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Il punk sloveno venne prima. Intervista a Marina Gržinić

In occasione della mostra, in programma al Cankarjev Dom di Ljubljana, abbiamo fatto una chiacchierata con la curatrice, la professoressa Marina Gržinić, che ci ha parlato delle specificità della corrente slovena e dei fattori che più di quarant’anni fa ne agevolarono la diffusione tra i giovani

Esplorare il ruolo del punk in Slovenia e nell’ex Jugoslavia nel suo periodo d’oro, senza risentimenti né romanticismi, ma con lo sguardo rivolto al futuro. È questo il proposito della mostra fotografica Slovenski punk in fotografija (“Il punk sloveno e la fotografia”) che dal 5 dicembre sino al 30 gennaio prossimo è visitabile al Cankarjev dom. In mostra ci sono le opere fotografiche, le riflessioni e le immagini di Janez Bogataj, Božidar Dolenc, Vojko Flegar, Dušan Gerlica, Siniša Lopojda, Elena Pečarič, Matija Praznik, Bogo Pretnar, Mladen Romih, Tone Stojko, Jože Suhadolnik, Jane Štravs, Igor Vidmar e altri ancora.

La mostra propone un momento di riflessione su diversi piani interpretativi della cultura alternativa e di alcune mode che furono importate in Slovenia dall’estero, ma che nel contesto ex-jugoslavo presero delle forme del tutto originali. Contribuì a tutto ciò la posizione geopolitica del paese. Come ci ricorda lo storico Oskar Mulej nell’articolo A Place Called Johnny Rotten Square: The Ljubljana Punk Scene and the Subversion of Socialist Yugoslavia, la Jugoslavia era in passato uno stato non allineato, un cuscinetto tra “est” e “ovest”. Anche grazie a questa sua peculiarità geografica, a confine tra due mondi in conflitto sul piano ideologico, il livello di repressione era indubbiamente minore rispetto ad altri paesi del blocco dell’est. Il regime jugoslavo mostrava un livello di flessibilità maggiore: una certa tolleranza da parte delle autorità, soprattutto nel campo della cultura popolare, era garantita.

Mladen Romih Grupa 92

Nonostante ciò, mentre dagli anni Sessanta sino alla seconda metà degli anni Settanta il regime jugoslavo fu alquanto rilassato nei confronti della musica rock e di altri simili elementi della cultura di massa, con l’avvento del punk verso la fine degli anni Settanta e della new wave jugoslava, i rapporti cambiarono parecchio. L’atteggiamento dei nuovi gruppi musicali non fu più un atteggiamento di accondiscendenza nei confronti del potere. A una crescente presa di distanza dallo stesso si affiancò un’attitudine sempre più critica nei confronti delle autorità. E proprio nella capitale slovena si sviluppò in quel periodo un fermento artistico, culturale e sociale senza pari.

La suddetta mostra mette in risalto il ruolo documentativo della fotografia nel contesto della cultural alternativa slovena del passato. Oggi è (anche) grazie alle fotografie conservate di quel tempo se possiamo meglio comprendere gli stili alternativi dell’epoca, i luoghi, le piazze, le vie, i locali e i centri di aggregazione giovanile in cui si formò una cultura indipendente e trasversale. Il punk non ha caratterizzato solo la musica, bensì anche la moda, il modo di concepire diversi stili di vita e, infine, l’arte a trecento sessanta gradi. Come spiega nella nota introduttiva la curatrice della mostra – la professoressa Marina Gržinić –, la fotografia si è rivelata un mezzo potente per manifestare l’atteggiamento di dissenso nei confronti dell’establishment, come anche per condividere riflessioni e punti di vista in riferimento alle questioni politiche e sociali, oltre che per la creazione di una nuova cultura estetica, che ha segnato in maniera indelebile l’epoca.

Professoressa Gržinić, cos’è il punk e come possiamo intenderlo oggi?

Direi che il punk può essere concepito come l’apice di un certo movimento rock’n’roll e di quelle che ne sono le sottoculture di riferimento. Quando si parla di questo fenomeno sociale e culturale si può togliere qualsiasi residuo di nostalgia o qualsivoglia risentimento romantico. Il punk nasce in contrasto al capitalismo; in altre occasioni è stato efficace a sfruttare le correnti musicali di nicchia oppure le mode minoritarie, lanciandole in un contesto consumistico. Questo non è accaduto con il movimento punk. Possiamo dire che, da questo punto di vista, il punk è uscito indenne dal contesto di riferimento, conservando la propria indipendenza. Già dalla metà degli anni Ottanta, soprattutto nel biennio 1985-1986, si è formato un nuovo discorso, chiaro e netto, sul post-punk.

All’interno di tale cornice quali erano le specificità del punk sloveno e, più in generale, di quello ex jugoslavo?

È opportuno osservare che nell’ex Jugoslavia il punk ha preso piede subito dopo la nascita di questo stile in Inghilterra con i Sex Pistols. In Slovenia l’onda punk si è formata a soli due anni di distanza – un tempo brevissimo se si pensa che stiamo discutendo degli anni Settanta. Sin da subito si sono manifestate caratteristiche e peculiarità dovute alle differenze sistemiche: se da un lato c’è il capitalismo, dall’altro c’è il socialismo. Per quanto riguarda il sistema socialista dell’ex Jugoslavia, la cultura alternativa e le sottoculture hanno rappresentato un punto di discontinuità col passato senza eguali. Possiamo dire che prima del suo avvento, l’unico punto di rottura sul piano artistico-stilistico rispetto alla logica modernista dominante è stato dato dall’attività del collettivo OHO. Parliamo di un gruppo artistico di grande caratura, che in Slovenia ha subito una tale pressione da doversi trasferire a Belgrado. Solo in un secondo momento il menzionato collettivo è stato riabilitato e apprezzato. Ci è voluto del tempo…

La scena punk slovena si fece apprezzare per la sua indipendenza e per la critica aperta nei confronti del regime politico socialista e delle norme sociali vigenti. Eppure, allo stesso tempo era anche convintamente filo-socialista, schierata a favore dei diritti dei lavoratori, a fianco dei giovani e contro le forme di ingiustizia sociale. Anche grazie a questa presa di posizione la cultura alternativa è riuscita ad incidere profondamente sulla società slovena, supportandone le istanze d’indipendenza e di maggiore libertà.

Per quanto concerne la produzione musicale delle band di riferimento e in genere l’attività dei seguaci del punk, direi che condividevano appieno l’importanza dei testi scritti. Componevano in maniera incisiva. Un esempio su tutti? Brane Bitenc, cantante del gruppo Otroci Socializma. Attraverso i testi delle canzoni è riuscito a produrre un’analisi lucidissima e dettagliata della nomenclatura politica dell’epoca nonché delle classi sociali: la borghesia da un lato, la classe proletaria e dei lavoratori dall’altro.

Ritornando alla mostra in questione, oltre alle foto in sé in questa occasione sono esposti alcuni testi, delle copertine dei dischi e delle cassette musicali dell’epoca. Oltre ai menzionati Otroci Socializma ci sono le foto e le copertine di band quali Pankrti, Via Ofenziva, Lublanski psi, Niet, Šund, Grupa 92, O! Kult, oppure l’ensemble femminile Tožibabe – uno dei primi gruppi punk composto da sole ragazze.

Leggi il nostro articolo: Concerti da stadio e fabbriche dismesse: viaggio nella musica alternativa slovena
Ci sono altri elementi caratteristici dei movimenti alternativi e delle sottoculture slovene a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta?

Certamente. Lo sviluppo del punk nella capitale slovena non può essere compreso a fondo se non si considera il ruolo della radio giovanile Radio Študent. Fu la prima radio indipendente in Europa. Ha iniziato a trasmettere a seguito degli avvenimenti risalenti al Sessantotto. Avendo ottenuto la possibilità di trasmettere liberamente, seppur nel solo circuito di Lubiana, si è conquistata la propria indipendenza, preservata nel tempo. Non solo nell’ex Jugoslavia, ma altresì su un più ampio piano europeo, si è trattato di una conquista a dir poco epocale. La libertà dei programmi musicali e della musica che passavano in radio hanno aiutato a plasmare la scena punk lubianese.

C’è poi un altro dato rilevante che ci aiuta a meglio riflettere sullo sviluppo del punk sloveno. Si tratta della libertà di circolazione all’estero di cui potevamo beneficiare nell’ex Jugoslavia, a differenza di quanto accadeva in tutti gli altri paesi del blocco dell’est. Non è un dato trascurabile né di secondaria importanza. Grazie ai passaporti potevamo viaggiare all’estero in modo abbastanza libero. Vi racconto un’esperienza personale. Ricordo che alla fine degli anni Settanta potei intraprendere un viaggio in autostop fino a Londra. All’epoca era per me qualcosa di straordinario.

Inoltre si poteva varcare senza troppi problemi il confine con le realtà limitrofi…

Esattamente. Ritengo che la Slovenia e la Croazia abbiano potuto beneficiare della prossimità con l’Italia, un Paese che in quegli anni ha sempre mantenuto un buon livello culturale, dimostrando di avere uno status proprio sul versante della produzione culturale, anche per quanto concerne la cultura non standardizzata. Per me, membro della comunità italiana di Fiume, l’Italia ha sempre significato una ricca fonte di informazioni e di stimoli intellettuali. Negli anni della gioventù mi recavo spesso a Trieste, dove avevo accesso a molte riviste interessanti. Potevamo acquistare fumetti e numerosi prodotti della cultura pop dell’epoca. Senza scordare i libri di qualità…

Ad esempio?

Mi riferisco ai libri di Jacques Lacan – il celebre psicanalista e pensatore francese che ha inciso in maniera fondamentale sulla produzione teorica che si è sviluppata in Slovenia. Avevo accesso alle traduzioni italiane dei suoi libri e dei suoi scritti. Lacan ha rappresentato, assieme al post-marxismo, la teoria femminista e al punk, il quarto elemento su cui si è fondata la sottocultura slovena alla fine degli anni Settanta e all’inizio degli anni Ottanta.

Insomma, per i giovani all’epoca non mancavano informazioni e stimoli culturali…

A Fiume trasmettevano la televisione italiana. La guardavo quotidianamente. Come appartenente della comunità italiana ho goduto di questo diritto appieno. Questo era per me molto importante. Quando poi mi sono trasferita a Lubiana, le cose mi sono apparse ancor più chiare. I giovani che incontravo erano propensi a ragionare in modo indipendente e i nuovi media, tra cui menzionerei le riviste Mladina e Tribuna, incrementavano le opportunità, ampliando lo spazio di riflessione.

All’epoca un importante luogo d’incontro per i giovani che risiedevamo, studiavamo e lavoravamo nella capitale era il centro culturale studentesco Škuc – Študentski in kulturni center, sito nella parte vecchia della città. In poco tempo è diventato un vero e proprio punto d’incontro anche per gli studenti che provenivano da altre città e da altre regioni. Ci trovavamo per guardare i film, organizzavamo eventi e mostre d’arte. Discutevamo di politiche abitative e con i coetanei ragionavamo sulle problematiche connesse, scendendo in strada a manifestare la nostre posizioni. In parallelo ha acquisito popolarità il Disko FV 112/15, che si trovava all’interno della casa dello studente. Vi si sono esibiti svariati gruppi musicali, dando ampio risalto alla cultura punk e alla filosofia “do it yourself”. A farci compagnia c’erano anche alcuni studenti provenienti dall’Africa, che hanno contribuito a rendere popolari generi e stili quali il reggae e il rasta-fa, che hanno coabitato con la scena punk locale. Potremmo dire che in quello spazio due o più culture – molto diverse tra loro – hanno per anni vissuto in perfetta simbiosi.

Senza rimpianti mi sento di poter affermare che si trattò di un periodo rivoluzionario. Anche per merito di quel periodo, a cavallo tra i Settanta e gli Ottanta, tutto quel che ne è seguito per un decennio è stato così dirompente, innovativo e privo di compromessi.

Poi cosa è accaduto?

Finiti gli anni Ottanta, quando nel 1991 la Slovenia ha conquistato la propria indipendenza politica, nel paese hanno iniziato gradualmente a prendere il sopravvento le forze conservatrici. Sia chiaro: la via verso l’indipendenza è stata l’unica via percorribile. Eppure, non appena l’obiettivo è stato raggiunto, la società ha voltato pagina. Tra certe fasce della popolazione si sono presto diffuse idee autoreferenziali del tipo “noi possiamo tutto”, “siamo i migliori” ecc. In un certo senso è come se le provocazioni inscenate dai Laibach fossero diventate di colpo realtà. Mi spiego. Gruppi come i menzionati Laibach hanno provocato la società slovena in modo esemplare, dicendole di voltarsi e guardare al proprio passato. Poi, però, tutto d’un tratto ti ritrovavi gente apertamente di destra e palesemente reazionaria ad ogni angolo di strada, un po’ ovunque…

Non a caso uno dei nostri pensatori più prolifici dell’epoca d’oro del punk – l’ideologo sloveno Igor Vidmar – avrebbe successivamente scritto un libro intitolandolo Punk je bil prej (“Il punk venne prima”). Dobbiamo domandarci: prima di che cosa? La risposta è chiara: prima dell’indipendenza. Dopodiché la società ha preso una via conservatrice, basata sulle privatizzazioni e con l’idea di cancellare anche quanto di buono si poteva conservare dal sistema precedente. Personalmente ritengo che, tra l’altro, le università e i centri preposti allo sviluppo di nuove idee e del sapere non hanno svolto il proprio compito fino in fondo, venendo perciò meno al proprio ruolo.

Per finire, tornerei alla mostra, visitabile fino al 30 gennaio prossimo. Ce la può raccontare brevemente?

La mostra è nata con uno scopo ben preciso. Dimostrare che senza la consapevolezza della propria storia e del proprio passato un paese non può riflettere efficacemente sul proprio futuro né sul proprio destino. L’idea di base non è tanto fare un campionario di un fenomeno culturale che si è rivelato tanto spontaneo quanto centrale per la più ampia società slovena, quanto piuttosto farlo con l’obiettivo di pianificare con cura e consapevolezza un archivio per il futuro. Tale da risultare utile ai giovani un domani. Le foto esposte all’interno del Cankarjev dom sono concepite come delle vere e proprie narrazioni, discorsi che riflettono un nuovo tipo di pubblico, una scena innovativa con volti giovani e idee genuine. Testimoniano del desiderio di cambiamento, del caos, ma anche di una presa di coscienza critica delle persone all’epoca. L’auspicio è che tutto ciò possa rendere bene l’idea che è possibile costruire una visione chiara e genuina del futuro, da trasmettere ai giovani assieme al coraggio di prendere in mano il proprio destino.


Le foto contenute nell’articolo fanno parte del press kit della mostra

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Mitja Stefancic
Mitja Stefancic

Nato a Trieste, dopo gli studi conseguiti all’Università dell’Essex e all’Università di Cambridge, è stato cultore in Economia politica all’Università di Trieste. È stato co-redattore della rivista online di economia “WEA Commentaries” sino alla sua ultima uscita. Si interessa di economia, sociologia e nel tempo libero ha seguito regolarmente il basket europeo ed in particolare quello dell’ex-Jugoslavia nel corso degli ultimi anni. Ha tradotto per vari enti ed istituzioni atti e testi dallo sloveno all’italiano e dall’italiano allo sloveno.