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È da poco passata l’una del pomeriggio quando parcheggio a ridosso del più tipico autolavaggio balcanico, un agglomerato instabile di lamiere, secchi e pompe appoggiato su un fango che da generazioni ne ricopre il pavimento, fango in tutto e per tutto identico a quello che corazza il fondo delle vetture clienti: a queste, l’unico servizio che potrà essere reso sarà la diluizione della polvere spessa che ne ricopre la parte superiore. “Lavazh”, “pranje”, “perionica” li chiamano: sono dappertutto e in quantità straordinaria, vanno dalle strutture artigianali che occupano gli angoli più disagiati nei cortili dei quartieri di edilizia popolare socialista a cattedrali tecnologiche lungo le statali di tutta la regione, veri monumenti a una religione della pulizia automobilistica della quale è però difficile trovare le tracce di esercizio del culto guardando lo stato delle automobili che le percorrono. Le due cose, forse, non sono così in contrasto tra di loro.
In volo sopra il fiume
Sono in riva all’Ibar a Mitrovica, il capoluogo della regione a maggioranza serba del Kosovo. È l’ora di una delle cinque preghiere quotidiane dell’Islam e la voce di decine di muezzin vola sopra l’acqua, portata dagli altoparlanti posti in cima ai minareti che punteggiano il panorama della riva opposta, quella albanese e quindi largamente musulmana, verso la sponda sulla quale mi trovo io, quella serba e perciò cristiano ortodossa. Quel coro è un’onda larga che passa, trasversale, sopra a quelle basse e irrilevanti che increspano il fiume arrivando a bagnare il lato nemico; quando il richiamo della preghiera termina, l’onda si ritira nel suo movimento di risacca e da questa parte, quella dove il caso e il desiderio mi hanno portato, sembra di poter toccare il silenzio rabbioso che la accoglie come un segnale di sopruso ripetuto, instancabile e ironico.
Cerco un posto per mangiare un boccone. Costeggio palazzoni stinti che hanno vissuto i loro tempi migliori molti anni fa: entro in una prima kafana dove mi rispondono che no, non servono cibo, o forse sì ma fra un po’, e poi in una seconda.
È un rettangolo di tre metri per cinque a essere di manica larga, incastrato fra muretti sbrecciati, bidoni vuoti e poster stinti dagli anni e dalle condizioni metereologiche, insieme ad altre due dozzine di piccole costruzioni tutte identiche che ricordano dei ricoveri per attrezzi agricoli e che invece ospitano parrucchieri, bazaar dall’assortimento economicamente incomprensibile e agenzie di viaggio senza futuro. I tre uomini seduti al tavolino mi fanno capire che il locale non è aperto a possibili clienti, che loro si stanno godendo una birra tra amici in santa pace e che questo è ciò che vorrebbero continuare a fare se io avrò la cortesia di allontanarmi.
Alla fine riesco a trovare una porzione di ćevapčići accompagnati da cipolla tritata e birra fredda serviti da un omone baffuto fasciato da un grembiule sorprendentemente bianco, che non appena mi deposita sul tavolino metallico il piatto e la bottiglia che gli ho ordinato a gesti torna al suo cruciverba, che affronta con la serietà di un bambino di quattro anni impegnato a incastrare pezzetti di Lego.
Un eterno campo di battaglia
A Mitrovica – Kosovska Mitrovica, per essere precisi: giusto per non fare confusione con la Sremska Mitrovica in territorio serbo, trecentocinquanta chilometri più a nord – arrivo da Pristina, approfittando di un cambiamento nell’agenda di lavoro che mi porta nella capitale.
Per essere più preciso, arrivo da quel fazzoletto di terra dove, nell’arco di una dozzina di chilometri, si passa da un enorme albergo-ristorante battezzato facendo ricorso a un’ironia non proprio sottile (me li immagino, i proprietari: “Come si chiamava quel posto in Italia da dove partivano i bombardieri della Nato che andavano a Belgrado?”, – “Aviano”, – “Ecco, quello: non è il nome perfetto per l’albergo?”) al Gazimestan, il monumento di Kosovo Polje che ricorda la devastante sconfitta inflitta nel 1389 dall’esercito ottomano alle truppe cristiane.
È il posto dove Slobodan Milošević fece partire l’incendio delle guerre jugoslave degli anni Novanta, una collinetta desolata sulla quale è stata costruita una torre commemorativa guardata da una coppia di poliziotti annoiati e infestata dagli escrementi dei piccioni; è il luogo dove ancora oggi, ogni anno che il dio dei cristiani e pure quello dei musulmani mandano in terra, i serbi del Kosovo si ritrovano per celebrare una sconfitta vecchia di sei secoli e per protestare contro quella che denunciano come l’oppressione degli albanesi musulmani: il tutto con una rabbia che non si capisce come possa accompagnarsi al panorama, un quadro premoderno fatto di raffinerie, anonimi palazzi della periferia di Pristina e una pianura abbastanza desolante da provocare una curiosa sensazione di abbandono conto terzi.
I poco meno di cinquanta chilometri di strada, costeggiati da una lunga teoria di piccoli e grandi cimiteri di guerra e monumenti in memoria di questo o quel comandante dell’UÇK, portano in una città di settantamila abitanti coperta per tre quarti di bandiere albanesi e per il quarto restante di bandiere serbe: di vessilli kosovari, cioè del paese del quale la città nominalmente fa parte, non c’è nemmeno l’ombra.
Mitrovica è una Berlino dove al posto del muro c’è il ponte, perché il fiume non attraversa la città: la taglia. Da una parte gli albanesi, dall’altra i serbi: ancora una volta, nessuno parla di kosovari, perché nessuno si sente tale e non lo si sentirà almeno fino a quando sulla riva opposta vivranno “quegli altri”.
Il ponte sull’Ibar viene ricostruito e manutenuto grazie ai fondi dell’Unione europea ma non può essere usato se non da rari pedoni: l’ingresso in zona albanese è presidiato dalla polizia kosovara, quello sulla sponda serba dai carabinieri della missione KFOR. Mi fermo per salutarli in nome di una obsoleta e non richiesta cortesia fra connazionali e i trenta secondi del buongiorno-come-va diventano una mezz’ora durante la quale, dopo aver superato la sorpresa di trovarsi di fronte un italiano proprio qui, nella zona di confine di uno stato la cui esistenza non è ancora riconosciuta da tutta la comunità internazionale, mi raccontano della loro vita: sono tutti volontari, arrivano in Kosovo per una missione di sei mesi “ma poi sa com’è, non è detto che alla fine del periodo in Italia ne abbiano trovati abbastanza per darci il cambio, così finisce che i mesi diventano nove, dieci, qualcuno è rimasto anche un anno e mezzo”.
Metà della loro vita la passano pattugliando l’area di confine, quella dei comuni a maggioranza serba dove una volta al mese si rischia la guerra con il vicino di Belgrado per i motivi apparentemente più futili e perciò più seri: per dirne una, i serbi di Mitrovica e dintorni rifiutano di guidare automobili la cui targa riporti la sigla RKS perché usare la R di Republika-Republikë significherebbe riconoscere l’esistenza del Kosovo come nazione; quindi qui girano vetture con targa KS e il passaggio da un paese all’altro è regolato da accordi imperniati su soluzioni da asilo nido come il noleggio obbligatorio di una targa adesiva della nazione confinante da sovrapporre temporaneamente alla propria al momento dell’attraversamento della frontiera (dato che entrare in Serbia con una targa kosovara o in Kosovo con una targa serba equivarrebbe al presentarsi al comando di un’astronave marziana).
Il fatto è che, come in ogni asilo nido che si rispetti, c’è sempre un bambino che punta i piedi e dice “non gioco più”: e allora sono manifestazioni di piazza, blocchi stradali, incendi, truppe speciali, inviati da Bruxelles, allerte rosse, una volta al mese ad libitum sfumando.
Per evitare che qualcuno si faccia male
I carabinieri di Mitrovica passano l’altra metà della loro vita facendo la guardia ai blocchi di jersey che impediscono l’accesso al ponte “altrimenti c’è il rischio che qualcuno si lancia con la macchina verso la parte opposta per fare strike, capisce?”. Capisco. Capisco, perché da pedone posso muovermi da una parte all’altra del ponte, di questo manufatto che gli uomini costruiscono per unire fino a quando non pensano che sia meglio usarlo per dividere e, se da una parte cammino come se fossi nel Blokku di Tirana, leggendo l’alfabeto latino e ascoltando i suoni sempre incomprensibili ma ormai vagamente familiari dell’albanese, a trecento metri di distanza mi ritrovo nella versione locale della Knez Mihailova di Belgrado, fra insegne rigorosamente in cirillico e enormi statue del Principe Lazar a dominare rotonde istoriate di enormi murales che rappresentano i derelitti serbi oppressi dall’aquila bifronte albanese.
Sono diversi i lineamenti dei volti, il modo di ridere, le bevande. Sono diversi i colori. È diversa, sui due estremi del ponte, quella particolare qualità dell’aria che te ne fa avvertire la densità. È diverso tutto ed essendo tutto speculare, tutto è identico alla sua versione della riva opposta.
“A settembre c’è stato un bel casino”, mi dicono i carabinieri, “sempre per questa storia delle targhe delle automobili, ma ogni scusa è buona: i documenti, gli uffici postali, qualsiasi cosa”. Lo so, c’ero anche quella volta, me lo ricordo perché arrivai in Kosovo il giorno del mio compleanno e i miei contatti mi avvisarono il giorno prima: “noi andiamo e speriamo che ci confermino gli appuntamenti, ma i serbi hanno fatto volare i MIG sopra il confine e c’è un po’ di tensione”.
Mi piace stare ad ascoltarli. Sono in due, ho perso familiarità con le mostrine e non sono sicuro dei loro gradi ma direi che sono due sottufficiali, entrambi sulla quarantina ma vai a sapere perché fanno una vita che da una parte li obbliga a tenersi in forma ma dall’altra li invecchia più velocemente.
Sono lontani dal cliché del carabiniere di strada, quello dei posti di blocco con la Gazzella blu, e da quello del suo collega dell’ufficio denunce, che digita con due dita le risposte che sei costretto a dare a domande che vengono dagli anni Cinquanta e Vittorio De Sica: saranno pure volontari che si rendono disponibili ad andare nei buchi sporchi del mondo per prendere uno stipendio che giustifichi rischi, disagi e rapporti umani acrobatici, ma dietro ci senti preparazione, studio, cultura, elasticità mentale.
Conoscono la politica, seguono i media, parlandoci insieme provo la curiosa sensazione di avere a che fare con professionisti in tutto e per tutto identici a quelli del terziario avanzato del quale faccio parte da tanto di quel tempo che ormai chissà dove è arrivato: vestono la mimetica come io indosso la giacca, sudano per otto ore al giorno sotto il giubbotto antiproiettile come io mi faccio venire il mal di testa davanti allo schermo del portatile, hanno sempre l’indice a mezzo secondo di distanza dal grilletto della semiautomatica come io ho il pollice dalla tastiera dello smartphone (sapendo benissimo, per fortuna, che il loro mestiere consiste esattamente nel non usare quell’arma se non in casi disperati).
“Come puoi pensare tu di difendermi da me”
Scherzano con un ragazzino che gli gira intorno e che quando capisce da dove vengo mi saluta con un cordiale “italiano, figa, calcio”: “è sempre qui, non va a scuola, probabilmente non ha famiglia; è diventato una specie di mascotte” sorridono quasi giustificandosi di quella che potrebbe sembrare una caduta del rigore militare che ti aspetti da un corpo scelto che fa parte di una missione internazionale e che invece è, probabilmente, solo il piccolo segno di un modo di stare al mondo che qualche italiano continua a seguire.
Non giudicano le persone, non considerano i locali – né i serbi, né gli albanesi: sempre perché i kosovari qui non esistono proprio come concetto – dei selvaggi sanguinari pronti a scannarsi a ogni occasione, non hanno l’atteggiamento da colonialista in vacanza che è così facile trovare nei turisti e nei manager in giro da queste parti, non si ritengono migliori di coloro che dovrebbero proteggere: forse sanno, o almeno avvertono, che in realtà non possono fare più di tanto perché come dice Vasco Rossi “come puoi pensare tu di difendermi da me”.
Mi chiedono dove lavorava mio papà quando era nell’Arma, cosa che ovviamente ho tenuto a fargli sapere perché per me i carabinieri sono e saranno sempre in qualche modo gente di famiglia; si interessano del mio lavoro, del quale cerco di spiegargli qualcosa che renda credibile il fatto che sono qui e che domani mattina dovrò andare nella sede di una grande azienda pubblica a Pristina sapendo già di perdere tempo: “auguri,” ridono “qui avere a che fare con la pubblica amministrazione è persino peggio che in Italia”. “Me ne sono accorto” rispondo, complice e sconsolato.
Quando ci salutiamo ci diamo una specie di arrivederci: può essere che io ritorni pur non avendone motivo, può essere che i loro sei mesi diventino dieci o dodici o diciotto: “buon lavoro” gli dico e li mi impappino un po’ per un piccolo rigurgito di imbarazzo, perché il rapporto con i simboli e i rappresentanti della nazione e più in generale con il patriottismo è di quelli nei quali molti come me si muovono a disagio; per fortuna di questo imbarazzo non ci sono testimoni, se n’è andato anche il ragazzino-mascotte insieme alla mezza dozzina di cani randagi che sono i veri padroni di questo lato del ponte e così li ringrazio per quello che fanno perché, la verità è questa anche se la tengo per me, mi consola che sul ponte che attraversa l’Ibar la mia, la nostra faccia sia quella di questi due uomini.
Riparto, salendo sull’automobile che ho noleggiato a Tirana e passando a fianco di quello che immagino essere un monumento ai caduti (chi erano? Quale delle molte guerre che sono state combattute qui li ha lasciati sul terreno? Non ho modo di saperlo) mi riporto verso Pristina provando la curiosa sensazione di non sapere bene dove mi trovo: i paesi li fanno gli umani nella loro vita quotidiana e non le carte bollate, nemmeno quelle con i timbri delle istituzioni internazionali.
Il giorno prima, poco dopo aver scavallato le Alpi albanesi mi sono fermato a bere un caffè a Prizren, un posto dove se chiedi di pagare in lek albanesi ti guardano schifati, dove ogni moschea ha la sua targa che ricorda che la ricostruzione viene fatta grazie ai soldi del governo turco e dove i negozi di souvenir vendono le tute mimetiche con i simboli dell’UÇK in taglie adatte ai bambini di sei anni; il giorno dopo incontrerò tre signore eleganti, manager impotenti di un’azienda che, per loro stessa ammissione, non si sa da chi dipende e fatica a pagare gli stipendi, un’azienda che ha la sede a due passi da una delle principali attrazioni turistiche di Pristina: un monumento tipografico, una specie di grande scritta con le lettere alte un metro appoggiate in bell’ordine sul pavimento di una piazza: dice “newborn”, neonato, e si riferisce alla nazione, quella di cui nessuno sa dire con precisione chi sia il padre e chi sia la madre.
Si guadagna da vivere come marketing manager di un’agenzia di comunicazione. Conosce e frequenta i Balcani per motivi professionali e personali da una quindicina d’anni e ha scritto due libri: Zona di alienazione su Čornobyl’ e Il Tunnel sul suo viaggio in Bosnia.