Tu, Anna, sei un’autentica figlia della tundra. La sua voce. Il suo cuore. La sua coscienza dolente. Insieme al suo freddo glaciale, le bufere, le renne e i cani, i fumicelli che fluiscono dai suoi čum e le slitte trainate dalle renne che corrono nella bianca caligine. Questa tundra vivida, corale, variegata, riluttante e capricciosa, ma anche buona e tenera, permea della sua presenza il romanzo e ne è l’essenza. Muschio bianco è il seguito naturale di Aniko.
Anna, tu sei una nenec indomita, irriducibile. Sei l’unica scrittrice nenec in senso stretto e nessuno meglio di te ha mai saputo raccontare al mondo il suo popolo.
Così lo scrittore e storico Konstantin Lagunov (1924-2001) scrive in una lettera ad Anna Nerkagi dopo aver letto il romanzo Muschio bianco, che Nerkagi gli ha dedicato in epigrafe. Pubblicato originariamente nel 1996, lo scorso gennaio è arrivato sugli scaffali italiani grazie alla traduzione di Nadia Cicognini e al lavoro di recupero e riscoperta di Utopia editore. Dopo Aniko, Nerkagi torna con un altro romanzo breve e densissimo ambientato tra la sua gente, nella tundra russa, all’interno del Circondario autonomo dei Nenec (Neneckij avtonomnyj okrug, NAO).
Tutte le parole, altisonanti o sommesse che fossero, gli apparivano vuote. Nessuna parola era in grado di esprimere l’amore. Le parole non erano che polvere. Se si sapesse tacere di più, come si amerebbe meglio e più a lungo! Il silenzio ha in sé una speciale tenerezza, una sofferenza, e la sofferenza è la linfa dell’amore.
In Muschio bianco ritroviamo alcuni dei personaggi ma soprattutto delle situazioni già descritte nell’opera precedente: a fare da fil rouge è sempre lo scontro tra lo stile di vita indigeno, remoto e autentico dei nenec e il fascino della vita moderna, con le sue tentazioni e i suoi vizi. Il conflitto intergenerazionale lasciato in sospeso in Aniko ritorna ad animare la prosa di Nerkagi, che in questo secondo libro si concentra di nuovo sulle figure dei padri abbandonati dai figli, Petko e Chasava, affiancandogli quella di un giovane nenec, Alëška, innamorato di una ragazza ormai da tempo lontana dalla vita nella tundra, Ilne.
Alëška esitava. Gli occhi di un uomo non sono come la superficie di un lago che una tempesta può increspare. Eppure a cosa si deve credere se non ai suoi occhi? Agli occhi dietro cui si celano la sua forza e anche la sua fragilità? E poi chi ha detto che un uomo possa vivere senza il suo dolore, senza il mistero della sua anima, senza quell’angolo sacro dove neppure gli eletti sono ammessi? Perché dovrebbe di colpo estirpare da sé i pensieri e i sentimenti che gli sono più intimi e cari, al prezzo del sangue e di atroci sofferenze, per sottoporli al giudizio altrui?
Entrambi i leitmotiv sono particolarmente cari all’autrice poiché lei stessa in epoca sovietica ha vissuto sulla propria pelle l’allontanamento dal proprio villaggio. Dopo la laurea in geologia ha deciso di tornare a risiedere con la propria famiglia, fondando una scuola nella tundra e continuando a sensibilizzare il pubblico e difendere i diritti delle minoranze della Federazione Russa a livello nazionale e non solo. Le sue opere, scritte in russo, sono infatti piene di riferimenti alla vita quotidiana della popolazione indigena nomade a cui lei stessa appartiene, catapultando così il lettore tra čum, kisy, njuki, jarabcy…
Il passato non è una fiaba, né uno di quei canti antichi, gli jarabcy, e del passato, non si può ricordare ogni parola, ogni giorno. Non si rammentano gli anni, che per qualche ragione scorrono via amari nella memoria, ma dettagli improvvisi che la illuminano e scivolano come una calda goccia sul cuore. Talvolta è orribile, terrificante immergersi nel proprio passato, come entrare in una tomba, talaltra una gioia. Giudicare se stessi è sempre una penosa fatica, ma Petko vi era costretto per capire cosa rappresentassero davvero per lui quelle persone.
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Muschio bianco, neve e fuoco
Anche in questo secondo romanzo Nerkagi non smette di mettere in testa e in bocca ai suoi personaggi domande ancestrali, riflessioni profonde e dubbi atavici, che li accompagnano e tormentano a ogni pagina. L’ampio margine dedicato agli animali presente in Aniko si restringe leggermente, lasciando posto ai fenomeni naturali e alla vegetazione, che trasmettono e incarnano gli stati d’animo dei protagonisti, spesso dando sfogo e sollievo ai loro tormenti. Altro elemento cardine è il fuoco: cuore pulsante della vita nenec di cui si prendono cura le donne, a riflettere i loro stati d’animo.
La prosa di Nerkagi si conferma estremamente lirica, toccante e molto evocativa. Pur partendo sempre da questioni molto concrete, domande universali che non affliggono soltanto la popolazione nomade protagonista, la sua penna non si perde mai in elucubrazioni astratte e fini a se stesse, ma fa sempre leva su elementi tangibili, rendendo sentimenti ed emozioni tanto reali quanto la neve, il fuoco, l’acqua e il sangue. Al contempo anche gli elementi naturali prendono vita, assumendo significati nascosti e parlando linguaggi segreti.
Amo i vecchi alberi. Ho sempre il desiderio di inginocchiarmi dinanzi a loro per ringraziarli all’infinito per quel sentimento amaro di inquietudine che suscitano, ma che per questo colma l’uomo di una gioia ancora più intensa. Mi piace ritrovare ai piedi del tronco le loro foglie gialle e secche, segno dell’estate appena trascorsa. Li amo per tutte le estati passate, per il mistero della vita che occultano, per il mormorio delle foglie che si può scambiare per un canto o un pianto, una confessione o un racconto.
Anche in Muschio bianco Anna Nerkagi mira senza esitazioni al cuore del pubblico, che senza accorgersene si ritrova a immedesimarsi in Petko, rimasto senza moglie né figlia e quindi senza un apparente motivo per vivere; in Vanu e nella sua alacre voglia di rinvigorire lo spirito del suo vecchio amico; in Alëška e nel suo disperato tentativo di abbandonare quell’amore impossibile e accettare la realtà; nelle preoccupazioni della madre al vederlo tanto disperato e nella sua risoluta fermezza mentre cerca una soluzione.
«E poi c’è il muschio bianco, il muschio del sole, che risplende perfino nella notte più cupa. Se il tempo lo rivestirà di questo muschio, accendi per lui un grande fuoco e sacrifica sette renne azzurre. Lascia detto a tuo figlio di onorare questi luoghi. E se non avrai un figlio, lascialo detto alla gente. È qui che dimorano le anime».
Alla accorata e sentita lettera scritta da Lagunov, Anna Nerkagi risponde così:
Sono trascorsi già quindici anni da quando ha visto la luce Muschio bianco, ma non è questo che conta. Oggi, guardando indietro al mio passato, posso affermare con certezza che la vita di uno scrittore non ha a che fare con l’età del corpo, ma con lo stato dell’anima. Quanto è accaduto mi dà il diritto di affermarlo. Inoltre, l’età di uno scrittore è soprattutto uno stato della coscienza.
Sono rimasta in silenzio per quindici anni. Nel mentre è come se la mia anima avesse vissuto almeno centocinquant’anni, ma non nel nostro tempo, il tempo umano, bensì in un tempo altro. Non riesco a spiegarlo a parole, ma sento, avverto in me un’infinita vecchiaia.
Muschio bianco, Anna Nerkagi, traduzione di Nadia Cicognini, Utopia Editore, 2024