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A livello di governo la Belarus’ è la nazione europea che meno ha conosciuto un ricambio negli ultimi trent’anni, con Aljaksandr Lukašenka che si trova ininterrottamente a capo della repubblica post-sovietica dal 1994. Eppure, la vita sociale, politica e culturale del paese è in continuo fermento: dagli inizi degli anni Duemila, è andata crescendo una dissidenza interna e una contestazione del potere che sono culminate con le proteste di massa del 2020 le quali, a loro volta, hanno prodotto una forte emigrazione e la creazione di un governo in esilio.
A complicare il quadro l’invasione russa dell’Ucraina del 2022 ha posto la Belarus’ in una situazione di “co-belligeranza”, dal momento che il territorio del paese è stato utilizzato dall’esercito di Vladimir Putin per lanciare attacchi contro Kyiv, ma ha anche dato ulteriore spinta ad alcune delle forze di opposizione che da una parte hanno messo in atto sabotaggi e azioni contro la guerra e dall’altra sono andate a ingrossare le fila dell’esercito della nazione aggredita.
Ma la repressione continua implacabile, suggellata anche da una nuova tornata elettorale, puramente rituale, che a fine febbraio ha riconfermato senza sorprese Lukašenka, e da un rapporto ancora più stretto con la Russia, che di recente ha spostato in Belarus’ alcune armi nucleari tattiche. Secondo il centro per i diritti umani Viasna, al momento ci sono oltre 1.300 prigionieri politici nel paese.
Abbiamo parlato con Taciana Niadbaj, presidentessa della sezione bielorussa dell’organizzazione di scrittori e scrittrici Pen, che si occupa della libertà d’espressione e della difesa dei diritti dei professionisti nel campo della cultura (dal 2019 al 2021 è stata a capo dell’organizzazione la premio Nobel Svjatlana Aleksievič).
Tre anni fa Pen-Belarus è stata dichiarata illegale in Belarus’ ed è stata smantellata.
Qual è la tua valutazione della situazione attuale rispetto alle violazioni dei diritti umani e, in generale, rispetto al clima che si respira in Belarus’?
Ogni giorno ci sono nuovi arresti e nuove persone che entrano in carcere. Ogni giorno si verificano perquisizioni, fermi, processi nei tribunali; e questa incessante repressione, dal mio punto di vista, racconta sostanzialmente di come il regime attuale non possa permettersi di mostrare alcun segno di debolezza, né di allentare le persecuzioni nei confronti dei propri cittadini, perché ha capito il potenziale che avevano le proteste del 2020.
Molte persone se ne sono andate dalla Belarus’, chi è rimasto ha molta paura e tutti sanno che sarebbe un suicidio scendere in strada a protestare. Non è proprio più possibile organizzare eventi o manifestazioni di massa, l’opposizione che è rimasta all’interno del paese è entrata quasi interamente in clandestinità (come è il caso dei sabotaggi alle linee ferroviarie in relazione alla guerra).
Certo, continuano a esserci persone che portano avanti piccoli gesti di dissenso, soprattutto simbolico, come piccoli flash-mob o come l’affissione di adesivi nello spazio pubblico. Ma non c’è la forza, né la possibilità effettiva, di ribellarsi.
Inoltre, almeno nel campo di cui ci occupiamo che è quello culturale, notiamo anche una crescente difficoltà da parte delle persone di rivolgersi alle associazioni per la difesa dei diritti umani. Le persone hanno sempre più timore a cercare aiuto. Non tutti, ma molti. Questo chiaramente aumenta la sofferenza dei prigionieri politici e dei loro parenti e amici. C’è, in generale, una grande paura a parlare e a fornire informazioni.
Il punto è che anche l’assistenza ai prigionieri politici viene classificata come “supporto all’estremismo” e viene spesso sanzionata con multe salate. A volte, per chi è detenuto, il fatto di non rivolgersi a organizzazioni di sostegno può portare a sconti di pena, o comunque a sperare in un giudizio meno duro da parte del sistema carcerario.
L’inizio dell’invasione in Ucraina ha aggravato la situazione?
Per noi è fonte di un dolore profondo il fatto che dalla Belarus’ venivano sparati dei missili contro l’Ucraina e che il mio paese sia in qualche modo compartecipe dell’aggressione.
A livello personale, posso dire che l’inizio dell’invasione russa contro l’Ucraina mi ha provocato tre sensazioni differenti in fila l’una con l’altra (mi trovavo a Vilnius quando ho appreso della notizia): innanzitutto, una reazione di rabbia e disperazione per le conseguenze che la guerra avrebbe portato al popolo ucraino; poi, la paura che il conflitto si sarebbe potuto estendere anche sul territorio del mio paese; infine, lo sconforto perché da quel momento in avanti più nessuno si sarebbe interessato ai prigionieri politici in Belarus’. Proprio per questo, per quanto doloroso possa essere, credo sia importante per noi continuare con la nostra attività e focalizzarci sulla difesa dei diritti umani dei nostri concittadini.
È strano: prima dell’invasione su larga scala c’era una forte collaborazione tra le organizzazioni culturali bielorusse e il movimento ucraino, si pensava che i due popoli si capissero molto bene. Al contrario, oggi, la guerra ha forse acuito le differenze e le incomprensioni: non posso non notare che nei confronti del popolo bielorusso, che viene a volte assimilato al suo governo alleato di Putin, si è diffuso un certo disprezzo e la sua lotta viene riconosciuta sempre meno.
In un certo senso è fisiologico: capisco bene che al momento la priorità per l’Ucraina è respingere l’invasione russa e combattere per il proprio futuro. Inoltre, mi viene da dire, è anche la tragedia del popolo ucraino nel 2014 (svolta che ha posto le basi per la guerra attuale) a non essere stata compresa fino in fondo.
Oltre alle divisioni fra i diversi paesi, ci sono anche divisioni all’interno della stessa opposizione bielorussa…
È vero, all’interno dell’opposizione ci sono pensieri, visioni e opinioni molto differenti e al momento non esiste un consenso di massima. Il che, d’altra parte, è anche segno di una certa vivacità della società bielorussa all’esterno e non.
Noi del PEN siamo un’organizzazione di sostegno ai detenuti politici nel campo della cultura e non abbiamo l’obiettivo di schierarci apertamente per una parte o per l’altra: in generale, sosteniamo tutte le forze democratiche esistenti pur mantenendo una certa distanza. Io personalmente credo che sia importante mantenere una certa unità e che la diversità di opinioni vada inclusa il più possibile all’interno di un unico movimento. Tuttavia, bisogna riconoscere il fatto che ora nessuno ha chiaro che cosa si possa fare nel contesto attuale, quali debbano essere gli obiettivi più urgenti.
Siamo tutti d’accordo: occorre liberarsi del dittatore Lukašenka, altrimenti non potrà darsi alcuno sviluppo democratico del paese. Senza dubbio. Dopodiché, esiste un grosso dibattito fra concezioni anche molto differenti fra loro, su come possa essere gestita un eventuale transizione, attraverso negoziazioni o meno, ecc.
La questione dei prigionieri politici rimane fondamentale. Bisogna salvare quelle persone. In questo momento, a chi si trova in carcere molto spesso non è concesso leggere o scrivere, ricevere lettere… Le persone perdono la propria salute sia mentale che fisica. Se la società tutta è imprigionata, è ovvio che non ci sarà alcun cambiamento.
Quale può essere il ruolo della cultura e della letteratura in una tale situazione?
Quando la nostra organizzazione ha iniziato a operare negli anni Novanta subito ci siamo interessati alle condizioni dei diritti umani e dei diritti dei prigionieri politici. Ma l’intento più ampio era in un certo senso quello di “riparare la società” e fare in modo che si creassero le condizioni per un miglioramento generale del paese. Allora non si erano ancora verificati gli accadimenti più significativi degli ultimi anni, come la pandemia, le proteste del 2020, la guerra in Ucraina, ecc. Soprattutto dalle proteste di quattro anni fa abbiamo capito che un tale progetto di cambiamento non sarebbe mai stato possibile attraverso la collaborazione, anche conflittuale, con le autorità ufficiali.
A ogni modo, nel 1994 abbiamo avuto le nostre prime elezioni democratiche come paese indipendente. Poi, cosa è successo? Sono iniziate le falsificazioni e la repressione e, dal mio punto di vista, il dato di fondo è che in Belarus’ ha vinto il populismo perché non c’era sufficiente educazione presso la società, non c’era sufficiente pensiero critico, non c’era una vera diversità politica all’interno della classe dirigente.
La realtà di fondo è che non abbiamo ancora uno stato che sostenga lo sviluppo della cultura bielorussa. No, c’è un regime che al contrario assimila la cultura e la letteratura del paese a quelle russe e nega la ricchezza e la varietà del pensiero nazionale.
A livello personale, quali sono le tue fonti di ispirazione come poetessa e scrittrice?
A differenza di molti dei miei colleghi che hanno iniziato a scrivere in russo per poi passare al bielorusso, io ho iniziato a esprimermi direttamente in bielorusso. Sicuramente la possibilità di fare la conoscenza di altri scrittori e altre scrittrici legate all’organizzazione del PEN mi ha influenzato e mi ha permesso di conoscere diversi stili e visioni del mondo.
D’altra parte, con le proteste del 2020 e poi con l’invasione su larga scala dell’Ucraina, la situazione è molto cambiata: diciamo che è diventato più difficile trovare la parole giuste per una poesia perché ti accorgi che molto spesso le parole che impieghi non restituiscono appieno la profondità di quello che provi e che senti. Quando scrivo sono sempre me stessa, come prima, ma forse la base della mia ispirazione è cambiata, e mi sono maggiormente orientata verso la realtà, più che ai miei sentimenti interiori ora guardo al reale. Allo stesso tempo, le occasioni per scrivere si assottigliano: mi sto concentrando molto sull’attività di difesa dei diritti dei prigionieri politici.
giornalista pubblicista, collabora con diverse riviste e diversi siti on-line, occupandosi principalmente di quanto si muove a livello politico e sociale in area est-europea e anatolica. Ha scritto di proteste femministe in Polonia, dell’elezione del primo sindaco comunista eletto in Turchia, di compagnie teatrali clandestine in Bielorussia e di cosa vuol dire fare informazione indipendente in Transnistria.