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Il giornalista Francesco Brusa analizza il rapporto tra Germania nazista e kemalismo, partendo dalle riflessioni dello storico Stefan Irhig.
È ormai senso comune, giusto e legittimo, denunciare l’orientalismo implicito in certe visioni della storia e in certe interpretazioni che si danno di contesti diversi da quello di appartenenza. A maggior ragione se si parla delle zone cosiddette “mediorientali” o della Turchia – a partire dall’osservazione della quali, come ha scritto fra gli altri Edward Said nel suo testo seminale, il pensiero orientalista a avuto origine e ha tratto linfa vitale.
Tuttavia, per quanto riguarda il passato che intreccia le vicende della guerra d’indipendenza turca, l’ascesa del nazionalsocialismo in Germania e il genocidio armeno, risulta fecondo andare a osservare anche la dinamica opposta, quel meccanismo di proiezione che alcune élite di governo hanno messo in campo per autocostituirsi come “comunità di destino” e giustificare in un’ottica quasi teleologica i propri crimini contro l’umanità.
Due dettagliati libri che invitano a riconsiderare il rapporto fra l’estrema destra tedesca di fine Ottocento e inizio Novecento e i suoi organi di stampa con l’Impero ottomano prima e la Turchia di Mustafa Kemal poi, mostrando come si sia data una sorta di “auto-identificazione” strumentale.
Dice infatti Irhig:
“L’approccio che parte della stampa tedesca aveva adottato nei confronti della Turchia può essere descritto seguendo Edward Said, o meglio andando contro di lui, come un processo di de-orientalizzazione. Non solo i giornali esprimevano in genere una posizione filo-turca, ma anzi si sforzavano di far apparire qualsiasi cosa riguardasse gli ottomani o i turchi sotto una luce la più familiare possibile”.
In altre parole, prosegue Irhig, “Mustafa Kemal e la sua guerra di indipendenza entrarono a far parte dello zeitgeist sia dei revisionisti e nazionalisti tedeschi in generale, ma soprattutto dei nazional-socialisti e dei fascisti italiani”.
Insomma, un particolare caso di gemellismo – per usare il concetto coniato dallo storico Renato Moro (allievo di De Felice) per descrivere la studiata e parallela attrazione fra la Spagna franchista e l’Italia mussoliniana – talvolta lasciato in ombra dai resoconti che riguardano il periodo e poi certamente modificatosi con gli sviluppi che sfociarono nelle tragedie dell’Olocausto e della Seconda guerra mondiale.
Eppure la sinergia non dovrebbe stupire: l’impresa di Atatürk affascinava la compagine nazional-socialista, così come larghi strati della popolazione tedesca, perché era un esempio di come fosse possibile ribaltare i dettami del trattato di Versailles del 1919. Anzi, annota Irhig, negli anni fra le due guerre la Turchia kemalista era a buon diritto considerata lo stato revisionista per eccellenza agli occhi delle potenze europee.
Inoltre, sebbene adottandone una visione superficiale e semplificata, Hitler e alcuni dei suoi seguaci si interessavano molto all’aspetto “etnico” per cui la guerra di indipendenza turca veniva letta come il superamento del multicomunitarismo ottomano (e degli imperi in generale) verso la costruzione di uno stato perfettamente omogeneo sul piano razziale (in perfetta linea con l’orientamento völkisch) – con la conseguente soluzione forzata del problema delle minoranze (gli armeni innanzitutto, ma in una certa misura anche i curdi).
Ecco allora che per la stampa e per la letteratura naziste la Turchia arriva a rappresentare un vero e proprio “modello” da seguire sotto diversi punti di vista.
Hitler possedeva un busto scultoreo di Atatürk ed ebbe a definire quest’ultimo un “grande maestro”, i cui due maggiori studenti furono Mussolini e Hitler stesso (il leader della “nuova Turchia” venne peraltro citato durante il Putsch di Monaco).
A partire dal 1921 e negli anni seguenti il settimanale Heimatland, legato alle SA e ad altre organizzazioni del movimento nazista, pubblicò una serie di articoli a firma di Hans Tröbst – unico cittadino tedesco ad aver servito nell’esercito di Mustafa Kemal – in cui si ricostruiva la guerra di indipendenza turca e si indicavano gli elementi del suo successo (fra cui la “purificazione nazionale”) come passi che anche la Germania avrebbe dovuto intraprendere.
Nel 1933, dopo l’ascesa al potere del nazional-socialismo, Ernst Röhm andò prima a rendere omaggio a Mussolini a Roma e poi ad Atatürk ad Ankara. Si creò, cioè, una sorta di “culto” da parte dei nazisti nei confronti della Turchia e delle sue politiche – come lo riassume Irhig.
Tale culto non va ovviamente inteso in senso monolitico, né è stato esente da contraddizioni e tensioni interne.
A volte, queste assumono un carattere aneddotico dal sapore quasi simbolico: è il caso, per esempio, della figura di Max Erwin von Scheubner-Richter, testimone in qualità di console tedesco a Erzurum del genocidio armeno (e, curiosamente, suo fermo oppositore al punto da chiedere un intervento delle Germania per proteggere la popolazione massacrata dai turchi), poi stretto consigliere di Hitler e suo informatore riguardo alla Turchia, infine “martire del nazismo” durante il Putsch di Monaco in cui addirittura mentre veniva colpito fatalmente da una pallottola strattonò il Furher a terra, salvandolo dalla morte.
Ma più in generale, suggeriscono i lavori di Stefan Irhig, occorre considerare la fascinazione di parte del nazionalsocialismo per quanto avveniva sul territorio anatolico come qualcosa di più “strutturale” all’interno dell’ideologia del Terzo Reich e soprattutto come un fenomeno che già si sviluppa e inizia a influenzare l’opinione pubblica tedesca a partire dall’epoca bismarckiana (e che tocca uno dei suoi culmini con il processo per l’omicidio di Talat Pasha del 1921).
Come tratteggia lo stesso autore nell’introduzione di Giustificare il Genocidio:
“Il genocidio armeno è stato di enorme importanza per la storia tedesca, anche se il suo ruolo è stato finora ampiamente ignorato. Ha influenzato la svolta della Germania verso un’immensa ingegneria etnica”.
L’idea della possibilità dell’uccisione di massa di alcune specifiche popolazioni (armeni in Turchia, ebrei in Germania), per quanto chiaramente non fosse un semplice “copiare” ciò che avevano compiuto altre nazioni, “[è] stata discussa e [ha] acquisito una parvenza di ragionevolezza e giustificabilità, soprattutto negli anni Venti. Fu così ampiamente dibattuta, da diventare parte della normalità politica, del discorso e della coscienza della Germania di Weimar”.
In altre parole, Irhig – con dovizia di dettagli e resoconti, analizzando la stampa dell’epoca e incrociando l’evoluzione del dibattito pubblico con la retorica ufficiale e politica nonché con le testimonianze private dei maggiori protagonisti delle diverse vicende – prova a mostrare come con gli “orrori armeni” (il modo in cui venivano spesso denominati i massacri a danno della popolazione armena in Anatolia, mancando ancora il termine “genocidio” coniato dal giurista Raphael Lemkin e approvato con una risoluzione dell’Onu nel 1948) si sia installato nella coscienza collettiva della Germania.
Per varie ragioni Berlino intratteneva un rapporto privilegiato e particolare con l’Impero Ottomano prima e con la Turchia poi, un primo seme dell’odio che si sarebbe poi riversato contro la comunità ebraica, oppositori politici, rom, dissidenze sessuali, ecc.
Soprattutto, era andato formandosi un bagaglio di espressioni e interpretazioni che permettevano di giustificare o di concepire come possibile e auspicabile soluzione per i problemi della società la sistematica segregazione, deportazione ed eliminazione di alcune delle sue componenti: così, gli armeni vennero spesso definiti “gli ebrei d’oriente”, colpevoli di una “pugnalata alle spalle” nei confronti dei turchi, gli spostamenti di massa un “metodo razionale” per gestire la questione delle minoranze e raggiungere la “purezza etnica” dello stato.
In sintesi, nella formulazione di Irhig:
“Il Genocidio armeno, la sua ricezione e le reazioni a esso costituirono un’enorme “motivazione”: da un lato per i “benefici”, così identificati dalle posizioni ipernazionaliste e naziste nella discussione sulla Nuova Turchia nella Germania tra le due guerre, e dall’altro, per la mancanza di un deterrente generale, di un intervento contro e di una condanna ai perpetratori di genocidio”.
Ed è per questo anche che continuare a scavare negli intrecci della storia e delle coscienze collettive – come fanno in controluce Giustificare il Genocidio e Atatürk in the Nazi Imagination – mantiene tutta la sua importanza: per alimentare la speranza, forse un’illusione, che il deterrente nei confronti di massacri e tensioni genocidiarie possa essere innanzitutto un deterrente discorsivo, la capacità di sapersi assumere come comunità (particolari e globali) il peso della memoria.
Pensando a quanto ancora nel dibattito pubblico in Turchia sembra difficile parlare della questione armena, e a come sia tornata recentemente a sanguinare la ferita caucasica del Nagorno-Karabakh, più che un’illusione è urgenza concreta.
giornalista pubblicista, collabora con diverse riviste e diversi siti on-line, occupandosi principalmente di quanto si muove a livello politico e sociale in area est-europea e anatolica. Ha scritto di proteste femministe in Polonia, dell’elezione del primo sindaco comunista eletto in Turchia, di compagnie teatrali clandestine in Bielorussia e di cosa vuol dire fare informazione indipendente in Transnistria.