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Sono bastate quattro finestre rotte del municipio di Belgrado per far gridare alla rivoluzione in Serbia dopo le elezioni del 17 dicembre. Come al solito, una manifestazione sfociata in scontri con la polizia ha scatenato il sensazionalismo dei giornali e gli allarmi infondati di chi vede complotti internazionali in ogni linea di frattura della politica internazionale. Anche questa volta, come già successo in passato, è necessario provare a mettere al posto giusto gli eventi che si susseguono ed evitare di farsi trascinare in una delle due visioni, solo apparentemente contrapposte, che gridano alla rivoluzione. Da una parte quella filo-governativa che grida ad una “nuova Majdan” per compattare il fronte interno, screditare le opposizioni e presentarsi, come da tradizione, come vittima di complotti organizzati dall’esterno per colpire uno degli ultimi alleati russi in Europa. Dall’altra quella filo-europeista che vede in questi scontri l’inizio di una rivoluzione colorata e la speranza per un cambio di regime in Serbia dopo più di dieci anni di dominio incontrastato dell’attuale presidente Aleksandar Vučić.
Due visioni frutto di propaganda che non rispecchiano pienamente quella che è l’attuale situazione. In Serbia non è in atto, almeno per ora, una rivoluzione, un tentativo di stravolgimento del sistema politico. Non ci troviamo di fronte a un momento insurrezionale né tantomeno a una nuova Majdan o a un nuovo 5 ottobre.
Le elezioni del 17 dicembre
Lo scorso 17 dicembre si sono svolte le elezioni anticipate, un evento ormai abituale in Serbia. Si tratta infatti della quarta tornata elettorale anticipata degli ultimi undici anni. Il presidente Vučić ne fa ricorso ogni volta che vuole rafforzare la sua, già fortissima, posizione. Sia verso gli alleati di governo che verso l’opposizione. In questo caso, le tensioni in Kosovo dell’ultimo anno e le vicende internazionali hanno spinto Vučić, vero e proprio burattinaio della politica serba, a riconvocare le urne per ottenere un nuovo mandato dai cittadini. Alle elezioni di domenica 17 dicembre, il suo Partito Progressista Serbo (SNS, di centrodestra associato al Partito Popolare Europeo) ha ottenuto una schiacciante maggioranza con il 48% dei voti, conquistando la maggioranza assoluta dei parlamentari (128 su 250).
L’accusa di brogli
Le opposizioni, la cui coalizione principale “La Serbia contro la violenza” ha ottenuto il 25% dei voti, hanno subito gridato ai brogli chiedendo la non approvazione dei risultati. Brogli e irregolarità che sono stati riscontrati anche dagli osservatori internazionali ma che non hanno inciso in maniera determinante nella vittoria di Vučić. La coalizione di governo, “La Serbia non si deve fermare”, avrebbe infatti vinto in ogni caso la partita. L’obiettivo era però farlo in maniera schiacciante. E per riuscirci hanno dovuto far ricorso a mezzi non proprio leciti. Così, dal giorno dopo le elezioni, i principali partiti di opposizione hanno chiamato a raccolta le piazze.
La manifestazione del 24 dicembre, convocata dagli studenti a cui si sono aggiunti altri settori della società e politica serba, è sfociata in incidenti proprio davanti al municipio di Belgrado. In Serbia, a differenza del nostro paese, tutte le manifestazioni finiscono a ridosso dei palazzi del potere. Nessuna zona rossa, nessun cordone chilometrico di forze dell’ordine. I manifestanti sono soliti concludere le proteste sulle scale del parlamento o davanti la porta del municipio con la polizia solitamente dentro i palazzi pronta a intervenire in caso di assalto. Ed è quello che è successo il 24 dicembre, quando un gruppo esiguo di manifestanti ha cominciato a rompere le finestre del municipio, provocando la reazione della polizia. Il bilancio finale è stato di 35 arresti e numerosi feriti. Altre manifestazioni sono state convocate il 25 dicembre senza che ci fossero scene di guerriglia urbana.
Le opposizioni riunite: la Serbia contro la violenza
Che in Serbia ci sia un diffuso malcontento nei confronti del presidente Vučić è dimostrato dalle ormai decennali proteste che, a fasi alterne, attraversano il paese e in particolar modo la capitale Belgrado: da quelle per il diritto alla città di qualche anno fa a quelle più recenti contro la violenza e contro il linguaggio di odio promosso dai media quasi completamente controllati dal presidente. Nessuna di queste mobilitazioni, nonostante numeri significativi, è mai riuscita però a scalfire davvero gli attuali equilibri politici interni.
L’opposizione si presenta infatti troppo eterogenea, divisa tra entusiasti europeisti e ultranazionalisti che criticano da destra il governo, tra liberali e filomonarchici che sognano la restaurazione del regno di Serbia. L’unica cosa che sembra unire davvero le diverse anime dell’opposizione è la loro volontà di spodestare Vučić.
La stessa coalizione “La Serbia contro la violenza” vede insieme partiti di centrosinistra come il Partito della Libertà e della Giustizia, partiti di sinistra ed ecologisti come Il Fronte rosso-verde, sindacati e partiti filomonarchici come il Nuovo volto della Serbia o di centrodestra come il Movimento Popolare Serbo. Un grande cartello elettorale che mostra però evidenti limiti sia nel costruire una piattaforma politica seria e alternativa sia nel raccogliere un numero di voti significativo. Eppure il risultato raggiunto il 17 dicembre è stato il migliore degli ultimi anni, a dimostrazione di come la proposta presentata agli elettori non sia sempre stata accolta con entusiasmo.
Tra Europa, Russia e Cina
Sia Vučić che il primo ministro Ana Brnabić hanno subito puntato il dito delle violenze non solo contro i partiti di opposizione ma anche contro non meglio specificati soggetti esterni pronti a soffiare sul fuoco del malcontento per dare vita a una nuova rivoluzione colorata guidata dall’Occidente. Eppure, nell’ultimo decennio, il presidente Vučić ha rappresentato per l’Europa il più importante fattore di stabilità nella regione balcanica. Non a caso è stato spesso corteggiato e sostenuto da numerosi politici europei: da Angela Merkel all’ungherese Viktor Orbán. La Serbia è inoltre paese candidato all’adesione all’Ue dal lontano 2012. Anche se in questi anni sono stati pochi i progressi compiuti da Belgrado, l’adesione all’Ue resta ancora oggi l’orizzonte politico privilegiato sostenuto senza tentennamenti, almeno a parole, dallo stesso presidente. Ma se da un lato la Serbia continua a mostrarsi europeista, dall’altro non rinuncia a mantenere saldi i rapporti con gli altri partner, specialmente con Russia e Cina.
Ad aggravare la distanza tra Belgrado e Bruxelles, già significativa a causa del fallimento del dialogo con il Kosovo, ha poi concorso l’invasione russa dell’Ucraina nel febbraio 2022. La Serbia, infatti, pur condannando formalmente l’azione non si è mai del tutto allineata alla politica europea delle sanzioni verso Mosca. In una raccomandazione dello scorso 23 novembre 2022 il parlamento europeo mostrava una linea ben precisa: “l’avanzamento delle negoziazioni con la Serbia continuerà solo se il paese si allineerà alle sanzioni europee contro la Russia”. Nello stesso documento, il parlamento parlava di “un vuoto, che ha aperto lo spazio per attori maligni come Russia e Cina”. Una posizione ribadita nell’ultima relazione del parlamento a maggio scorso in cui si “invita le autorità competenti [serbe] a dimostrare un impegno inequivocabile […] ad allinearsi alle misure restrittive contro la Russia”.
Negli ultimi mesi però, anche a causa delle pressioni europee e della minaccia dell’utilizzo di sanzioni contro Belgrado, il governo serbo sembra aver timidamente aperto alla possibilità di applicare le sanzioni contro Mosca. I risultati elettorali potrebbero essere utili in tal senso. In questi anni il principale alleato dell’SNS è stato infatti il Partito Socialista Serbo (SPS) guidato da Ivica Dačić, vice-primo ministro e ministro degli Esteri, molto vicino a Putin. Lo scarso risultato ottenuto alle urne (6,7%), il peggiore degli ultimi 15 anni, rischia di tenere il partito fuori dal governo. Senza le pressioni dell’alleato filo-russo, Vučić potrebbe aprire a una politica più europeista. O almeno darne l’impressione, riuscendo a non far arrabbiare l’alleato russo e contemporaneamente far credere a quelli europei di volersi adeguare alla politica estera dell’Unione. Anche per questo il sostegno europeo o addirittura della Nato alle manifestazioni di piazza sembra più un cliché ripetuto ossessivamente, buono per tutte le stagioni, che una strategia concreta.
Una nuova Majdan?
Per quanto la Serbia di Vučić sia un paese illiberale, da molti descritto come una vera e propria autocrazia, per l’Europa non sembra, in questo momento, un grosso problema, tale da mettere in campo una strategia politica, economica e materiale volta a un’escalation interna al paese.
Vučić non è Milošević e la Serbia non è l’Ucraina. L’avvio di una nuova strategia della tensione sostenuta dall’Ue e dalla Nato, echeggiata da molti, non sembra al momento credibile. Per l’Europa si tratterebbe solo dell’apertura di un nuovo fronte in cui altri attori, non solo Russia e Cina ma anche la Turchia di Erdoğan, possono giocare un ruolo importante minando il faticoso lavoro ormai ventennale per avvicinare i Balcani Occidentali all’Unione. Quello che sta accadendo in Serbia, ad oggi, non è nulla di particolarmente straordinario. Con le opposizioni che, incapaci di offrire una proposta politica credibile, provano ad alzare il livello dello scontro politico facendo ricorso alle piazze e il governo che le accusa di utilizzare la violenza come strumento politico.
Difficilmente gli equilibri interni cambieranno radicalmente nei prossimi mesi. A meno che una nuova accelerazione degli eventi globali non impongano a Vučić una definitiva scelta di campo. Ma al momento questa non sembra essere la priorità di nessuno. Neppure dell’Europa che ha tutto l’interesse a mantenere la situazione stabile ed evitare di spingere definitivamente Belgrado nelle braccia di Mosca e Pechino.
Dottore di ricerca in Studi internazionali e giornalista, ha collaborato con diverse testate tra cui East Journal e Nena News Agency occupandosi di attualità nell’area balcanica. Coautore dei libri “Capire i Balcani Occidentali” e “Capire la Rotta Balcanica”, editi da Bottega Errante Editore. Vice-presidente di Meridiano 13 APS.