Come una di quelle casualità che diventano quasi un destino, la storia di Pictoric – progetto che riunisce illustratori e illustratrici ucraine e che si propone appunto di promuovere l’illustrazione e l’arte ucraina – è cronologicamente legata all’invasione russa, nelle sue diverse fasi. L’idea ha infatti iniziato a prendere forma nelle menti dei fondatori verso la fine del 2013, poco prima che si svolgessero le fasi più cruente del Majdan e che il Cremlino annettesse illegalmente la penisola di Crimea.
Allora non ci occupavamo in maniera diretta e costante della guerra. Ma il tema entrava comunque a far parte della nostra attività, anche perché abbiamo cominciato fin da subito a collaborare con sfollati interni provenienti dalla Crimea e poi dall’est del paese.
Anna Sarvira e Oleg Gryshchenko di Pictoric
Poi, con l’invasione su larga scala del febbraio 2022, l’aggressione russa ha pervaso ogni spazio della quotidianità e il progetto è diventato anche un modo per documentare quanto stava avvenendo, o elaborare delle riflessioni a riguardo.
È così, per esempio, per la mostra collettiva Safe Place (“spazio sicuro”) presentata di recente in Italia, nell’ambito della seconda edizione del Baba Jaga Fest – rassegna di “storie e disegni dall’Europa Orientale” – che si è svolta a Roma dal 22 al 24 novembre scorso. Abbiamo incontrato Sarvira e Gryshchenko durante le giornate festivaliere.
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Potete raccontare un po’ degli esordi di Pictoric? L’idea nasceva durante le proteste di Majdan e poco prima della fase iniziale dell’invasione russa nel paese…
Sarvira: Quando abbiamo iniziato a concepire Pictoric, ci eravamo riuniti attorno alla semplice idea di organizzare qualche esposizione collettiva ma non avevano un disegno generale. Pensavamo che la scena dell’illustrazione ucraina avesse un potenziale che non riuscisse a esprimersi completamente, che non ci fosse una comprensione chiara di quali fossero le tendenze, gli stili, ecc. Quindi abbiamo messo in campo qualche progetto, invitando degli artisti a collaborare su temi specifici.
Gryshchenko: Ci rendevamo conto che conoscevamo molti illustratori brillanti in Ucraina ma ci sembrava allo stesso tempo che ci fossero pochi eventi e poche occasioni di mostrare il proprio lavoro a un pubblico più ampio, perché erano poche le persone disposte a lavorare in ottica curatoriale e organizzativa. Per cui ci siamo detti: beh, magari è questo il nostro ruolo! In questo senso, il Majdan ci ha fatto capire che si aprivano spazi di possibilità ulteriore e che sarebbe stato possibile allacciare anche rapporti più stretti con le istituzioni. Insomma, si era creata una nuova apertura verso la cultura ucraina.
Per usare una metafora, è come se si fossero rese percorribili strade secondarie dal punto di vista culturale, mentre prima esisteva solo un’autostrada a senso unico, una struttura più rigida e verticale. Questo processo di rinnovamento comunque è ancora in corso, c’è ancora tanto da fare.
Sarvira: Credo sia interessante notare anche che nel 2014 forse è iniziato in maniera definitiva un processo di separazione della cultura ucraina dalle influenze russe (o post-sovietiche). Da una parte, il Majdan ha creato la sensazione in seno al popolo di avere forza, di poter fare tutto ciò che voleva perché ha lottato contro il proprio presidente e le forze di polizia corrotti, così come ci sembrava che ci fosse la possibilità di sperimentare in senso culturale, di provare vie nuove.
C’è anche da dire che più o meno i membri del nostro collettivo hanno sempre guardato più a ovest, a quanto si muoveva fra Italia, Polonia ecc. e anche ci prefiggevamo come compito quello di portare artisti europei all’attenzione della scena ucraina. Infine, il Majdan ha anche generato un’attenzione verso i diritti umani e pure questo ha avuto un grande impatto sulla scena artistica.
Con l’invasione su larga scala, l’urgenza di distinguere la cultura ucraina da quella russa (in molti parlano di una vera e propria “decolonizzazione”) è al centro del dibattito. Qual è la vostra posizione?
Sarvira: È inevitabile guardare all’influenza russa con occhi diversi. Dal mio punto di vista, in questo momento, anche la cultura russa del passato che non ha nulla a che vedere con l’attuale invasione reca con sé comunque una dimensione propagandistica. Insomma, spesso la popolazione ucraina e la sua cultura venivano descritte come qualcosa di poco importante, di “buffo”, espressione di cittadini di seconda classe. È un paradigma coloniale, che io credo debba per forza essere investigato in maniera critica.
Allo stesso tempo, è vero che molte persone non si riconoscono in questo processo di decostruzione si sento legate emotivamente a questa cultura così come in Europa occidentale incontriamo molta resistenza ad adottare un’ottica decoloniale quando si parla di cultura russa.
Gryshchenko: Ora in Ucraina stiamo cercando di trovare la specifica identità della nostra cultura. Ci sono tante discussioni interne: stiamo provando a combinare la nostra cultura tradizionale, folcloristica, con le avanguardie autoctone degli inizi del XX secolo (che spesso sono state appropriate da russi e solo ora stiamo iniziando a sentire come “nostre”, anche solo da un punto di vista storico e filologico).
Sarvira: Esiste anche un divario generazionale: noi siamo cresciuti negli anni Novanta, quando nessuno parlava di decolonizzazione o si chiedeva quale identità specifica avesse la cultura ucraina. Poi, col tempo, abbiamo scoperto tanti artisti e autori di cui ignoravamo l’esistenza, che magari erano stati uccisi nel secondo dopoguerra e di cui era proibito parlare. Oggi, invece, le nuove generazioni crescono già in questo clima di maggiore consapevolezza.
Gryshchenko: A ogni modo, credo davvero nella possibilità che gli artisti ucraini entrino più in contatto con la scena e con un pubblico internazionali. Parte della nostra attività consiste in questo. Concentrarsi solo sulla questione dell’identità nazionale della cultura rischia di essere limitante.
Quello che mi piacerebbe è che gli artisti e le artisti ucraine possano parlare, che so, del riscaldamento globale alla pari con un illustratore francese o italiano. Credo che occorra concentrarsi su argomenti attuali e universali e spero che la scena ucraini possa avere qualcosa da dire anche su questo, non solo su se stessa.
D’altronde, non siamo un popolo peculiare e separato dal resto del mondo. Le questioni che ci troviamo ad affrontare, anche quella della guerra, hanno le loro radici in dinamiche che interessano tutti da una prospettiva globale.
Da parte degli artisti e delle artiste che collaborano con Pictoric, avete notato un cambiamento nel modo di raccontare la guerra dall’inizio dell’invasione a oggi?
Sarvira: All’inizio sicuramente prevaleva un approccio più documentario e più diretto, perché c’era una maggiore esigenza di denunciare e far conoscere al mondo quello che stava accadendo. Poi direi che le persone sono diventate molto stanche di un approccio del genere. Voglio dire, non si può vivere la realtà della guerra con quel tipo di adesione per più di un anno, vale anche per noi. Quindi mi pare che ora ci si concentri di più sul punto di vista personale si lavora più con i propri sentimenti e magari si impiega un processo maggiormente metaforico.
La stessa idea di ragionare sul concetto di Safe Space, che dà il titolo alla collettanea presentata a Baba Jaga Fest, è figlia di questa evoluzione.
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