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Il 21 dicembre 1949 in Unione Sovietica si celebrò ufficialmente il settantesimo compleanno di Iosif Stalin. Per l’occasione, il dittatore ricevette decine di migliaia di regali (23.162, secondo un documento dell’epoca pubblicato dal giornale Kommersant), provenienti da tutti gli angoli del paese e del mondo. In base alla narrazione ufficiale, di tutti i regali, Stalin prese per sé solamente una coperta calda e un cuscino provenienti dalla Siberia. Il resto degli oggetti venne esposto nel Museo Puškin delle belle arti di Mosca dal 1949 al 1953 (poco dopo la morte del georgiano).
Ci siamo fatti raccontare dallo scultore Jurij Tilman (padre di chi scrive) cosa ricorda di quel museo che visitò da bambino e l’effetto sorprendente che quell’esperienza ebbe sulla sua opera.
Prologo: la visita al museo dei regali per il settantesimo compleanno di Stalin
Quando avevo cinque o sei anni, presumo nel 1951, visitammo i miei zii a Mosca. All’epoca abitavamo a Kansk, una cittadina della Siberia popolata principalmente dagli ex detenuti di due campi di prigionia nei dintorni, in quanto i miei genitori insegnavano lingua cinese in una scuola militare.
Rimasi scioccato da Mosca! Del primo giorno mi ricordo i clacson delle macchine sotto le finestre dell’appartamento degli zii (avevo visto ben poche macchine prima di allora!). Ma la vera sorpresa mi aspettava la giornata successiva, quando mi portarono al museo dei regali per Stalin.
Se dei primi anni di vita i miei ricordi sono dei flash sparsi, senza dubbio quelli più numerosi provengono dalla visita a quell’esposizione che adesso definirei come mostruosa. Mi ricordo vasi cinesi giganteschi e chicchi di riso su cui erano visibili con la lente di ingrandimento articoli di Stalin scritti in caratteri piccolissimi. Ho impressi negli occhi tappeti enormi, torte e dei modellini di treni a vapore che funzionavano con la polvere del carbone.
Mi è rimasto in mente anche un emblema dell’Unione Sovietica costruito dalle guardie di frontiera interamente con i fucili di Mosin, con le baionette raggruppate a formare le spighe di grano e i nastri delle mitragliatrici che li avvolgevano.
Ricordo la mia meraviglia che, presumo, abbia lasciato un impatto su di me per tutta la vita. Nel 2017, feci una scultura per il centenario della Rivoluzione d’ottobre. Pur non essendo assolutamente nostalgico dell’Unione Sovietica, mi sembrava giusto ricordare la sua breve e terribile esistenza con una sorta di fumetto tridimensionale fatto di materiale riciclato dedicato alla storia dell’Impero.
Quando la finii, capii di aver omaggiato inconsciamente il museo con le sue opere frutto di estrema laboriosità e cattivo gusto!
Passarono gli anni e l’esercito mandò i miei genitori in pensione. L’unico posto dove potevano trovare lavoro con la lingua cinese era Mosca e per questo riuscimmo a trasferirci lì.
La memoria dei regali per Stalin mi rimaneva, ma nessuno ne parlava, era come uno strano oblio (in considerazione del numero di persone che avevano visitato l’esposizione). Ho quasi sempre lavorato nei musei, in quanto studiai scultura in accademia e archeologia in università. E proprio durante i miei studi universitari, negli anni Sessanta, trovai lavoro come aiuto espositore nel Museo della Rivoluzione di Mosca (attualmente rinominato Museo della Storia Contemporanea della Russia).
Il Museo della Rivoluzione era una sorta di fiera propagandistica dei successi dell’Unione Sovietica. Le prime sale erano dedicate alla rivoluzione stessa e poi c’erano esposizioni divise per decenni: gli anni Venti, gli anni Trenta, gli anni Quaranta e gli anni Cinquanta.
Il mio capo si chiamava Vladimir Varvarovič Višnikov e lavorava lì da molti anni. Così un giorno gli parlai delle mia visita al museo dei regali per Stalin da bambino e gli chiesi se sapesse dove fossero finiti tutti quegli oggetti.
Lui indicò senza dire niente verso il basso. Gli domandai allora cosa intendesse. Mi rispose: “Abbiamo sette piani di sotterranei e tutta quella roba è lì sotto”. Mi disse poi che saremmo scesi per aggiungere qualcosa all’esposizione sulla produzione delle fabbriche sovietiche negli anni Cinquanta.
Una volta nei sotterranei vidi tutto quello che mi aveva meravigliato tanti anni prima, impolverato e accatastato in un disordine totale. Ed ecco il déjà vu! Appeso a un muro l’enorme emblema dell’Unione Sovietica fatto di fucili e baionette.
Vladimir Varvarovič mi chiese di tirare fuori un baule foderato a mosaico con della pelle pregiatissima multicolore. Era pieno di scarpe per tutta la famiglia di Stalin, dono della nota fabbrica Skorochod. Mi colpirono soprattutto degli stivali lucidi per Stalin stesso, ma anche scarpe di tutti i tipi e mai usate.
“Provale!”, mi ordinò Vladimir Varvarovič dopo aver sbirciato le mie scarpe e indicandone un paio di pelle morbida. Erano un numero 41 di qualità altissima che mi calzavano a pennello e lui, con tono imperioso, disse: “Tienile! Tanto non sono catalogate una per una”. Ero al settimo cielo, all’epoca in Unione Sovietica era molto difficile reperire merci di uso quotidiano passabili.
La sera, dopo il lavoro, andai in università indossando “Le scarpe del Vožd”. Quando i miei compagni di corso le videro, dissero: “Tilman, che belle! (letteralmente, Tilman kakie šusy)”. “Me le ha portate mio cugino dall’Italia!”, risposi con orgoglio.
Quando lasciai il lavoro al Museo della Rivoluzione, Vladimir Varvarovič mi regalò una base di un vaso cinese di legno massiccio proveniente dai sotterranei che abbiamo ancora in casa.
Il secondo déjà vu: leader comunisti al lavoro
Dopo il Museo della Rivoluzione, mi trasferii nei musei del Cremlino, prima in qualità di espositore e poi come restauratore di icone. Infine, dal 1973 al 1981, mi spostai al Museo Puškin, il luogo che aveva ospitato i regali per Stalin vent’anni prima, sebbene la cosa non mi venne in mente subito. E proprio qui avvenne un secondo déjà vu sul nostro tema.
Tra i colleghi, l’esistenza di quella esposizione non era un segreto, ma non se ne parlava troppo. I miei capi, Anna Kostantinovna Korovina e Irina Dimitrevna Marčenko erano persone di una certa età e quando raccontai loro dei regali di Stalin mi risposero che alcuni degli oggetti erano rimasti al Puškin. Per esempio nella zona di servizio del museo c’era la copia di un vaso romano, regalo di un gruppo di archeologi italiani, con dei bassorilievi pornografici (per questo non era nella part pubblica del museo). Tuttavia erano piuttosto trattenute nel loro racconto.
Dopo qualche tempo, conobbi il capo del settore orientale, Svetlana Izmajlovna Chodžaš che invece era molto più aperta. Si ricordava di come nel 1949, per far spazio ai regali, avessero portato via tutta l’esposizione del Museo Puškin.
Mi raccontò anche che, per preparare il museo dei regali per Stalin, arrivarono i principali leader comunisti del mondo che dormivano su delle brande nella sala principale del museo (la cosiddetta “Sala Bianca”) e di giorno lavoravano con il personale (inclusi i miei capi) come semplici operai all’allestimento. Tra questi: Mao Zedong, Kim Il-sung, Enver Hoxha, Maurice Thorez e Palmiro Togliatti.
“Maurice Thorez non ci piaceva”, aggiunse. “Era troppo aristocratico, dormiva in albergo e veniva a lavorare con gli altri la mattina e qualche volta si presentava in ritardo!”.
Non perdetevi questo articolo dedicato al mausoleo di Georgi Dimitrov a Sofia con la testimonianza dello scrittore Georgi Gospodinov. Il dittatore bulgaro morì proprio nel 1949, si specula, non per cause del tutto naturali. Che la sua uccisione fosse un altro dei regali per Stalin?
Col tempo venni a sapere di un episodio sulla fine della mostra. Dopo la morte di Stalin, infatti, il nuovo Politbjuro iniziò a liquidare molti quadri del NKVD. L’esposizione venne chiusa, ma la notte in cui Lavrentij Berija venne ucciso (il 23 dicembre 1953), la polizia segreta fece irruzione al Museo Puškin. Tra gli oggetti nelle sale c’era un enorme tappeto tagico su cui era raffigurato tutto il vecchio Politbjuro, incluso proprio Berija. Il tappetto era appeso a una sbarra di legno. Quelli del NKVD, in un eccesso di zelo, lo volevano tirare giù, ma nel farlo la sbarra cadde uccidendo un agente e ferendone un altro.
Questi aneddoti, e in particolare i ricordi di Svetlana Chodžaš sui leader comunisti, mi colpirono molto. Dopo essermi trasferito in Italia, e in seguito al crollo dell’Unione Sovietica, portai un gruppo di studenti a Mosca. Raccontai loro le storie sui regali per Stalin scontrandomi però con un certo scetticismo. Ma quando visitammo il Museo Puškin chi non vidi se non Svetlana Chodžaš che fumava all’ingresso e che mi disse: “Tilman, sei tu? Da dove arrivi?”.
Le chiesi allora di ripetere quello che mi aveva detto anni prima e che avrei fatto da traduttore. Venne fuori che sapeva l’italiano e raccontò tutto personalmente agli studenti!
A questo link potete vedere alcuni dei regali per Stalin, inclusa la copia del vaso romano attualmente in esposizione al Museo della Storia Contemporanea della Russia di Mosca.
Il terzo (mancato) déjà vu
Nel 2017 andammo in Georgia a trovare mio figlio e visitammo la città di Gori, patria di Stalin, dove si trova un famoso museo nel quale sono esposti alcuni dei regali di cui abbiamo parlato.
Davanti al museo vidi numerosi turisti, soprattutto iraniani, e all’improvviso mi assalì un odio così profondo per il dittatore e per tutto ciò che aveva fatto che mi rifiutai di subire un terzo déjà vu.
Nato a Milano, attualmente abita a Vienna, dopo aver vissuto ad Astana, Bruxelles e Tbilisi, lavorando per l’Osce e il Parlamento Europeo. Ha risieduto due anni nella capitale della Georgia, specializzandosi sulle dinamiche politiche e sociali dell’area caucasica all’Università Ivane Javakhishvili. Oltre che per Meridiano 13, scrive e ha scritto della regione per Valigia Blu, New Eastern Europe, East Journal e altre testate.