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Piazza Taksim a Istanbul, il centro nevralgico del lato europeo della città sul Bosforo, non spicca certo per essere una piazza particolarmente bella, risultando anzi piuttosto deludente allo sguardo in termini estetici.
Durante i secoli dell’Impero ottomano, era questo il luogo in cui veniva centralizzato l’approvvigionamento idrico della città, da cui il nome Taksim, derivante dal termine “divisione”, “partizione” o “distribuzione” in turco (un prestito dall’arabo).
Nel corso del Ventesimo secolo, a dominare centralmente il suo spazio è stato il Monumento della Repubblica, creato dallo scultore italiano Pietro Canonica nel 1928. Si tratta di un omaggio ai fondatori della Turchia moderna, Mustafa Kemal Atatürkin primis, circondato da diverse figure della società turca: soldati, intellettuali, contadini e donne, tutti visti come elementi essenziali per lo sviluppo della repubblica, fondata sulla base di principi di laicità.
Nel 2021, a quasi un secolo dall’inizio della Repubblica turca nel 1923, una grande moschea è sorta sul lato ovest della piazza Taksim, rendendo tale monumento meno visibile e dominando in maniera incontrastata lo spazio pubblico. Tale mossa ha anche confermato il ruolo centrale di Taksim nell’autorappresentazione del paese sulla base di dinamiche identitarie “neo-ottomaniste” portate avanti dal presidente turco Recep Tayyip Erdoğan.
Tuttavia, per molti degli abitanti di Istanbul, non sono né il Monumento della Repubblica né la nuova Moschea a suscitare particolari emozioni o ricordi legati a questa piazza, bensì un elemento apparentemente marginale, uno dei più piccoli parchi di Istanbul qui situato, ovvero Gezi park.
È qui, infatti, che si è giocato uno dei capitoli più importanti della vita pubblica di questa città in tempi recenti, proprio in virtù degli alberi che costituiscono questo spazio verde. Fra la tarda primavera e l’estate del 2013, infatti, a piazza Taksim si svolsero delle imponenti manifestazioni organizzate dal basso contro il piano di cosiddetta riqualificazione urbana che prevedeva l’abbattimento di tutti gli alberi per fare spazio a un (ennesimo) centro commerciale.
Furono le cosiddette rivolte di Gezi Park, quando per alcune settimane un numero enorme di persone, la maggior parte delle quali di età compresa tra i 20 e i 40 anni, prese parte alla più grande protesta antigovernativa della storia recente della Turchia.
La repressione della polizia e il ruolo dell’AKP
Le proteste per la difesa del parco Gezi a Istanbul scoppiarono non appena i bulldozer iniziarono ad abbattere i primi alberi, il 28 maggio del 2013. Recep Tayyip Erdoğan, all’epoca primo ministro, difese strenuamente il progetto di riqualificazione del parco, che prevedeva la ricostruzione delle vecchie caserme militari risalenti all’epoca ottomana, in cui avrebbero trovato spazio un centro commerciale e degli appartamenti di lusso.
Le proteste si trasformarono in un fenomeno più ampio in seguito all’irruzione della polizia nell’accampamento degli ambientalisti nella prima mattinata del 31 maggio: fu allora che migliaia di persone si unirono al movimento, affrontando la repressione delle forze dell’ordine.
Già durante i primi scontri, la polizia fece uso massiccio di gas lacrimogeni e cannoni ad acqua contenenti pericolosi repellenti chimici. Il 2 giugno, i manifestanti riuscirono a respingere le forze dell’ordine e a occupare non solo il parco, ma anche l’intera piazza Taksim e altre zone circostanti. Ciò segnò l’inizio di un vero e proprio esperimento sociale di vita comunitaria autogestita, che sarebbe diventato una nuova “narrazione epica” nella coscienza collettiva dei partecipanti.
Fin dall’inizio, le manifestazioni furono caratterizzate da un chiaro posizionamento contro i cambiamenti radicali imposti dall’alto, che miravano ad alterare la struttura della città e la vita quotidiana delle persone che si sentivano parte di essa.
Il progetto di riqualificazione del parco di Gezi a piazza Taksim era sintomatico delle intense trasformazioni urbane avvenute dopo l’ascesa al potere del partito di Erdoğan, l’AKP (Adalet ve Kalkınma Partisi, ovvero “Partito della Giustizia e dello Sviluppo”), da lui utilizzate per sostenere la retorica della Turchia come “modello di democrazia” per altri paesi del Medio Oriente, nonché per giustificare la ripresa economica basata sul boom edilizio.
Il ruolo delle identità marginali a piazza Taksim
Oltre alle preoccupazioni di carattere ecologico, le proteste portarono a galla il malcontento delle comunità emarginate, tra cui armeni, curdi e persone di identità LGBTQIA+, che si opponevano alle politiche governative di “omogeneizzazione” culturale, nascoste sotto l’ambiguo progetto identitario del “Neo-Ottomanesimo”, nonché alle pratiche di discriminazione sociale sempre più diffuse nel paese.
Tra le varie voci in disaccordo con le giustificazioni del governo in materia di sviluppo economico e prosperità, c’erano anche attori musulmani, come i rappresentanti del movimento “Musulmani Anticapitalisti”, che criticavano il modello di crescita portato avanti da Erdoğan da un punto di vista religioso.
L’occupazione di Gezi Park trasformò l’area in un luogo temporaneamente sottratto alle autorità egemoniche e al potere della polizia: per due settimane, il parco venne condiviso come uno spazio autonomo per sperimentare nuove forme di relazioni sociali, diventando una sorta di “città nella città”, imbevuta degli ideali utopici di una società perfetta.
Tuttavia, si trattava anche di una sorta di “città assediata” che i manifestanti dovevano difendere con barricate, con i loro corpi, e con innumerevoli strategie di resistenza. La difesa del parco divenne un’occasione per fare esperienza diretta della condivisione, della solidarietà e di pratiche di cooperazione, sia nella distribuzione delle risorse che nella gestione dei compiti e degli spazi, tra cui centri di primo soccorso, una mensa, una biblioteca, un museo della rivoluzione, uno spazio per i concerti, ecc.
La proliferazione di graffiti
Uno degli elementi più salienti che caratterizzò la dimensione comunicativa delle rivolte di Gezi Park fu l’incredibile proliferazione di iscrizioni pubbliche sotto forma di graffiti.
Questo spazio liberato di azione venne infatti trasformato in un luogo in cui la parola scritta assunse un ruolo fondamentale, esercitando un forte impatto visivo e ispirando ulteriori pratiche di espressione creativa. La ‘grafomania’ che si impossessava dei manifestanti era parte di ulteriori, cruciali strategie di riappropriazione dello spazio che avevano luogo non solo nel contesto grafico ma anche in quello comunicativo più ampio: nella “safe zone” della comune, si erano infatti inaugurate varie pratiche di espressione del dissenso, libere dalla repressione e dall’assoggettamento diffuse nella normalità della vita turca.
Interessante a questo proposito come la lingua nei graffiti e in generale sulle varie superfici di scrittura fossero non solo il turco, ma l’arabo, l’inglese, il curdo, l’armeno e molte altre.
Per quanto riguarda il fattore armeno nell’esperienza di Gezi Park, se da un lato il governo giustificava il proprio progetto di riqualificazione radicale in atto nell’area di Taksim facendo riferimento alla “memoria storica” (promettendo di ricostruire le vecchie caserme militari demolite nel 1940), dall’altro ometteva di ricordare come quelle stesse caserme avessero in distrutto un precedente cimitero armeno.
Tale fatto veniva sottolineato dalla comunità armena della città durante le proteste con vari striscioni e installazioni, in particolare dagli attivisti del movimento Nor Zartonk (armeno per “Nuovo Risveglio”), che innalzavano quotidianamente il loro striscione con lo slogan Mezarlığımızı aldınız, parkımızı alamayacaksınız (in turco): “Avete preso il nostro cimitero, ma non potete avere il nostro parco!”.
In relazione alla questione delle relazioni turco-armene, durante l’occupazione del parco, venne proposto di erigere un monumento che ricordasse quello collocato a Gezi Park nel 1919, dedicato alla memoria delle vittime del genocidio armeno, poi distrutto nel 1922, e una delle vie interne al parco venne simbolicamente ribattezzata “Via Hrant Dink”, in onore del giornalista armeno assassinato a Istanbul nel 2007.
Il lascito di quell’esperienza, undici anni dopo
Il 15 giugno 2013, l’occupazione del parco venne interrotta dalla violenta irruzione della polizia, che pose fine a quasi due settimane di resistenza e autogestione continue nel cuore di piazza Taksim. Tuttavia, le proteste proseguirono anche nelle settimane successive per le strade della città, in quella che fu un’estate caldissima dal punto di vista delle lotte e della speranza per un cambiamento nel paese.
Forse, il fattore più rilevante in termini di “immaginario” dell’esperienza delle rivolte di Gezi Park consiste nell’aver tentato di unire soggetti politici le cui identità risultavano diverse e a volte persino antagoniste: dall’opposizione kemalista ai musulmani anticapitalisti, ai gruppi appartenenti alla sinistra radicale, al partito curdo, e ai membri della comunità armena. La solidarietà e la coesistenza dialogica divenne quindi uno dei fattori più visibili in quello spazio liberato, rendendo questa resistenza polifonica e rivoluzionaria.
Piazza Taksim e Gezi Park non erano più gli stessi luoghi di prima, e c’era bisogno di creare e definire punti di riferimento significativi nella coscienza collettiva, delle coordinate di una nuova area di azione e di cambiamento.
Lo spazio autogestito nella piazza più simbolica di Istanbul era caratterizzato dalla totale assenza dello stato, rappresentando un laboratorio di sperimentazione di idee relative a una Turchia diversa e possibile. A Gezi Park, si respirava finalmente l’utopia di un paese ispirato da un rapporto più sano con il proprio passato, che si mobilitava appassionatamente per costruire un futuro non più rinviabile.
È durato poco quel sogno, ma nonostante la sua brevità esso ha costituito un precedente incancellabile che continua ancora oggi ad ispirare quei cittadini (non solo in Turchia ma anche altrove) che lottano per mantenere vivo l’ideale di un paese più giusto, in cui poter vivere in maniera egualitaria, libera e realmente solidale, nel rispetto di tutti gli esseri viventi, alberi compresi.
Antropologa e ricercatrice di origine italo-messicana-levantina. Attualmente ricercatrice post-doc presso il dipartimento di Sociologia dell'Università di Ljubljana. I suoi temi di ricerca, che si ripercuotono anche sulla sua scrittura non accademica, riguardano la diaspora, i confini, la diversità culturale e le minoranze etnolinguistiche, con una predilezione particolare per l’area balcanica. Quando messa nelle giuste condizioni, parla più o meno fluentemente una dozzina di lingue e ne legge almeno altre cinque (romeno, russo, portoghese, un po’ di romanì e mandarino), grazie al suo bagaglio genealogico multiculturale e ai numerosissimi soggiorni di ricerca e studio all’estero finanziati da diversi enti nazionali ed internazionali.