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1.425 giorni, 11.541 morti. Più di 300 bombardamenti al giorno. 3.777 bombe sganciate solo il 22 luglio 1993. Questi alcuni dei freddi numeri dell’assedio più lungo dell’era contemporanea: quello di Sarajevo. Per quasi quattro anni, dal 5 aprile 1992 al 29 febbraio 1996, la capitale della Bosnia ed Erzegovina ha vissuto sotto costante attacco delle truppe serbo-bosniache, appostate sulle colline sopra la città. Un conflitto a tratti inatteso, la cui idea veniva respinta con determinazione dalla popolazione di Sarajevo. Abituati a condividere una città realmente multiculturale, in cui la Cattedrale ortodossa dista appena 150 metri da una delle moschee più belle, croati, serbi e bosniaci erano convinti che la guerra che avrebbe sconvolto la Jugoslavia non sarebbe mai arrivata. E invece la guerra arrivò pure lì, portando con sé le granate e i cecchini, l’assenza di luce e di acqua, il mercato nero e la povertà.
La straordinarietà del conflitto nei Balcani di (appena) trent’anni fa sta nella sua natura fratricida. Persone che fino a poco tempo prima parlavano la stessa lingua, condividevano lo stesso stato e lo stesso esercito, si trovavano contrapposti, spesso pedine impotenti di antichi odi e nazionalismi utilizzati in maniera strumentale dalle élite politiche nazionali. Ancora nel 1991, un anno prima dello scoppio della guerra e ben quarantasei dopo la nascita della Jugoslavia socialista, il 5% della popolazione sceglieva nel censimento la nazionalità jugoslava. I matrimoni misti tra croati, serbi e bosgnacchi (i bosniaci musulmani) rappresentavano più del 17% di tutti i matrimoni. Proprio questa mescolanza è stata, probabilmente, il motore dell’estrema brutalità del conflitto ma allo stesso tempo dell’immensa umanità di chi ad esso si opponeva. Perché l’assedio di Sarajevo non si è tradotto solo nelle granate sui mercati, come quella che il 5 febbraio 1994 colpì Markale causando 68 morti e oltre 140 feriti, o nell’incendio della Vijećnica, la bellissima Biblioteca Nazionale contenente milioni di volumi di tutte le culture ed epoche.
L’assedio di Sarajevo è stato anche solidarietà tra i suoi abitanti, a prescindere dall’appartenenza etnica. Una vera e propria “Fratellanza e Unità”, come recitava il motto jugoslavo, che ha permesso alla città di far fronte alla carenza di tutti i beni, anche quelli di prima necessità. Come racconta Paolo Rumiz nel suo La linea dei Mirtilli (ora riedito da Bottega Errante) – di cui riportiamo un estratto – caffè e sigarette erano tra i beni più richiesti e costosi. Tanto da entrare di diritto in una barzelletta che vede protagonisti Suljo e Mujo (l’equivalente del nostro “Pierino” per intenderci) e che fa pressappoco così: un giorno, mentre i due attraversano la strada, vengono colpiti da una granata. Uno di loro perde un orecchio e torna indietro a cercarlo. L’altro allora grida: “Dai lascia perdere l’orecchio, ne hai un altro!”, ma quello ferito ribatte: “Non è per l’orecchio, dietro ci avevo messo una sigaretta”. Un’ironia cruda, tipica dei sarajevesi, che non prova a nascondere la voglia di normalità mentre il mondo attorno sta, letteralmente, crollando.
A essere colpiti e uccisi dalle truppe serbo-bosniache non erano però solo i croati o i musulmani. Anche la popolazione serba era vittima di violenze e distruzioni. Lo testimoniano i danni provocati nel quartiere Grbavica (quello a maggioranza serba) dove, come ci racconta Gianni Galleri, quel 5 aprile 1992 si sarebbe dovuto giocare la partita di calcio tra i padroni di casa dello Željezničar e il Rad di Belgrado. Una sfida calcistica che non ebbe mai luogo: al posto dei tamburi dei tifosi si udivano gli spari, invece che 22 persone a sfidarsi per un pallone c’erano forze armate pronte a morire per una terra che era di tutti e di nessuno.
Una violenza cieca che, come in tutte le guerre, non ha risparmiato le donne, trattate spesso come trofei e umiliate dagli innumerevoli stupri dai soldati di tutti i fronti. Uno strumento di guerra, quello dello stupro, utilizzato per “punire” i nemici, le nemiche. O forse sarebbe meglio dire “i vecchi amici”. “Un crimine contro l’umanità”, come sancito per la prima volta dal Tribunale penale internazionale per l’ex-Jugoslavia (TPIJ) dell’Aja. Le donne però non sono state solo vittime del conflitto ma anche parte attiva nella resistenza alla barbarie della guerra e nella lotta per la pace. Come lo furono le donne raccontate da Roberta Biagiarelli nell’estratto che abbiamo selezionato dalla sua opera teatrale Figlie dell’epoca. Donne di pace in tempo di guerra che racconta del primo Congresso Internazionale delle Donne svoltosi nel 1915 proprio a L’Aja.
Protagonisti di quei mesi furono anche i giornalisti, i collettivi di artisti, le compagnie teatrali, i musicisti che durante i quattro anni di assedio non hanno mai smesso di produrre informazione e arte per la popolazione, mettendo spesso a rischio la propria vita e quella del pubblico. Un rischio tutto sommato “accettabile” per chi aveva come unica alternativa l’apatia totale e la paura. Furono oltre tremila gli spettacoli musicali, teatrali e le performance artistiche messe in scena in quei quattro anni. Un numero considerevole anche in tempi di pace. Il tutto senza mezzi e senza pubblicità ma con la voglia di rispondere alla bruttezza della guerra con la bellezza della cultura. Ce lo raccontano benissimo Andrea Caira e Arianna Cavigioli con il loro testo dedicato proprio al movimento culturale di una città sempre attiva, nonostante le ferite profonde.
Oggi, a 27 anni dalla firma dei trattati di pace di Dayton che posero fine alla guerra in Bosnia ed Erzegovina, la situazione è tutt’altro che serena e costruttiva, soprattutto a livello politico e istituzionale. Il complicato quadro creato a Dayton più che rilanciare il paese e sostenere una vera riconciliazione tra i tre gruppi etnici, ha creato una lunga situazione di stallo che ha bloccato qualsiasi ipotesi di crescita per la Bosnia ed Erzegovina. Sostenuto in maniera consistente dagli aiuti internazionali, il paese ha subito in questi decenni un progressivo spopolamento con un calo della popolazione complessiva di circa 500 mila persone tra il 1991 e il 2021. A partire sono soprattutto i più giovani schiacciati dall’assenza di prospettive e da una politica che negli ultimi tempi ha rispolverato minacce secessioniste e retoriche nazionaliste.
Sono passati trent’anni dalla più sanguinosa e distruttiva guerra in territorio europeo dopo il secondo conflitto mondiale. A Sarajevo non si sentono più le bombe, non si deve più correre lungo il Viale dei Cecchini per non farsi ammazzare. Il caffè e le sigarette non mancano più ed è possibile ammirare la Vijecnica ristrutturata. Ma le ferite di quel conflitto sono ancora visibili in città. Per Sarajevo, come per tutta la Bosnia ed Erzegovina, questi tre decenni sono stati spesso un’occasione persa, a causa di élite politiche ancora fortemente legate a uno spirito etnonazionalista che impedisce qualsiasi concreto passo in avanti. L’invasione russa in Ucraina ha riportato la guerra in piena Europa, distraendo l’Ue e l’opinione pubblica dalle difficoltà e dalle tensioni crescenti in alcune aree dei Balcani dove in molti sono pronti a sfruttare il momento di confusione per i propri interessi. La speranza è che questa volta, la guerra non arrivi davvero.
Dottore di ricerca in Studi internazionali e giornalista, ha collaborato con diverse testate tra cui East Journal e Nena News Agency occupandosi di attualità nell’area balcanica. Coautore dei libri “Capire i Balcani Occidentali” e “Capire la Rotta Balcanica”, editi da Bottega Errante Editore. Vice-presidente di Meridiano 13 APS.