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Quelle micronazioni lungo il Danubio

Se siete convinti che i Balcani occidentali siano composti da sei o massimo otto stati, questo articolo potrebbe farvi cambiare idea. No, non stiamo parlando dell’annosa questione del Kosovo, il cui riconoscimento internazionale dipende dalla volontà di una manciata di stati in seno alle Nazioni Unite, bensì di Liberland, Verdis, il Regno di Enclava, il Principato di Celestinia e il Principato di Ongal: tutte micronazioni che, incuneandosi in un contenzioso territoriale tuttora irrisolto tra Croazia e Serbia, hanno trovato lo spazio per proclamare la propria indipendenza. Ovviamente, unilaterale.

Alle radici del contenzioso

Per comprendere come si sia giunti all’attuale contenzioso, bisogna riavvolgere il nastro della storia almeno fino al 1945, anno di istituzione della cosiddetta commissione Đilas, tenuta a delineare i confini delle repubbliche costituenti la nuova Jugoslavia socialista. In quel frangente sorsero due posizioni differenti inerentemente al confine serbo-croato lungo il Danubio: per i serbi la frontiera avrebbe dovuto seguire il corso naturale del fiume, mentre i croati sostennero la necessità di avvalersi delle mappe catastali esistenti a disposizione delle rispettive municipalità per tratteggiare la nuova frontiera.

Queste mappe, tuttavia, facevano riferimento al confine catastale preesistente al XX secolo, ovvero quando il Danubio non aveva ancora subito le numerose deviazioni naturali e artificiali che ne determinano il corso odierno. Di conseguenza, la frontiera tratteggiata dai croati comprendeva territori che originariamente erano locati sulla sponda destra del fiume, ma che al momento della rivendicazione si trovavano sulla sponda sinistra.

Ad ogni modo il contenzioso, considerato poco rilevante nello spirito di fratellanza e unità tra i popoli slavi del sud che caratterizzava quegli anni, venne accantonato e giacque nell’oblio, irrisolto e dimenticato, fino ai fatidici anni Novanta. Nel contesto dei crescenti attriti tra le repubbliche e del conflitto aperto tra Serbia e Croazia, la questione dei confini tornò ad assumere una posizione di primaria importanza.

Il comitato arbitrale Badinter nel 1992 sancì che, per il principio di uti possidetis, “i limiti tra Croazia e Serbia, tra Bosnia ed Erzegovina e Serbia e possibilmente di altri Stati indipendenti adiacenti non possono essere modificati tranne che per accordo libero tra di essi”. Sebbene la Serbia, al contrario, avesse in precedenza affermato che i confini avrebbero potuto cambiare in seguito alla dissoluzione della Jugoslavia, sancire lungo quale linea corresse il confine precedentemente al conflitto tornò a essere prioritario tanto per Belgrado quanto per Zagabria.

Le posizioni, nella sostanza, non differirono da quelle del 1947, con i serbi che reclamarono tutti i territori sulla sponda sinistra del Danubio e i croati che ribadirono la validità delle mappe catastali esistenti. In ballo, tutto sommato, c’erano circa 140 chilometri quadrati di territorio fluviale, che sarebbero andati principalmente ai serbi nel primo caso, ai croati nel secondo. Si tratta di territori interamente disabitati, totalmente privi di infrastrutture e risorse, ma che in tempi di nazionalismo dilagante e becero revanscismo si adattano particolarmente alla retorica guerrafondaia della difesa del suolo patrio.

Šarengrad e Vukovar, le isole contese

Se si segue il corso del Danubio, tra Vukovar e Šarengrad si incontrano nel giro di una ventina di chilometri diversi isolotti, sorti nel corso del tempo a causa dei detriti trasportati dal fiume o in seguito ad opere di ingegneria idraulica. Due di queste – rispettivamente l’isola di Vukovar e l’isola di Šarengrad – sono tuttora oggetto di un contenzioso internazionale tra Serbia e Croazia.

Isole di Šarengrad e Vukovar
Elaborazione realizzata mediante datawrapper.de

Durante il conflitto degli anni Novanta, entrambe le isole furono occupate dalle milizie serbe. L’accordo di Erdut, che prevedeva la ripresa del controllo della Slavonia orientale, della Baranja e della Sirmia occidentale da parte delle autorità di Zagabria in seguito alla conclusione vittoriosa della guerra d’indipendenza croata, lasciò l’isola di Vukovar e l’isola di Šarengrad sotto il controllo delle forze serbe.

In quest’ultima nel 2002 si verificò uno degli incidenti più gravi tra Serbia e Croazia a seguito della cessazione delle ostilità, quando una nave da guerra jugoslava aprì il fuoco su quattro imbarcazioni croate dirette verso l’isola di Šarengrad. I natanti non trasportavano passeggeri qualsiasi, ma una delegazione di dignitari serbi e croati che includeva sindaci, governatori e anche minori provenienti da entrambe le sponde del Danubio, con l’intento di visitare l’isola e rilanciare il dialogo tra le due comunità. In seguito la motovedetta sparò anche su un’imbarcazione della guardia costiera croata accorsa in soccorso, e il suo equipaggio provvide ad arrestare e interrogare i passeggeri, rilasciandoli solo dopo qualche ora.

L’incidente causò ampie polemiche in Croazia, alle quali fecero seguito le scuse formali dei massimi vertici dello stato serbo, che attribuirono l’incidente alla scarsa comunicazione tra le autorità competenti. Due anni dopo lo spiacevole episodio, la Serbia ritirò ufficialmente l’esercito da entrambe le isole, che venne sostituito da forze di polizia regolari. Dal 2006, inoltre, l’isola di Vukovar è tornata ad essere accessibile anche ai croati, i quali durante il periodo estivo possono raggiungere l’isola tra le sette del mattino e le otto di sera, senza bisogno di esibire il passaporto o passare attraverso i controlli di frontiera preposti. Sulla scia di questa iniziativa, dal 2009 anche l’isola di Šarengrad ha concesso le sue coste ai croati, elargendo permessi per soggiorni di breve durata.

Dunque, siamo prossimi a una risoluzione della controversia? Non si direbbe proprio, almeno stando ai risultati della commissione intergovernativa serbo-croata preposta alla risoluzione della diatriba. Dopo un lavoro decennale iniziato nel 2000 – con incontri molto sporadici a onor del vero – la commissione seppe unicamente sancire l’inconciliabilità di vedute tra le due fazioni. A pesare sul muro contro muro c’è da sottolineare la volontà, da parte delle autorità serbe, di costruire una nuova area portuale ad Apatin, in un territorio formalmente rivendicato dai croati.

Sebbene oggi la situazione appaia congelata e il raggiungimento di un accordo non sembri una priorità né dell’una né dell’altra parte, vale comunque la pena riflettere brevemente sui rapporti di forza tra le due parti in causa. Nonostante la Serbia possa apparire in una posizione dominante, detenendo il controllo de facto dei territori rivendicati dalla Croazia sulla sponda sinistra del Danubio, la Croazia rimane pur sempre un membro dell’Ue, con potere di veto su questioni di importanza fondamentale quali l’allargamento europeo. Come molti altri paesi hanno già fatto in precedenza, Zagabria potrebbe approfittare di questa prerogativa per bloccare l’accesso di Belgrado alle istituzioni comunitarie fintanto che non si giunga a una risoluzione del contenzioso favorevole ai croati, replicando così facendo l’atteggiamento subito da parte della Slovenia riguardo al contenzioso sul golfo di Pirano.

Terrae nullius e micronazioni

Quelle appena descritte non sono però le uniche peculiarità sul tratto di confine danubiano che separa la Croazia dalla Serbia. Anzi, proprio le dichiarazioni ufficiali espresse e ribadite a più riprese dai due paesi balcanici hanno dato margine di manovra ad attori terzi per inserirsi in questa diatriba, ritagliandosi pezzetti di notorietà (e territorio). Infatti, mentre la posizione ufficiale della Croazia è di ritenere propri i territori contesi sulla sponda sinistra del Danubio, e serbi i lembi di terra residuali sulla sua sponda destra, la Serbia rivendica unicamente il legittimo possesso delle aree già occupate sulla sponda sinistra, senza avanzare alcuna istanza sui territori al di là del corso d’acqua.

Ne consegue che i suddetti lembi di terra sulla sponda destra, de facto in territorio croato, siano considerati serbi da Zagabria, ma non siano rivendicati da Belgrado. Secondo il diritto internazionale, questo tipo di situazione – nel caso specifico abbastanza paradossale e intricata – renderebbe gli appezzamenti in questione terrae nullius, ovvero territori non rivendicati da nessuno, quindi di proprietà del primo a reclamarli.

Micronazioni Danubio
Elaborazione realizzata dall’autore mediante datawrapper.de

Il primo ad accorgersi di questa possibilità non poteva che essere un politico. Nel 2015 Vít Jedlička e Jana Markovičová, due cechi di orientamento liberal-conservatore, hanno proclamato la nascita della Repubblica libera di Liberland nella terra di nessuno lungo la riva occidentale del Danubio conosciuta come Gornja Siga. Si tratta della sacca di territorio conteso più ampia, approssimativamente sette chilometri quadrati che comprendono una fitta vegetazione, un’abitazione abbandonata da qualche decennio, nessuna infrastruttura e un migliaio di presunti cittadini non residenti. Sul sito ufficiale di Liberland si può scaricare la costituzione della repubblica, conoscere la compagine governativa e i simboli della micronazione, oltre che inviare la richiesta ufficiale per ottenere la cittadinanza (dietro compenso).

A seguito della dichiarazione di indipendenza, notificata agli stati limitrofi, Zagabria ha iniziato a limitare l’accesso alla zona interessata, arrestando i militanti e i presunti cittadini di Liberland per l’attraversamento illegale di quella che i croati considerano essere il confine tra Croazia e Serbia. Diversa la posizione serba, che non sostiene di doversi preoccupare del fenomeno in quanto competenza dei vicini, confermando indirettamente le rivendicazioni delle micronazioni. Al momento, ad ogni modo, Liberland non è riuscita ad affermarsi a livello mondiale, ricevendo solo sporadiche dichiarazioni di sostegno, il riconoscimento ufficiale da parte del Malawi e di altre micronazioni, quali il Principato di Sealand e il Regno di Enclava.

Il Regno di Enclava ha conosciuto invece una storia più travagliata. Appena una decina di giorni dopo la proclamazione di Liberland, il 23 aprile 2015 i polacchi Piotr Wawrzynkiewicz e Kamil Wrona – in arte re Enclav I – hanno sancito la nascita del loro personalissimo regno. L’ultima monarchia d’Europa in ordine cronologico ha rivendicato una porzione di territorio compreso tra la Slovenia e la Croazia, vicino alla città di Metlika. Purtroppo per la casa regnante, la Slovenia ha prontamente provveduto a ribadire la sovranità sui circa cento metri quadrati di appezzamento, infrangendo i sogni di gloria del neonato regno.

Spogliato del suo feudo dopo appena pochi giorni di esistenza, l’indomito Enclav I ha quindi marciato verso altri lidi, approdando sulle sponde del Danubio il mese seguente. Qui, lungo un appezzamento di terra di circa 300mila metri quadrati (sacca 1 sulla mappa), ha trovato il terreno più fertile per la continuazione del suo regno. Senza tenere però in considerazione che quella terra di nessuno era già stata reclamata da un altro regno, il Principato di Celestinia, rappresentato dall’ungherese Endre Jos.

Nonostante i rapporti con il vicino siano iniziati decisamente con il piede sbagliato, il continente europeo ha scampato l’ennesimo conflitto grazie a un compromesso raggiunto tra le due micronazioni, che si sono spartite il già angusto territorio lungo il Danubio. A Enclava spettano i ben 30mila metri quadrati di territorio situati all’estremità sud-occidentale della sacca 1, che ne farebbero a buon diritto lo stato più piccolo del mondo.

In quanto a contenziosi tra micronazioni danubiane Celestinia e Enclava sono però in buona compagnia. La libera repubblica di Verdis reclama da maggio 2019 la sovranità sulla terza sacca lungo il Danubio, un lembo di terra di 254mila metri quadrati. Come si può leggere sul sito ufficiale di Verdis, l’obiettivo principale di Daniel Jackson, suo fondatore, è quello di favorire la riconciliazione tra gruppi etnici e la tutela dell’ambiente. Ma la parte meridionale della sacca 3 è anche reclamata da Humanytaria, una repubblica federale socialista libertaria che dal 2015 avanza pretese anche su un arcipelago a Tossa de Mar e su una piccola isola nel Galles.

A fare all-in ci pensa infine il Principato di Ongal, una presunta monarchia di origine bulgaro-magiaro-croata che si professa tradizionalista e cristiana di destra, reclamando per sé tutti i territori contesi sulla sponda occidentale del Danubio. A capo della micronazione si è autoproclamato sua altezza Kniaz Milomir Bogdanov di Ongal.

Il futuro della linea di confine tra Serbia e Croazia resta quindi incerto, legato com’è alle travagliate relazioni bilaterali tra Belgrado e Zagabria e a prassi di diritto internazionale che hanno aperto la porta ad attori terzi quantomeno inaspettati. Un epilogo ancora tutto da scrivere che fonde la tragicità della dissoluzione della Jugoslavia alla comicità di certe rivendicazioni attuali.

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Nicola Zordan
Nicola Zordan

Mosso da un sincero interesse per la storia e la cultura della penisola balcanica, si è laureato in Studi Internazionali all’Università di Trento, per poi specializzarsi in Studi sull’Europa dell’Est all’Università di Bologna. Ha vissuto in Romania, Croazia e Bosnia ed Erzegovina, studiando e impegnandosi in attività di volontariato. Tra il 2021 e il 2022 ha scritto per Osservatorio Balcani Caucaso Transeuropa. Attualmente risiede in Macedonia del Nord, dove lavora presso l’ufficio di ALDA Skopje.