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Le officine ferroviarie di Grivița sorgono su Calea Griviței: il viale costeggia i binari che si dipanano a nord-ovest di Bucarest dalla Gara de Nord, la principale stazione ferroviaria della capitale romena. Fondate nel 1897 per la riparazione dei vagoni e dei locomotori dei treni della capitale, ben presto le officine diventeranno il principale centro per la riparazione del materiale rotabile di tutto il paese e, in epoca comunista, si guadagneranno l’appellativo di Grivița Roșie, “Grivița Rossa”, in onore degli scioperi dei lavoratori ferroviari di inizio 1933.
La protesta per condizioni di lavoro migliori in un paese duramente colpito dalla Grande Depressione si scontrò con la decisione dei sindacati social-democratici riconosciuti da re Carol II di dissociarsi e con lo stato di emergenza indetto dal governo che, nella notte tra il 14 e il 15 febbraio, arrestò diversi operai, tra cui il futuro leader comunista del paese Gheorghe Gheorghiu-Dej. Il mattino successivo quattromila operai delle officine si rifiutarono di iniziare il turno di lavoro e si barricarono nella fabbrica, radunando attraverso la sirena d’emergenza il sostegno dei lavoratori del turno successivo e di diversi cittadini. Il giorno dopo l’esercito e i gendarmi cinsero d’assedio le officine e, dopo il rifiuto di arrendersi da parte degli operai, aprirono il fuoco, soffocando lo sciopero e uccidendo sette operai.
Una maglia color ciliegia
La storia dello sciopero di Grivița testimonia la capacità di mobilitazione e organizzazione degli operai delle officine ferroviarie di Bucarest. Eppure forse la più grande eredità che la fabbrica di Calea Griviței abbia lasciato alla Romania è una maglia color ciliegia con una storia leggendaria. È il giugno del 1923, dieci anni prima dello sciopero, quando cinque operai decidono di formare una squadra di calcio: viene messo tutto nero su bianco il 25 giugno, in una scuola elementare di Grivița. È così che nasce il CFR Bucarest, che prende il nome dalla denominazione delle ferrovie romene, Căile Ferate Române. Il nome con cui il club entrerà nella leggenda sarà però un altro: Rapid Bucarest.
Il salto di qualità della squadra avviene a inizio anni Trenta: il primo titolo, l’unico con ancora la denominazione CFR, arriverà nella seconda edizione della Coppa di Romania, contro i professionisti del Ripensia Timișoara, al termine di una finale convulsa. I ferrovieri conducono 5-4 quando, a due minuti dalla fine, l’arbitro fischia un rigore per il Ripensia, realizzato dal portiere Zombory, specialista dal dischetto. Il CFR si riporterà in vantaggio al 97’, fissando il risultato finale sul 6-5.
Il 1936 è un anno di grandi cambiamenti: il nome, innanzitutto, che passa da CFR Bucarest a Rapid Bucarest, in omaggio al Rapid Vienna. Poi c’è l’avvio dei lavori per la costruzione del nuovo stadio, nel quartiere di Giulești, adagiato all’ombra del ponte Grant: un ferro di cavallo ispirato a Highbury, lo stadio dell’Arsenal, che verrà inaugurato nel 1939. In più, arrivano tre giocatori destinati a fare la differenza. Due dei nomi leggendari del club sono già in squadra, i mediani Vintilă Cossini e László Raffinsky. Nell’estate arrivano però anche tre attaccanti di livello: Ștefan Auer (anche noto come István Avar), Ion Bogdan e, soprattutto, Gyula Barátky.
Il dramma del Miracolo Biondo
Quasi del tutto privo di istruzione, Barátky ha solo la quarta elementare e parla molto male il romeno, ma è uno di quei giocatori di cui si dice che “parlano con i piedi” e sul campo è dotato di un genio calcistico fuori dal comune: gioca in tutte le posizioni nel corso della sua carriera e, in una partita della nazionale magiara contro la Spagna, si trova persino a giocare tra i pali. Fa parte dell’etnia ungherese di Oradea (Nagyvárad in lingua magiara) e nel 1930 ha lasciato il CA Oradea per unirsi al blasonato MTK Hungária di Budapest. Nella capitale ungherese ha giocato al fianco di alcuni nomi leggendari: la “gazzella” Ferenc Hirzer, già capocannoniere della Prima Divisione italiana nella Juventus dello scudetto 1925/26; Gusztáv Sebes, centrocampista destinato a entrare nella leggenda come allenatore della grande squadra ungherese degli anni Cinquanta; ma anche Jenő Kalmár, che proprio in quegli anni Cinquanta sarà l’allenatore della Honvéd che farà da serbatoio e ossatura alla nazionale guidata da Sebes. Con quella squadra Barátky vince la Coppa di Ungheria del 1932 segnando in finale e si guadagna la chiamata da parte della nazionale ungherese, che servirà in nove occasioni.
Nel 1933 però la sua stella è già in declino, complice la troppo assidua frequentazione della vita notturna budapestina e l’amore per il bicchiere. È così che il padre, macellaio, insiste perché torni a Oradea. Il 2 luglio Barátky disputa la sua ultima partita con la maglia dell’Ungheria, il 29 ottobre veste quella della Romania per la gara contro la Svizzera. È troppo presto però: la federcalcio romena non ha rispettato il periodo di “quarantena” necessario per il passaggio di un giocatore da una nazionale a un’altra. L’allenatore elvetico Karl Rappan denuncia il fatto alla FIFA e la Romania si vede assegnare una sconfitta a tavolino. Dopo aver scontato la squalifica Barátky è però pronto per vivere una seconda giovinezza. Lo chiameranno Minunea Blondă, “Il Miracolo Biondo” e sarà considerato, da chi ha giocato con lui in quel Rapid, la stella più lucente della storia del calcio romeno, anche più di Hagi e Dobrin. Racchiusa però in un animo fragile, come aveva già dimostrato attaccandosi al collo della bottiglia alla fine dell’esperienza ungherese.
Dopo la guerra non sarà più lo stesso. Un suo compagno di squadra, Ion Costea, racconta: “Barátky si era sposato con una ballerina di cabaret, ma le malelingue dicevano che il letto di questa non rimanesse vuoto quando “Giussy” era con la squadra in trasferta. Molte volte stavo con lui al ristorante, davanti a uno spritz. Gli piaceva fumare, fumava anche quaranta o cinquanta sigarette al giorno. Sentivo che soffriva per un amore perso da qualche parte, in qualche quartiere di Oradea. Me ne andavo nel mezzo della notte, ma lui restava lì, col bicchiere in mano, guardando nel vuoto. Credo non facesse nemmeno caso al fatto che sparivo”. Si sarebbe spento a soli 52 anni, solo, su un letto di ospedale.
Tornando però al 1936, l’apporto dei nuovi acquisti è chiaro fin da subito: il Rapid non perde neanche una partita in casa e termina il campionato 1936/37 al secondo posto, alle spalle dei rivali cittadini del Venus. L’anno successivo vince il proprio girone, ma deve arrendersi nella finale contro il Ripensia, perdendo sia all’andata sia al ritorno con il risultato di 2-0. Ancora due volte il Rapid chiuderà la stagione imbattuto in casa, spinto dai gol di Ștefan Auer e Ion Bogdan, capocannonieri rispettivamente delle stagioni 1939/40 e 1940/41. In entrambe le occasioni, però, come già avvenuto nel 1937, dovranno cedere il passo a delle rivali cittadine (Venus e Unirea Tricolor) e accontentarsi della seconda posizione.
Una semifinale scomoda
Se il campionato non sorride al Rapid, la Coppa di Romania diventa in breve tempo il suo terreno di caccia: dal 1937 al 1942 il Rapid gioca sei finali consecutive, vincendole tutte. Entrerà nella storia soprattutto l’edizione del 1938, non tanto per gli eventi sul rettangolo di gioco, quanto piuttosto per quello che avverrà intorno alla semifinale contro il Venus Bucarest del prefetto di polizia Gabriel Marinescu. La gara viene decisa da una rete di Barátky a tre minuti dalla fine dei supplementari, ma Marinescu non ci sta: mentre i ferrovieri rientrano dopo aver festeggiato la vittoria al ristorante Luther, nei pressi della Gara de Nord, la polizia arresta Barátky, Auer, Cossini e Raffinsky, il “quadrato magico” del Rapid, senza spiegazioni.
Costică Ardeleanu, il manager della squadra, cerca disperatamente un modo per far rilasciare i suoi giocatori. Marinescu è però un personaggio troppo influente (ed è, peraltro, vicepresidente della federcalcio in quel momento), e persino il presidente del Rapid si rifiuta anche solo di dare ad Ardeleanu il numero di telefono del prefetto: troppo rischioso mettersi nei guai con lui. Il suo potere è quasi sconfinato, e l’abuso commesso con il fermo dei quattro giocatori non ne è che la prova. Il giorno successivo Ardeleanu scopre che Gazeta Sporturilor ha pubblicato una lettera firmata da Marinescu, in cui il prefetto contesta il risultato della semifinale, sostenendo che la rete di Barátky sia stata segnata da posizione di fuorigioco.
Ad Ardeleanu non resta che recitare la parte, scrivere una lettera indirizzata al prefetto dicendosi d’accordo con lui sull’operato dell’arbitro e proponendo di rigiocare la semifinale. Si reca direttamente ai suoi uffici: “È molto urgente. Mi attende. Sono sicuro. Vi prego di dirgli solo due parole: Ardeleanu, Rapid”. Ardeleanu accetta di sottoscrivere di proprio pugno una richiesta alla federazione perché la gara venga rigiocata e in cambio ottiene la liberazione dei quattro giocatori. Il replay si gioca il 21 maggio. Subito dopo la liberazione, Barátky e Auer avevano promesso che, per vendicarsi delle angherie subite, avrebbero dato in dote alla nuova partita due reti ciascuno. Ed è quello che avviene: le due doppiette permettono al Rapid di chiudere il primo tempo sul 4-1.
La semifinale terminerà 4-2. Di fronte a una vittoria così netta Marinescu non può più sollevare proteste. E allora contatta la dirigenza del Rapid e fa una richiesta piuttosto grottesca: chiede, e ovviamente ottiene, di essere nominato presidente onorario della squadra dei ferrovieri. Non lo sarà però a lungo. Marinescu ancora non lo sa, ma la sua fine è vicina. È una delle figure politiche più vicine a re Carol II ed è attivo nella repressione del movimento legionario nazionalista e para-fascista della Gardă de Fier (“Guardia di Ferro”), tanto da essere l’organizzatore dell’esecuzione del leader e ideologo del movimento Corneliu Zelea Codreanu, avvenuta qualche mese dopo la semifinale. Quando nel 1940 i legionari ordiscono insieme al maresciallo Ion Antonescu un colpo di stato, costringendo Carol II all’abdicazione, Marinescu – nel frattempo divenuto ministro dell’Interno – è ovviamente uno dei primi bersagli: viene arrestato a Timișoara mentre cerca di fuggire dal paese e viene rinchiuso nel carcere di Jilava, dove verrà giustiziato nella notte tra il 26 e il 27 novembre 1940, morendo con dieci pallottole in corpo.
“Votate il Sole”
Il rapporto del Rapid Bucarest con il potere però non si esaurirà a questo episodio, ma cambierà sensibilmente con l’instaurazione del comunismo e con la nazionalizzazione del calcio. Non solo la squadra dei ferrovieri, aderente al sindacato delle ferrovie romene, sarà tra le più docili nell’accettare il processo di sindacalizarea, ma durante la campagna elettorale del 1946, secondo quanto denunciato dalla stampa liberale, il Rapid scenderà in campo con delle magliette che rappresentavano il sole, simbolo del BPD (il Blocco dei Partiti Democratici a cui faceva capo anche il Partito Comunista) e la scritta “Votați Soarele”, “Votate il Sole”. E in seguito potranno anche fregiarsi della protezione dell’uomo più potente del paese, Gheorghe Gheorghiu-Dej, segretario del Partito Comunista Romeno quasi ininterrottamente dal 1944 al 1965 e legato al suo passato nelle officine di Grivița e al suo arresto nel 1933.
A lui si rivolgerà, implorandolo, uno dei più grandi talenti del calcio romeno post-bellico, Titus Ozon. Un personaggio che più volte si mise nei guai con il potere, sia per l’accusa di avere simpatie con i movimenti legionari degli anni Trenta, sia per il suo atteggiamento ritenuto poco rispettoso nei confronti delle autorità. Squalificato con l’accusa di aver sfruttato una trasferta in Albania per arrotondare contrabbandando bottoni di avorio, Ozon supplicherà Gheorghiu-Dej di sollevare la sanzione e permettergli di tornare a giocare. Il leader comunista accetterà, a una condizione: il passaggio del campione al Rapid.
Eppure avere un tifoso così altolocato non aiuterà le sorti del Rapid, che tornerà a vincere un nuovo trofeo solo dopo il passaggio di testimone nelle mani di Nicolae Ceaușescu e di una famiglia decisamente più vicina alla Steaua, la squadra dell’esercito. Non a caso il fratello del dittatore, Ilie, fece carriera militare fino a diventare negli anni Ottanta viceministro della difesa, mentre il figlio Valentin presiedette la squadra dell’esercito negli ultimi anni del regime comunista, portandola anche allo storico successo nella Coppa dei Campioni del 1986. Erano anni in cui il Rapid era costretto a vivere all’ombra delle due squadre che rappresentavano il potere: la Steaua, appunto, e la Dinamo Bucarest, espressione del ministero degli Interni e della temuta Securitate. Una situazione che potrebbe aver riacceso una vena di dissidenza nella tifoseria del club dei ferrovieri. Una vena documentata da diversi slogan anti-regime cantati negli anni dai tifosi rapidisti.
Quando l’Olt di Scornicești, il paese natale del dittatore, arriverà in seconda divisione e affronterà il Rapid retrocesso, battendolo 1-0, verrà celebrato ironicamente dalla curva rapidista con il coro Cine v-a băgat în B? Ceaușescu PCR! (“Chi vi ha portati in B? Ceaușescu e il Partito Comunista!”). Un coro che, con una piccola modifica, verrà cantato nuovamente nel 1989 quando il Rapid, nuovamente retrocesso in seconda divisione, affronterà in Coppa di Romania la Steaua: “Chi ci ha portati in B? Ceaușescu e il Partito Comunista!”. E la leggenda vuole che il coro Ole, ole, ole, Ceaușescu nu mai e (“Olè, olè, olè, Ceaușescu non c’è più”), colonna sonora dei giorni della Rivoluzione del 1989, nascesse proprio da un coro della curva rapidista.
Nonostante questi cori, non bisogna correre il rischio di sopravvalutare la dissidenza del tifo rapidista negli anni Ottanta. Anche se rimarrà sempre nella storia un altro coro, quello in cui, riferendosi alle connessioni dei rivali cittadini della Steaua e in particolare al ruolo di Valentin Ceaușescu, i rapidisti proponevano uno scambio con il loro miglior giocatore, Iosif Damaschin: “Voi ci date Valentin, noi vi diamo Damaschin”.
Giornalista sportivo con lo sguardo rivolto a est e al calcio lontano dai riflettori, video editor e presentatore per la app OneFootball. Ha ideato il podcast Lokomotiv e il documentario Petrolul Nu Moare e ha vissuto tra Como, Roma, Bucarest e Berlino. Tra le collaborazioni passate: Avvenire, Il Giorno, Radio 24, The Blizzard, When Saturday Comes, East Journal, Kosovo 2.0.