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Nata a Siena, Patrizia Raveggi si è laureata alla Scuola normale superiore di Pisa. La sua carriera nell’area della promozione culturale del Ministero degli affari esteri l’ha portata a viaggiare in vari paesi, prima come lettrice di lingua italiana in due università, poi in qualità di consigliere culturale presso le rappresentanze diplomatiche di vari paesi, nonché alla guida dei rispettivi Istituti italiani di cultura. In Slovenia si è avvicinata allo studio della lingua e, al ritorno negli anni Duemila, ha ripreso le fila interrotte da alcuni decenni e il contatto con la letteratura slovena. Le sue traduzioni sono state pubblicate da editori come Forum, Voland, Carbonio, Keller, Ronzani e altre.
Come spesso accade è la vita che sceglie per te. In realtà io mi trovavo all’Università di Nairobi, avevo nostalgia della cultura europea, e il primo posto libero il Ministero degli Affari Esteri ce l’aveva a Lubiana. E così da Nairobi mi sono ritrovata catapultata in Slovenia, senza conoscere una singola parola della lingua. Figurati che non ero mai stata a Trieste, l’ho scoperta in una gita collegiale da Lubiana con le studentesse e gli studenti di italianistica della facoltà di lettere.
In quell’epoca preistorica (la maggior parte di chi sta leggendo queste righe non era ancora neanche nella mente di Dio), in Slovenia non si parlava italiano, non si parlava (o non si doveva parlare) nessuna lingua straniera, ed era malvisto che le persone interagissero con gli stranieri. Era il periodo in cui il regime nell’ex Jugoslavia aveva subito un irrigidimento, e quindi c’era molto controllo.
Comunicare con me, una straniera, era già un fatto sospetto, farlo poi nella mia lingua, quasi un crimine. Perciò l’unica via per sopravvivere era imparare lo sloveno. E così ho frequentato i corsi dell’università, il laboratorio linguistico, la mattina alle sei, col buio e il freddo… Non è stata propriamente una scelta, è stata una vera necessità di vita.
Come ti sei avvicinata alla traduzione?
Già al liceo classico a Siena amavo molto tradurre dal greco e dal latino, era una cosa che mi appassionava. Poi, arrivata in Slovenia, dopo alcuni mesi di studio, ho cominciato a tradurre cose tecniche, commerciali, pubblicità… , anche per motivi pratici, il Ministero degli Affari esteri in quel periodo aveva un budget bassissimo per chi lavorava all’estero senza un incarico ufficiale, e io, pur essendo lettrice inviata dal ministero, non ero ancora “di ruolo”.Comunque tradurre mi divertiva.
Dopodiché è apparso Marko Kravos, al quale va in perpetuo la mia riconoscenza, un poeta molto noto della minoranza sloveno-triestina, pluripremiato, all’epoca anche direttore editoriale di una casa editrice italo-slovena di Trieste. Ecco, Marko Kravos ebbe l’incoscienza di affidare a me – che ero proprio alle prime armi, avevo appena cominciato a orientarmi un po’ nella lingua e a tradurre cose non letterarie – un testo stupendo, un gioiello della letteratura slovena.
Naturalmente mi ci dedicai anima e corpo, e a tutt’oggi, anche se cambierei molte cose, trovo che sia una degna traduzione. Mi piacerebbe molto che ci fosse una nuova edizione di quel libro. Ci sono molti errori, le sviste tipiche di chi non è ancora familiare con la lingua ‘fonte’, quella dalla quale sta traducendo (essendo un’edizione bilingue è molto facile intercettarle!), però ritengo sia un bell’italiano poetico, rende onore all’originale, che – ripeto – è stupendo.
Qual è stato il primo impatto con la Slovenia?
Per me che arrivavo da Nairobi, dove era estate, fiorivano i jacaranda viola nei parchi e per i viali e le bouganville rosa, cremisi e lilla per tutta la città sotto il cielo azzurro cobalto, il primo impatto con la Slovenia fu una Lubiana cupa e grigia dove alle tre del pomeriggio era già buio, quell’anno faceva un freddo eccezionale – mi ricordo che l’orologio che torreggia in Piazza della Repubblica (ma allora si chiamava Piazza della Rivoluzione) segnava -23 – e io indossavo abiti bianchi…
Mi procurai quindi un cappotto un po’ così, delle scarpe un po’ così… giusto per affrontare l’emergenza. E finii all’ospedale! Troppo repentino e massiccio lo sbalzo, e troppo poco attenta io alle crude necessità imposte dal clima: in una parola, non sapevo prendermi cura di me. Il primo impatto è stato tosto, ecco.
Parlaci della tua parola preferita in sloveno.
Dirò la prima parola che ho imparato, e che tutti gli stranieri conoscono: sladoled, “gelato”. Non è la mia preferita in realtà, non amo i dolci, però diciamo è quella che ricordo veniva citata sempre, perché tutti gli stranieri la conoscevano tranne me… poi l’ho imparata.
La parola secondo te più difficile e/o impossibile da tradurre dallo sloveno è…
Mi viene in mente položen hrib: un dosso non tanto ripido. In sloveno basta un aggettivo, ma in italiano? Una “mite” salita, una “dolce” salita? Però non è la stessa cosa, si insinua un elemento di buonismo del dosso, della salita, che diventano ‘miti’, ‘dolci’. Invece “non tanto ripido” è neutro e preciso, si capisce meglio di cosa si parla. E questa è solo un esempio tra tanti. Una volta ne ho fatto un elenco, tutti non li ricordo…
Ah, un’espressione molto usata per dire a qualcuno che sta facendo qualcosa di bizzarro, di inaudito: Ti nisi normalen, alla lettera “Non sei normale”, oppure all’esortativo bodi normalen, alla lettera “Vedi un po’ di essere normale/di comportarti da persona normale”, ma non è la stessa cosa. Aggiungo un termine macabro: morišče, il luogo dove vengono eseguite le condanne capitali. Non c’è in italiano un termine unico.
Per una curiosità campanilistica, menzionerò che nel XIV secolo, per quanto riguarda Siena, così scriveva il cronista: “I sanesi facevano fare la justitia nel canpo del mercato”. A Lubiana invece nel XVI e XVII secolo (l’ultima esecuzione si tenne nel 1707, e fu la decapitazione di una donna) le esecuzioni capitali venivano tenute nel ljubljansko morišče detto Friškovec, allora appena fuori delle antiche mura cittadine, oggi tranquilla strada nei pressi della stazione ferroviaria centrale.
Friškovec è una strada tranquilla tra Njegoševa e Maistrova cesta, ufficialmente chiamata Friškovec dal 1923, ma il nome Friškovec è stato menzionato per la prima volta nel XVI secolo negli scritti del Consiglio comunale di Lubiana. La strada, che durante il giorno è solo un parcheggio temporaneo per i visitatori delle vicine istituzioni mediche, ha una storia molto inquietante. Chi la conosce deve rabbrividire ogni volta che una voce sull'autobus annuncia una fermata chiamata Friskovec durante il viaggio sugli autobus urbani di Lubiana. Quest'area era un tempo sede delle esecuzioni capitali di Lubiana e si trovava al di fuori delle antiche mura cittadine.
Altro esempio nel campo dell’agricoltura dove tantissime sfumature non trovano corrispondenza in italiano – o forse sono io che non conosco abbastanza l’italiano e l’agricoltura! Mi ricordo che mentre traducevo un passo del grande scrittore sloveno Lojze Kovačič mi imbattei in un termine ricorrente: gmajna, che indica uno spazio tra la fine del campo e l’inizio del bosco, un’area non coltivata e con scarsa vegetazione di solito proprietà comune degli abitanti del villaggio. Certo in italiano non possiamo tradurlo come ‘radura comunale’!!! Per dire, la precisione…
Raccontaci della tua prima opera tradotta dallo sloveno.
Fu Tantadruj di Ciril Kosmač, il titolo dal nomignolo del protagonista, un piccolo scemo del villaggio la cui massima aspirazione è raggiungere “la buona morte”, morire, perché la sua vita è misera e disgraziata, e siccome il parroco dice sempre che nell’altra saremo felici e ci aspetta la beatitudine, lui non agogna ad altro. E tutta la storia si dipana attorno al desiderio di morte di questo bambino, con un linguaggio di una perfezione altissima, una prosa cristallina, una poesia, una musica, e al tempo stesso capace di punte umoristiche, ironiche…
L’ho riletto recentemente per vedere se mi faceva lo stesso effetto, e me lo fa molto di più ora che percepisco meglio tante sfumature. Quanto tempo impiegai per tradurlo, all’epoca! Inizia con l’autore che parla di se stesso e di come si è risvegliata in lui l’immagine del piccolo scemo e al tempo stesso della madre che per prima gliene aveva narrata la storia.
Dopo la pubblicazione si sollevò anche una specie di polemica sull’aver io tradotto Tantadruj, che è il nome, anzi, il soprannome del bambino dovuto al modo in cui storpia i pronomi dimostrativi; i quali – nella pronuncia litorale dello sloveno – vedono l’aspirazione delle consonanti dure – qui druj invece di drugi, un po’ sul tipo della cosiddetta gorgia toscana.
Io avevo reso Tantadruj con Stostollà. Ancora oggi mi sembra una buona resa. Però una signora molto impegnata nel campo delle traduzioni dallo sloveno all’italiano mi accusò di imperialismo culturale, per non aver lasciato il nome in originale. Osservazione che trovai allora e trovo tuttora malposta.
Qual è il tuo rapporto con gli autori che scrivono in sloveno?
Sono davvero sorpresa dalla loro disponibilità. Goran Vojnović per esempio, non solo è disponibile, ma è anche spiritoso, ironico, generoso, davvero esemplare. Anche Dušan Šarotar è unico, la sua scrittura, di una dolcezza e profondità psicologica infinita, rispecchia il suo modo di essere, già il solo vederlo fa bene all’anima. E poi Tadej Golob, un capitolo a parte, quello di autori affermati in campo letterario che si dedicano al ‘genere’ giallo. Con opere di qualità e senza montarsi la testa per l’enorme successo.
Sono davvero commossa dalle doti umane di questi artisti, che sono grandi artisti, eppure si comportano da ‘comuni mortali’. Ce ne saranno anche altri che non sono così, forse, ma quelli che ho incontrato io sono straordinari. Rimpiango moltissimo non aver conosciuto Ciril Kosmač e Vitomil Zupan e Ivanka Hergold e Berta Bojetu. Ero in Slovenia all’epoca, sarebbe stato in teoria possibile, ma non è accaduto e lo rimpiango molto.
Che genere traduci più spesso e/o quale genere ti interessa di più?
Soprattutto narrativa, ma ho tradotto anche saggistica, poesia, non ho preclusioni. Adesso, avendo in mente la nipotina, ho iniziato a tradurre opere per bambini. Per fortuna Marko Kravos scrive anche cose per l’infanzia, così ho tradotto cose sue e di recente anche una sua raccolta di poesie, è sempre un rischio tradurre poesia, con la sua però mi sento particolarmente a mio agio.
Il nome di un’autrice o un autore che vorresti portare in Italia e/o che avresti voluto portare in Italia
Ce ne sono tantissimi, sì. Per buona parte donne: Maja Haderlap, Nataša Kramberger, Polona Glavan, Ifigenija Simonović, Barbara Korun, Mojca Širok, Veronika Simoniti, Mojca Kumerdelj, Ana Marwan, Ana Schnabl, Anja Murgeli, Irena Svetek, Suzana Tratnik, Mateja Gombac, Eva Mahkovic…
Ma non soltanto donne: Sarival Sosič, Gregor Strniša… e anche gli ultimi due di Dušan Šarotar meritano di essere letti e conosciuti: Mappa Stellare (Zvezdna karta, 2021) e Sostiene Nicomaco (Nikomah poroča, 2023). E La casa degli uccelli di Berta Bojetu.
Perché dedicarsi alle cosiddette lingue “minori”? Vantaggi e svantaggi
Mi sento a casa con il francese e con l’inglese, e potrei tradurre anche da quelle, ma visto che prima facevo tutt’altro lavoro e ho cominciato da non molto a dedicarmi sistematicamente a questa attività, sono un giovane traduttore! E per un giovane traduttore, iniziare a cercare spazi con il francese e l’inglese sarebbe una mission impossible, tutto esaurito.
Tuttavia, anche se gli editori italiani ci pensano a lungo prima di decidere di mettere in scuderia un autore sloveno [il rischio di mercato è alto, nomi sconosciuti, una letteratura che non trova risonanze nella coscienza della stragrande maggioranza dei lettori], ciononostante il campo progressivamente si allarga, sempre più editori non per necessità dell’area di confine (Friuli-Venezia Giulia) scelgono fior da fiore da una sterminata messe di opere di altissimo livello (spesso è il traduttore scout a farlo per loro) e pubblicano con costanza bei libri di grandi autori sloveni.
Perciò, anche se lo sloveno è una lingua cosiddetta ‘di nicchia’ e sono notevoli le difficoltà per la resa in italiano, ormai mi ci sento bene, ho superato la fase di acclimatamento. Non tanto da pensare o sognare in sloveno, no, questo ancora no, ma… quasi!
Traduttrice, interprete e scout letterario. S'interessa di letteratura, storia e cultura est-europea, in particolar modo bulgara. Ha vissuto e studiato in Russia (Arcangelo), Croazia (Zagabria) e soprattutto Bulgaria, dove ha conseguito la laurea in traduzione presso l'Università di Sofia “San Clemente di Ocrida”. Tra le collaborazioni passate e presenti East Journal, Est/ranei, le riviste bulgare Literaturen Vestnik e Toest, e l'Istituto Italiano di Cultura di Sofia. Nel 2023 è stata finalista del premio Peroto per la migliore traduzione dal bulgaro in lingua straniera e nel 2024 vincitrice del premio Polski Kot. Collabora con varie case editrici e viaggia a est con Kukushka tours.