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A quasi cento anni dalla loro nascita, i Campionati mondiali di calcio sono diventati un pozzo quasi senza fondo di storie incredibili. Come ogni competizione che si rispetti, parte di queste storie gira attorno alle statistiche più particolari viste nelle 900 partite disputate dal 13 luglio 1930, data in cui iniziò la prima edizione dei Mondiali tenutasi in Uruguay, fino alla finale giocata da Francia e Croazia in Russia nel 2018.
Tra i tanti record dei Mondiali, alcune delle prestazioni più interessanti (e delle storie più belle) appartengono a uomini provenienti dall’Europa orientale. A volte più conosciuti, tante volte meno, è impossibile elencarli tutti: basti pensare che tra le reti storiche a cifra tonda compaiono veri e propri fenomeni, non ultimo Luka Modrić che ha segnato proprio nel 2018 il gol numero 2.400 della competizione.
Hakan Şükür: il gol più veloce della storia dei Mondiali
Hakan Şükür se lo ricordano in tanti. Era una prima punta alta, fisicamente possente, tecnicamente sgraziata ed estremamente prolifica; in sostanza il prototipo del bomber nostalgico degli anni Novanta. Bandiera del Galatasaray e della Nazionale, di cui è il miglior marcatore di sempre e il secondo per presenze dietro al portiere Rüştü Reçber, Hakan Şükür è uno strano caso di profeta (calcistico) di successo in patria. Sotto la guida dell’“Imperatore” Fatih Terim, il suo Galatasaray in cui militano anche l’iconico portiere brasiliano Taffarel e “Il Maradona dei Carpazi” Gheorghe Hagi vince la prima Coppa Uefa del nuovo millennio, battendo l’Arsenal in finale.
Le sue vicende personali, dopo il ritiro, meriterebbero un approfondimento speciale: eletto in parlamento nel 2011 nelle fila dell’AKP del presidentissimo Erdoğan, segue il futuro “traditore della patria” Gülen e per questo dal 2015 è fuggito dalla nazione e vive negli Stati Uniti dove non lo hanno seguito né i familiari (il padre è stato anche imprigionato in Turchia), né soprattutto i guadagni da calciatore. Dopo aver gestito una caffetteria in California, abbandonata perché dei “tipi strani” si facevano vedere con troppa frequenza nel negozio, ora si mantiene guidando per Uber a Washington e vendendo libri.
Nonostante le vicende politiche e personali, Hakan Şükür rimane un idolo del calcio turco e il punto più alto della sua carriera è proprio quel gol segnato il 29 giugno 2002 dopo 10,8 secondi dall’inizio del match. La partita è Corea del Sud-Turchia, improbabile finale per il terzo posto dei primi Mondiali asiatici della storia. La squadra di casa, allenata dal santone giramondo Guus Hiddink, ci è arrivata in maniera quantomeno controversa, come ricordano bene sia i tifosi italiani che quelli spagnoli; mentre i turchi, guidati da Hakan Şükür nelle vesti di capitano, ma non di goleador (fino a quella partita è fermo a quota 0 reti), hanno avuto un percorso veramente facile in cui hanno incontrato una sola squadra importante, il Brasile futuro vincitore, perdendoci due volte. L’arbitro kuwaitiano Saad Mane Kuw dà il via alla partita, batte la Corea del Sud che passa subito indietro verso i centrali di difesa, stop sbagliato del capitano Hong Myungbo che si fa contrastare dalla meteora İlhan Mansız, la sfera finisce sui piedi di Hakan Şükür che entra in area e con un tiro non proprio irresistibile batte l’estremo difensore coreano. Ci avete messo più tempo a leggere questa frase che l’attaccante a segnare un gol che difficilmente verrà scalzato dal libro dei record dei Mondiali.
Václav Mašek: un unico, velocissimo gol a Cile ‘62
Se la rete segnata dalla punta turca è molto conosciuta, meno si sa della seconda posizione in questa speciale classifica. Il gol che ha detenuto per esattamente 40 anni il record dei Mondiali, prima dell’arrivo per prode Hakan. Bisogna ritornare indietro con la memoria a un calcio d’altri tempi, quello visto in Cile nel 1962. Anche Václav Mašek è una punta, ha ventun’anni e gioca nello Sparta Praga già da quattro stagioni. La sua Cecoslovacchia, per quanto non abbia una brutta rosa, è vista come una delle outsider nella competizione. Prima di partire per il Cile disputa due amichevoli contro squadre di Serie B italiana, pareggiando entrambe le gare; il morale è sotto i tacchetti. Mašek è uno dei più giovani, e siede in panchina al debutto contro la Spagna. Così può vedere bene cosa succede a dieci minuti dalla fine quando, dopo una partita giocata solo a difendere la propria porta, la punta Štibrányi approfitta di un errore della difesa sguarnita spagnola e segna la rete che vale la vittoria. Lo stadio di Viña del Mar esplode in un tripudio di bandiere cilene e, incredibilmente, ceche. I tifosi locali ce l’avevano a morte con gli spagnoli perché loro colonizzatori, mentre avevano preso in simpatia fin dal loro arrivo gli sconosciuti cecoslovacchi dai nomi strani. Mašek e compagni, sbalorditi, avranno un seguito clamoroso durante tutto il girone.
La vittoria contro la Spagna ringalluzzisce i fin lì mogi giocatori cecoslovacchi, che nella partita successiva affrontano il Brasile di Pelé. O Rei però si infortuna durante il match, e non essendo possibili sostituzioni, viene spostato in ala dove gioca praticamente da fermo. I cecoslovacchi, in un segno di rispetto veramente d’altri tempi, non lo attaccano mai quando riceve il pallone. La partita giocata in un sostanziale dieci e un quarto contro undici termina 0-0. Nel terzo e ultimo turno del girone si gioca contro il Messico, e mister Vytlačil decide finalmente di schierare Mašek. Parte titolare e ci mette solo quattordici secondi per segnare il suo primo e unico gol a un Mondiale. La Cecoslovacchia perderà per 3-1, anche se passa il turno grazie al Brasile che non lascia passare la Spagna e anzi la batte. Una sconfitta indolore quindi, che lascia agli annali un gol velocissimo e una squadra che sulle ali dell’entusiasmo sconfiggerà poi altre due nazioni dell’est Europa come Ungheria e Jugoslavia, cedendo solo in finale di nuovo contro il Brasile e conquistando un incredibile secondo posto.
Oleg Salenko: l’attaccante che non ti aspetti detenga un record dei Mondiali
Chi è il giocatore che ha segnato più reti in una partita dei Campionati del mondo? Miroslav Klose, tedesco di Polonia e miglior marcatore di sempre della storia della competizione? Il sopracitato Pelé? Oppure uno dei grandi attaccanti degli anni Cinquanta come il franco-marocchino Just Fontaine o l’ungherese Sándor Kocsis? Nessuno di loro. Anche questo record dei Mondiali è detenuto da un giocatore dell’est Europa. E anche di lui non si ricorda praticamente nessuno.
Oleg Salenko nasce a Leningrado nel 1969. Un metro e ottanta d’altezza, tarchiato e corpulento, fa in tempo a fare la trafila delle giovanili sovietiche prima che l’Urss si sciolga. Tanto che nel 1992 va via dalla Dinamo Kiev dopo una discreta carriera da quasi cento partite e trentina di gol e si mette con la valigia in mano: passa due stagioni in Spagna, con una parentesi di sei mesi ai Rangers di Glasgow, poi va in Turchia all’İstanbulspor. Lì, nel marzo 1997, si infortuna e praticamente non giocherà più. Disputerà la sua ultima gara per il Pogoń Szczecin, in Polonia, prima di andare a Kiev aspettando la chiamata di una squadra locale. Diventerà invece il ct della Nazionale di beach soccer e il commentatore per la tv ucraina dei mondiali nippo-coreani.
La sua storia con la maglia della Nazionale è bislacca. Innanzitutto perché Salenko, ancora nel 2005, si dichiara un orgoglioso cittadino dell’Unione sovietica. Forse si capisce meglio perché nel 1992 decise di lasciare la Madrepatria. Avendo però padre ucraino, viene convocato e scende in campo nella prima partita in assoluto giocata dalla Nazionale ucraina, un’amichevole disputata il 29 aprile 1992 a Užhorod e persa contro l’Ungheria per 1-3. Ma già l’anno dopo cambia idea e veste la casacca della Russia, ed è proprio con quella che va ai Mondiali statunitensi del 1994. Fino a quel momento ha giocato una gara di qualificazione contro la Grecia e quattro amichevoli, senza mai segnare. Entra dopo un’ora all’esordio mondiale contro il Brasile, senza incidere, e finalmente si sblocca con la Nazionale nella seconda partita contro la Svezia, ma il suo è un inutile gol della bandiera visto che gli scandinavi vincono per 3-1 e i russi sono aritmeticamente fuori dalla competizione.
L’ultima partita è contro il Camerun, che quattro anni prima in Italia era arrivato ai quarti di finale grazie ai gol di Roger Milla e ha ancora una chance di passare il girone se vince con largo risultato questa partita e la Svezia viene sotterrata di gol dal Brasile. I Leoni Indomabili partono col piede sull’acceleratore, vogliosi di segnare a un avversario senza motivazioni. Ma i russi si coprono e ripartono in contropiede trovando praterie: Salenko al quarto d’ora segna l’1-0. Poi da Detroit arriva notizia del vantaggio della Svezia, così si aprono i cancelli della porta camerunense. In una delle prestazioni più noiose e prolifiche della storia del calcio, perché forse l’ultimo gol se lo è dovuto sudare un po’ ma gli altri sono tutti molto semplici, Salenko segna cinque reti e il Camerun è battuto per 6-1: il gol della bandiera degli africani è marcato dal quarantaduenne Milla, che firma il record dei Mondiali per goleador più anziano della competizione. Alla fine della competizione Salenko condivide la Scarpa d’Oro con Hristo Stoičkov, ma la fama non lo aiuta nella carriera in Nazionale, visto che litiga con l’allenatore Oleg Romancev perché «al coach non piaceva che avessi una fama più grande della sua». Incredibilmente la sua ultima partita con la Russia è quella del record. E ogni volta che gli viene ricordata quella partita, ne parla con una scrollata di spalle: «A quei tempi le squadre africane avevano delle tattiche un po’ pazze». Applausi per la sincerità.
László Kiss: un’estemporanea tripletta che finisce nel libro dei record
Un altro particolare portatore di record dei Mondiali poco o nulla ricordato dalla storiografia calcistica è l’ungherese László Kiss. Nato nel 1956, due anni dopo la delusione di Svizzera ‘54 dove la Aranycsapat di Puskás e Kocsis viene battuta a sorpresa in finale dalla Germania Ovest, quando arriva in Nazionale i tempi della Grande Ungheria sono finiti da un pezzo. Nel 1979 non riesce a qualificarsi all’Europeo; due anni dopo, invece, supera il girone con l’Inghilterra (nonostante perda entrambe le partite contro gli inglesi) e prenota un biglietto per la Spagna.
Nella prima partita del gruppo 3, che comprende l’Argentina di Maradona e il Belgio, l’Ungheria esordisce contro El Salvador. Il portiere titolare dei centroamericani si chiama Luis Guevara Mora, è soprannominato “El Negro” ma anche “El Loco” per i suoi atteggiamenti sopra le righe fuori dal campo, ha ventuno anni ed è considerato un prodigio in patria. Secondo Wikipedia “era conosciuto per i suoi riflessi eccezionali, le sue capacità di salto e uno stile di gioco acrobatico”. Ha disputato un eccezionale girone di qualificazione subendo un solo gol; la sera del 15 giugno entra invece nella storia dei Mondiali per la peggior prestazione individuale di un portiere, subendo dieci reti nella stessa partita. Al 56’, sul già ampio risultato di 5-0, entra László Kiss. L’Ungheria fa in tempo a subire un gol prima che Kiss si scateni e segni una tripletta. È già difficile marcare tre gol in una partita; farlo ai Mondiali, da subentrato e in soli otto minuti è indubbiamente un record. Una rasoiata da dentro l’area sugli sviluppi di un calcio d’angolo; un fantastico pallonetto di destro dalla sinistra dell’area dopo aver visto Luis Guevara Mora inspiegabilmente fuori dai pali; un tiro di potenza dopo aver raccolto vicino al dischetto del rigore una respinta incerta del portiere salvadoregno; dal 69’ al 76’ László Kiss firma un’altra pagina del libro dei record dei Mondiali.
Bora Milutinović: l’allenatore giramondo
Storie e record dei Mondiali non si scrivono solo su quel manto verde striato di bianco dove ventidue ragazzotti rincorrono un pallone di cuoio. Appena al di fuori della linea laterale, seduti tesi o costantemente in piedi a urlare ai propri giocatori, gli allenatori sono i protagonisti a più alto rischio di crollo emotivo del gioco del calcio: quando la loro squadra vince sono ricordati, la maggior parte delle volte, come una nota a margine; quando invece il sogno svanisce sono i primi indagati per il fallimento. Su quella panchina si sviluppano storie affascinanti quanto quelle dei giocatori.
Quando si parla di Mondiali, poi, c’è una categoria particolare di personaggi che sbuca spesso fuori: i tecnici giramondo che si trovano nei posti più strani possibili. Di esempi ce ne sono tanti, si potrebbe dire che soprattutto gli allenatori provenienti dai Balcani sono particolarmente portati per questo tipo di avventure al limite dell’assurdo, ma il capostipite di questa lunga e bellissima tradizione è un personaggio quasi mitologico che detiene uno dei record dei Mondiali onestamente più belli: Velibor Milutinović, detto “Bora”, è l’unico allenatore ad aver allenato cinque nazionali diverse in cinque edizioni consecutive della manifestazione.
Messico, Costa Rica, Stati Uniti, Nigeria, Cina. Vent’anni, cinque esperienze totalmente diverse. Bora non ha problemi a cambiare continenti e abitudini, anzi è semplice per colui che è stato il primo calciatore jugoslavo ad aver mai giocato in Messico a metà anni Sessanta, quando i suoi compatrioti potevano al massimo sperare di giocare in Europa. Così come non ha bisogno di tanto per creare una squadra che può raggiungere obiettivi oltre la sua portata, come dimostrato nel 1990 quando gli bastano 70 giorni per organizzare la nazionale della Costa Rica e portarla agli ottavi al suo debutto ai Mondiali. I tre anni alla guida della nazionale yankee sono circondati di storie in tipica salsa statunitense, a partire dalle comparsate di Henry Kissinger, mentre la squadra più talentuosa che ha avuto a disposizione, e quella con cui ha forse deluso, è sicuramente la Nigeria di Jay Jay Okocha e Nwankwo Kanu. Bora è stato soprannominato un “miracle worker” dopo l’avventura statunitense e il suo stile preciso e paternale sembra perfetto per controllare le Super Aquile tutte follia e fantasia, ma dopo una buona fase a gironi perde malamente per 4-1 contro la Danimarca agli ottavi. L’ultima avventura ai Mondiali è con la Cina nel 2002, stavolta con molto tempo per assemblare la squadra: nelle qualificazioni non perde una partita, nel girone non fa neanche un punto. Non importa, è l’ennesima nazione in cui il serbo giramondo diventa un idolo indiscusso.
Ma è il Messico il posto che veramente gli è rimasto nel cuore. È qui che ha conosciuto sua moglie, la benestante Mari Carmen che gli ha dato una figlia nata durante i gironi del mondiale casalingo dell’86, tanto da prenderne anche la cittadinanza; è qui dove ha iniziato ad allenare, guidando la stessa squadra con cui aveva giocato per l’ultima volta, i Pumas UNAM, a vincere ogni titolo possibile nei suoi sette anni di regno; è sempre qui che ha iniziato a seguire la sua vera vocazione, quella del commissario tecnico, guidando il Messico a raggiungere i quarti di finale dell’edizione casalinga del 1986 grazie soprattutto ai giocatori che lui stesso aveva svezzato ai Pumas, a partire dal “Pentapichichi” Hugo Sánchez; è qui che nasce il personaggio, oltre che l’allenatore, grazie a dichiarazioni da vero santone del pallone e savoir faire d’altri tempi.
Proverà ad allenare altre squadre di club, ma non dura più di qualche mese al San Lorenzo de Almagro e un paio di mesi all’Udinese; va un po’ meglio ai New York MetroStars e, l’ultima, alla qatariota Al Sadd nel 2004-2005. Non c’è mai, però, il giusto feeling, gestire le faccende di ogni giorno di una società di calcio non fa per lui. Il contratto nell’emirato è studiato appositamente per lasciarlo libero in vista dei Mondiali 2006, in caso qualche nazionale avesse bisogno di un dei suoi. Ma nessuno lo chiama. Prova allora a qualificarsi con la Giamaica, fallendo, e così chiude la carriera alla Confederations Cup del 2009, sedendo sulla panchina dell’Iraq campione della Coppa d’Asia: due pareggi per 0-0 e una sconfitta di misura con la Spagna non valgono il passaggio del turno, ma sono considerabili l’ultimo miracolo di uno dei più affascinanti detentori di un record dei Mondiali.
Collaboratore del Tirreno e altri giornali locali, oltre a occuparsi quotidianamente dell'Empoli FC segue anche calcio e basket dilettantistico nei matchday. Da membro del gruppo di scrittori Storie di Premier è coautore di due libri: Box to Box e Villains of Premier League. Ha collaborato da giugno 2020 a dicembre 2021 con la redazione sportiva di East Journal.