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La sera del ballo era una notte ciscaucasica: vasta, blu, con un abito che conservava tra le pieghe il polline scintillante delle stelle.
(Qui il sentiero si perde, p. 19)
Inizia così l’avventura letteraria di Qui il sentiero si perde, romanzo ambientato tra le terre sconfinate della Russia zarista, della Persia e dell’Asia centrale di metà Ottocento e uscito dalla penna dei coniugi francesi Antoinette Peské e Pierre Marty (da cui lo pseudonimo che firma il volume) nel 1955, per Gallimard. Vede la luce in Italia a distanza di quasi settant’anni, grazie alla traduzione di Daniele Petruccioli, per Adelphi, casa editrice che ha scelto di proporre ai suoi lettori un romanzo ibrido, mescolando lo spirito avventuroso a quello filosofico e spirituale di epoche e luoghi quasi dimenticati.
Un romanzo difficile da collocare dal punto di vista del genere: ma è davvero necessario inserirlo in una categoria letteraria definita per apprezzarlo – se non, addirittura, goderselo – attraverso le densissime quattrocento e passa pagine? Probabilmente no, altrimenti non si riesce a perdersi e a smarrire il sentiero come succede agli eroi (o dovremmo dire: l’eroe?) che ci accompagnano in un viaggio tra “la più straordinaria accozzaglia umana che si possa immaginare” [Qui il sentiero si perde, sovraccoperta].
Sta proprio qui il fascino di Qui il sentiero si perde, che Petruccioli ha amato e si è divertito a tradurre perché un testo ricco, denso e avvincente come un buon libro dev’essere.
“Dal punto di vista linguistico, non riesco a trovare un aggettivo migliore di “ubertoso”. C’è un’infiorescenza meticolosa di erudizioni anche contraddittorie, in questo viaggio nel Far East russo (la Siberia, naturalmente), mongolo, cinese e tibetano al contempo. Basti pensare all’aggettivo “ciscaucausico” con cui si apre il racconto”.
Siamo nel 1825, nella San Pietroburgo zarista, località che apre l’ambientazione del volume, ma che lascia subito spazio a mete e terre sconfinate e inesplorate, abitate da “saltimbanchi, cacciatori di orsi, mercanti di pelli, ladri di cavalli, bari, assassini, zingari, ubriaconi, puttane, pellegrini, dervisci, sciamani – e naturalmente demoni” [Qui il sentiero si perde, sovraccoperta].
Gli ultimi giorni che accompagnano il destino fatale di Sof’ja Dmitrievna (figlia di Marija Naryškina e dello zar Alessandro I) sono solo un pretesto per iniziare il racconto di un uomo, lo zar in persona, che secondo la leggenda non avrebbe trovato affatto la morte il 1° dicembre a Taganrog (prima base della marina imperiale russa al confine con l’Ucraina), ma piuttosto la via di fuga alla ricerca di se stesso e dell’anima russa perduta.
L’oppositore di Napoleone sarebbe infatti stato un uomo tormentato dalla propria identità, sia sul piano personale che politico, quindi capace in extremis di fuggire alla morte lasciandosi una tomba vuota dietro di sé, alimentando così leggende e speculazioni a non finire tra il popolo in preda allo sconcerto e smarrito, per vagabondare attraverso il Caucaso, l’Asia centrale, la Persia e la Siberia e scoprire quello che viene definito dai più entusiastici come “Far East” (in contrapposizione al noto Far West), luoghi che ci avevano stregato sin dai racconti avventurosi di Michel Strogoff.
Quanti occidentali delusi, aspettandosi chissà quale rivelazione, interrogano quel paese leggendario, i popoli ignoti dell’Oriente, portatori, si crede, del seme misterioso da cui risorgerà l’età dell’oro. Sono, ahimè, solo più avanti nel marciume rispetto all’Occidente. Bukhara, Samarcanda, non c’è bisogno di comprenderle in profondità per sentir montare tra le loro rovine prestigiose l’aspro sentore di un’umanità in decomposizione. La perversione non vi fa mistero di se stessa.
In Qui il sentiero si perde, la Russia occidentale di San Pietroburgo lascia subito la scena alle bellissime terre caucasiche (“Il fuggiasco”), dove uno straniero (lo zar in persona?) trova riparo in un convento, ma non rifugio e consolazione per le proprie angosce.
«Altri sono venuti dopo di te. E sono ripartiti; uno dopo due settimane, il secondo dopo tre mesi. Solo tu resterai con noi. Ma forse mi sbaglio…». […] Voleva addentrarsi per le contrade misteriose dell’Asia centrale, il cui pensiero da anni lo perseguitava.
(Qui il sentiero si perde, p. 60)
Con “Lo schiavo” si viene catapultati nella zona desolata di Semipalatinsk, “cittadina sonnolenta tra le sabbie dell’Irtyš” che “si risveglia due volte l’anno: in autunno, quando partono le carovane per l’alta Tartaria, il khanato di Kokand, la Zungaria, il Tabargatai; e a inizio estate, quando quelle provenienti da Samarcanda e Bukhara incontrano la carovana cinese di Barkul” [Qui il sentiero si perde, p.65]e nella quale giunge per l’occasione“una folla turbolenta e multicolore” [Qui il sentiero si perde, p.65]. Ed è qui che incontriamo un vagabondo (sempre lo zar?) il quale, dopo l’arresto, narra le sue peripezie di schiavo a Samarcanda, tra incontri rocamboleschi, amori e violenze di ogni genere.
Si consumava la mia rottura con la Patria, con quello che ero stato. Smisi di guardarmi indietro. Fissai davanti a me i contrafforti scintillanti dell’Oriente.
(Qui il sentiero si perde, p. 346)
Poco tempo dopo (“Il mendicante di Dio”) ci troviamo “in una valle tra le montagne a ovest, dette dell’Altai” e leggiamo la storia di un mendicante (sempre lo stesso uomo?) che viene accolto da una famiglia di Vecchi Credenti. Ma anche qui il nostro eroe non resiste a lungo e, dopo aver tentato di fare il cercatore d’oro, ricompare tra i buddisti della Mongolia e prosegue il suo cammino in compagnia di un saggio Lama.
Nessun luogo, nelle terre mongole, dà all’uomo il desiderio di appropriarsene, di dire: «Qui voglio vivere e morire». Invita al perpetuo vagare che spinge le greggi di pascolo in pascolo, e gli uomini di orizzonte in orizzonte insieme ad Attila, a Gengis Khan, a Timur Lang, a conquistare il mondo e le anime verso l’indicibile, sulle tracce di Buddha.
(Qui il sentiero si perde, p. 361)
Dopodiché… il sentiero si perde.
Qui il sentiero si perde: “A che pro mostrarsi come si è se non si può essere compresi da nessuno…”
Alessandro I era un sovrano ambizioso, con una mentalità riformista e liberale. Con la Francia di Napoleone, della cui caduta dell’impero finì per essere uno dei principali artefici, ebbe un rapporto di amore-odio, alternato da momenti di alleanza e altri di conflitto. Come spiega Davide Longo in un recente articolo, “i tentativi di Alessandro di condurre riforme liberali vennero fortemente osteggiati dalla nobiltà e dalla Chiesa ortodossa, ed egli non ebbe mai la capacità di portare a termine disegni di ampio respiro”. Che sia stato questo a spingerlo a darsi per morto e scappare all’insegna dell’avventura per redimersi dalle proprie colpe di credente peccatore alla ricerca della fede perduta?
«Cosa rimproverate a Sua Maestà? È il primo zar liberale che abbiamo avuto».
«Per l’appunto il suo liberalismo. La Russia aveva affidato il potere ad Alessandro I come agli altri zar. E lui cosa sognava? Di porre limiti al proprio potere; di diventare una specie di sovrano costituzionale».
«Voleva il bene del popolo».
«Scusate se rido. Il popolo, sapete cosa gli ci vuole perché righi dritto? Come alle donne, frusta e ancora frusta! La Santa Alleanza, il regno di Dio in terra sono idee da pazzi. Detto tra noi, uno zar che da anni tollerava l’esistenza di società in cui non si parlava d’altro che di abolizione dei privilegi, di uguaglianza dei cittadini davanti alla Legge, è degno di portare questo nome?».
La parte storico-politica di Qui il sentiero si perde si limita a questo e funge solo da sfondo lontano alla leggenda che corona il romanzo, spiegata nell’epilogo Chi è quest’uomo?, talmente intrigante che Lev Tolstoj ne ha scritto un racconto nel 1912, Memorie postume dello starets Fëdor Kuzmič.
La gran parte della narrazione raccoglie l’iniziazione al viaggio, fisico e spirituale, ma anche carnale, nonché la ricerca della fede attraverso una crisi mistica che percorre spazio e tempo. Le peregrinazioni degli eroi (o, meglio, dell’eroe) dalla gelida Siberia alla desertica Mongolia passando per Samarcanda, le viviamo sulla nostra pelle in un cataclisma di emozioni che spaziano dalla paura alla rabbia, dal dolore allo straniamento, dall’indecisione alla frustrazione di non riuscire a raggiungere la fede più pura.
L’anima russa è ancora viva, grazie a Dio, ma chi può credere che continuerà a resistere al contagio del razionalismo e del materialismo?
(Qui il sentiero si perde, p. 283)
Immersi nella lettura di questo lungo racconto avventuroso filosofico e meditativo, è il mondo intorno che si perde e fa riflettere.
«La parola libertà è in ogni nostra legge. Eppure è il paese in cui mi sento meno libero. Laggiù – ed è particolarmente vero per l’ambiente non conformista da cui provengo – ognuno si erge a giudice della condotta e delle parole del suo prossimo. Ci vuol poco per essere considerati scherani del demonio. Sono dunque condannato a vivere fuori dal mio paese, a servirlo e ad amarlo a distanza. Sono poche migliaia di individui della mia specie a costituire la potenza inglese».
(Qui il sentiero si perde, p. 223)
Qui il sentiero si perde, Peské Marty, traduzione di Daniele Petruccioli, Adelphi, 2024.
Traduttrice e redattrice, la sua passione per l’est è nata ad Astrachan’, alle foci del Volga, grazie all’anno di scambio con Intercultura. Gli studi di slavistica all’Università di Udine e di Tartu l’hanno poi spinta ad approfondire le realtà oltrecortina, in particolare quella russa e quella ucraina. Vive a Kyiv dal 2017, collabora con Osservatorio Balcani e Caucaso, MicroMega e Valigia Blu. Nel 2022 ha tradotto dall’ucraino il reportage “Mosaico Ucraino” di Olesja Jaremčuk, edito da Bottega Errante.