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Parigi, un racconto di Dejan Enev

Pubblichiamo Parigi, un racconto di Dejan Enev, tratto dalla raccolta Circo Bulgaria, nella traduzione di Giorgia Spadoni (Bottega Errante Edizioni, 2023)

All’epoca era tutto più semplice, perché avevo ventitré anni. Studiavo, e di notte lavoravo come inserviente nel reparto di psichiatria. Nel giro di un paio d’ore facevo tutto.

Distribuivo il cibo, dopodiché ritiravo i piatti sporchi, li lavavo, aspettavo che i pazienti guardassero il film alla televisione e una volta andati a letto passavo lo straccio in corridoio, sistemavo i sacchi della spazzatura davanti alla clinica, rientravo fischiettando tra me e me su per la scalinata echeggiante, popolata dalle teste di pietra dei padri della psichiatria, mi sedevo alla scrivania nello studio, tiravo fuori il taccuino e le sigarette e in due ore scrivevo un racconto. I finali erano la parte più facile. Colpivano il lettore come unа martellata in testa. Poi, come ogni scrittore che si rispetti, avevo bisogno di condividere il miracolo della creazione. Perciò chiamavo l’infermiera e parlavamo fino al mattino. Le infermiere del reparto di psichiatria in genere erano creature socievoli. Inoltre, come tutte le infermiere, indossavano il camice senza nient’altro sotto.

Parigi, racconto di dejan enev, circo bulgaria

Quella notte l’infermiera di turno era Valerija. Aveva dieci anni più di me. La sua pelle era liscia come un foglio di carta carbone. Sapevo che era divorziata e che a suo tempo aveva fatto ginnastica ritmica. Si sedette sul lettino e appoggiò la schiena al muro. E si coprì accuratamente le cosce da ex ginnasta con il camice bianco. Come tutte le infermiere anche lei esagerava col trucco, ma a lei stavano bene gli occhi così cerchiati di nero e luccicanti.

«Е adesso?» chiese Valerija. «Ti metti a scrivere un racconto tutto per me?».

Versai un po’ di spirito in due tazze di metallo smaltato, gli detti fuoco per qualche secondo, ci spremetti dentro un po’ di limone, porsi a lei la sua bevuta e ingoiai la mia d’un fiato.

«Lo scriverò!» risposi. «Dimmi solo di preciso cosa vorresti. Hai la straordinaria possibilità di commissionare un racconto. Con un finale mozzafiato».

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Valerija sorseggiò lentamente dalla sua tazza, poi giocherellò a lungo col braccialetto di plastica senza valore che aveva al polso destro.

«Voglio essere a Parigi!» esclamò all’improvviso. «Sedermi a un tavolino davanti a qualche bistrot con una grande vetrina, il marciapiede appena lavato, il riflesso della Senna sulla vetrina, e io ho un grande cappello di paglia in testa. E un uomo con indosso un completo leggero e dall’odore di tabacco da pipa si avvicina alle mie spalle e mi porge un mazzo di gerbere. Adoro le gerbere».

Mi versai nella tazza ancora un po’ di spirito dal bottiglione da due litri verde scuro e bevvi velocemente.

«Andata» dissi. «Non c’è problema. Parigi è il mio elemento. Ma ho bisogno di vedere le tue gambe. Per poterle descrivere come si deve. Un racconto senza un bel paio di gambe femminili non è un vero racconto. Neanche un buon finale può salvarlo».

Probabilmente l’alcol mi aveva fatto effetto abbastanza in fretta, ma Valerija si divertiva davvero con le mie chiacchiere, se la rideva a crepapelle. In quel momento si sentì Spas ululare. Spas viveva rinchiuso dietro una grata in una piccola stanza in fondo al corridoio. Gli davamo da mangiare dalla grata. Lui afferrava la tazza, si sedeva per terra e incominciava a ingozzarsi. Poi gettava la tazza smaltata sul pavimento mosaicato.

Valerija si fece seria.

«Ce l’hai tu la chiave, giusto? Lasciagli fare due passi in corridoio» mi chiese lei.

«Sta bene dove sta».

«Il dottore è al piano di sopra che dorme. Non lo saprà nessuno. Solo per un po’. Sai, certe volte Spas ha uno sguardo talmente triste».

«Spas è un animale» dissi. «Cambiamo argomento».

E mi misi a leggerle il mio ultimo racconto.

Alle tre di notte per un attimo il tempo si fermava. Gli occhi di Valerija erano pieni di lunghi bagliori infranti. Dal piccolo giardino fuori si sentivano gli usignoli cantare. Anche Spas taceva. C’era così tanto silenzio che riuscivo a sentire il respiro di Valerija. Terminai la lettura.

«Vado a dormire» disse Valerija e si alzò in piedi.

Io le tagliai la strada e la strinsi in un abbraccio maldestro. Lei non si mosse. Non mi assecondava, ma non si opponeva nemmeno. Mi feci più ardito.

«Aspetta» disse Valerija. Si allontanò da me e cominciò a sbottonarsi il camice. Con le mani tremanti afferrai le chiavi e chiusi con quelle la porta dell’ufficio. Dopodiché spensi la lampada.

Mi svegliarono le urla in sala da pranzo. Fuori stava succedendo qualcosa. Valerija non c’era. Saltai giù dal lettino, mi spruzzai gli occhi d’acqua e abbassai la maniglia della porta. Era aperta. Le mie chiavi non c’erano. Alcuni pazienti stavano cercando di trattenere Spas. Spas stringeva in mano la gamba di legno di uno sgabello. Le sue labbra erano coperte di schiuma secca.

«Ha colpito Valerija in testa» disse Vladko, uno dei pazienti che lo stava trattenendo. «L’ha colpita molte volte».

Mi precipitai lungo il corridoio. Valerija era riversa sul pavimento mosaicato davanti al bagno. Attorno a lei si agitavano alcuni medici del primo turno. I corpi delle persone chinate su di lei la nascondevano quasi completamente ai miei occhi. Solo per un attimo intravidi i suoi capelli impiastrati di sangue.

Poi la misero su una barella e la portarono via.

Non ho mai più visto Valerija. Dopo un po’ si seppe che rimase ricoverata in ospedale per molto tempo, poi venne messa in una casa di cura e infine la mandarono in pensione per malattia. Anche Spas scomparve subito dopo l’incidente. Con tutta probabilità lo mandarono al manicomio di Karlukovo.

Valerija, ecco che finalmente ho mantenuto la mia promessa e ho scritto un racconto per te. Solo che non so come finirlo. Perciò lo lascerò così. Ma il titolo so quale sarà. S’intitolerà Parigi.


Circo Bulgaria, Dejan Enev, traduzione di Giorgia Spadoni, Bottega Errante Edizioni, 2023
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Redazione
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