neri s’incrociano in volo da un ramo spoglio all’altro, e in lontananza il bosco, ispido, storpio e nero.
Per quanto riguarda la morfina invece, le testimonianze raccontano di un episodio accaduto nell’estate del 1917 in campagna, quando il giovane medico Bulgakov stava curando un bambino malato di difterite. Temendo di essersi a sua volta contagiato, si iniettò un vaccino che, però, gli causò degli effetti collaterali tanto avversi da doversi procurare della morfina. Pare che sia stato questo episodio a innescare la miccia della dipendenza per Bulgakov. L’insistenza per ottenere delle dosi di morfina, sempre stando ai racconti della moglie Tat’jana, lo porterà in alcuni momenti a eccessi di ira in cui sarà pronto a minacciarla con la pistola pur di ottenere la sostanza.
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Benché pare che, con il passare del tempo e anche grazie all’intervento della moglie, Bulgakov riuscì a liberarsi dalla dipendenza, delle ricerche scientifiche pubblicate nel 2015 e 2016 hanno rinvenuto innumerevoli tracce di morfina sulle pagine del manoscritto del romanzo Il maestro e Margherita cui l’autore lavorava tra 1936 e 1940.
Sebbene si potesse ipotizzare che fossero stati gli agenti dell’Nkvd a spargere la sostanza sul manoscritto, da questa innovativa ricerca scientifica emergono particolari che suggeriscono l’uso volontario da parte dell’autore, che al tempo soffriva di una forma grama di nefropatia: “tutte le pagine analizzate (in totale dieci, estratte a caso tra 127 fogli) contenevano tracce di morfina, da un minimo di 5 fino a 100 ng/cm2”. Allo stesso modo, sono stati rinvenuti marcatori specifici (proteine) associati alla malattia renale di cui soffriva Michail Bulgakov.
Dottoressa di ricerca in Slavistica, è docente di lingua russa e traduzione presso l’Università di Trieste, si occupa in particolare di cultura tardo-sovietica e contemporanea di lingua russa. È traduttrice, curatrice di collana presso la casa editrice Bottega Errante ed è la presidente di Meridiano 13 APS.