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Ripensare al pacifismo: il movimento per la pace in Jugoslavia

di Andrea Caira*

L’articolo è il prodotto di una riflessione nata durante il Master in Public & Digital History promosso dall’Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia (Unimore). Obiettivo del lavoro è stato quello di approfondire la memoria del movimento per la pace in Jugoslavia nel nostro paese. La ricerca è stata sviluppata mediante l’utilizzo privilegiato delle fonti orali create a partire dai colloqui con i protagonisti del movimento. Attualmente il corpus narrativo si compone di circa 50 interviste. La trascrizione degli estratti, in armonia con i criteri metodologici della storia orale, ha cercato di mantenere una struttura quanto più fedele all’oralità dei testimoni. 

Un pacifismo polisemico

Era il 1995 quando Alex Langer inquadrava lucidamente la contraddittoria macchina diplomatica messa in moto dell’Occidente per provare a intervenire sulle sorti del conflitto jugoslavo. “Tutte le trattative di pace”, constatava l’attivista di Vipiteno, “hanno, in realtà, rafforzato i signori della guerra legittimando la loro leadership, consolidando il loro potere, emarginando i loro avversari democratici. Niente o quasi nulla è stato fatto, invece, per sostenere le forze del dialogo, della reintegrazione, della ricerca di soluzioni comuni”. 

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La denuncia di Langer non era semplicemente la sconsolata sintesi di chi aveva creduto nella potenza preventiva del dialogo diplomatico ed ora si trovava ad osservare l’infelice epilogo della missione UNPROFOR in Bosnia ed Erzegovina. Al contrario, emergeva come un’esortazione alla società civile italiana nell’individuare nel movimento pacifista il soggetto politico attraverso il quale interpretare la fine del paradigma della Guerra Fredda. Per lunghi tratti della crisi bosniaca, e della successiva guerra del Kosovo, la riflessione attorno al ruolo, alle sfide, ma anche allo stesso processo costitutivo del movimento umanitario, aveva interessato larghi strati della società italiana. Il verbo della nonviolenza sembrava infatti connettere soggetti e realtà associative provenienti da esperienze diverse che, soprattutto nel decennio precedente, si erano incrociate e identificate attraverso la condivisione di nuove forme di disobbedienza civile e sviluppando una propria ritualità.

Non si trattava solo di una sorta di frattura a livello nazionale o di una più generica dissociazione dagli anni di piombo e della postura assembleare extraparlamentare, o almeno non totalmente. L’identità del movimento non era il risultato di un’operazione sottrattiva. All’opposto, si proponeva come piattaforma costruttiva e rinnovatrice della società, indicando una nuova prospettiva per interpretare i regimi di tensione locali e globali e proiettarvisi all’interno. Non era più la contrapposizione tra i due blocchi a determinare le parti: il superamento della conflittualità Est-Ovest diventava lo stesso obiettivo da perseguire.

Manifestazione pacifista fuori la base statunitense di Aviano (PN) contro i bombardamenti in Serbia (6 giugno 1999)

Eppure, rappresenterebbe una leggerezza storiografica perimetrare il movimento pacifista italiano all’interno dell’esperimento di cooperazione decentrata avvenuto nei Balcani. Probabilmente sarebbe più corretto individuare nella sinergica risposta sviluppata in Jugoslavia un respiro all’interno di un processo più lungo e articolato che, nell’eterogeneità dei suoi partecipanti, ritrovava la matrice identitaria.

Giulio Marcon, ex portavoce dell’Associazione per la pace e poi presidente del Consorzio Italiano di Solidarietà, sulla diversità del pacifismo italiano asserisce che “la sensibilità e la mobilitazione pacifista si svilupparono in modo sostanzialmente diverso dal resto d’Europa”. Tra le varie ragioni Marcon identifica “la maggiore vivacità e resistenza del movimento pacifista italiano rispetto a quello di altri paesi, il legame con alcune grandi associazioni nazionali (ARCI, ACLI, Legambiente) e l’esistenza di un vasto arcipelago di pacifismo diffuso (Associazione per la pace, Pax Christie ecc.)”. Una valutazione che illumina sulla natura polisemica del movimento come riflesso di un’identità collettiva, la quale si riconosce nei differenti percorsi esperienziali dei promotori e degli attivisti di base.

In pratica, la rete nonviolenta italiana degli anni Novanta acquisisce la capacità di tradurre e offrire, mediante una sintesi caleidoscopica, quella moltitudine che attraversa la società di quel momento. Un pacifismo che Alessandro Marescotti, Alfonso Navarra e Laura Tussi hanno descritto in termini di multiformità: addizione di “numerose iniziative” e “gemellaggi” e rivolto alla “promozione del dialogo tra belligeranti e di solidarietà per i diritti umani”. Un’asserzione che trova conferma anche sotto il profilo quantitativo. Basti pensare che solamente nel caso della Bosnia ed Erzegovina, tra 1992 e il 1995, i cooperanti italiani che presero parte alla rete pacifista vennero calcolati in un numero compreso tra 15.000 e, secondo alcuni, i 200.000. Davanti alla tragedia jugoslava la rete nonviolenta si strutturò in una serie di realtà umanitarie relativamente mature, capaci di innervarsi in maniera multiforme nei contesti locali di provenienza e, in alcuni casi, di innescare un dialogo transnazionale con alcuni centri urbani jugoslavi, promuovendo gemellaggi e scambi culturali. 

Gemellaggi previsti nell’ambito del progetto Atlante, realizzato in partnership con le Nazioni Unite (Marzia Bona)

La rapidità con cui il pacifismo si impose nel dibattito pubblico italiano rispetto al tema della dissoluzione della Jugoslavia trovò nel processo storico dello stesso movimento la sua principale legittimazione. Pertanto, non si tratta di ricondurre l’esperienza pacifista degli anni Novanta sotto il cappello dello spontaneismo, quanto più di allocarla all’interno di un tracciato tematico-cronologico che nasce con i Partigiani della pace, passa per Aldo Capitini e si ricollega agilmente alla legge numero 772 del 15 dicembre 1972 sull’obiezione di coscienza al servizio militare. Una piattaforma di rivendicazioni che gradualmente abbandona i confini nazionali per (ri)dirigersi verso palcoscenici internazionali e farsi voce nella lotta per la denuclearizzazione, contro la base di Comiso e per l’abolizione degli euromissili. Un pacifismo permeabile: aperto alle contaminazioni esterne e duttile nelle rimodulazioni interne. Ed è probabilmente lo stesso contorno geopolitico dell’inizio degli anni Novanta che obbliga il pacifismo italiano a una nuova metamorfosi; che impone un riassetto della teoria e della pratica secondo il neonato ordine mondiale post-sovietico. Centrali in questo dibattito diventano concetti come l’autodeterminazione dei popoli e il ruolo delle Nazioni Unite in territori di crisi.  

Schegge memoriali

Come hanno sostenuto Marco Abram e Marzia Bona, fronte dell’ingente “corpus di testimonianza prodotto dai protagonisti negli ultimi due decenni” la ricerca accademica sulla società civile italiana “non ha, tuttavia, preso in considerazione in questo senso l’impatto e i significati della mobilitazione in Jugoslavia”. Un’esperienza che nella memoria collettiva del movimento rimane invece altamente impattante e capace di valorizzare “concretamente, al contrario di quello che era avvenuto negli anni passati nelle politiche della Cooperazione italiana, il ruolo degli enti locali e della cooperazione decentrata”.

Nelle righe seguenti, attraverso il ricorso alle fonti orali prodotte grazie ad alcuni dei testimoni del movimento nonviolento italiano, si cercherà di restituire parzialmente l’intreccio tra i grandi eventi storici e la percezione di questi in chiave soggettiva. L’obiettivo dello studio è stato quello di approfondire e storicizzare le complessità della mobilitazione, evidenziando come la capillarità dell’attività non abbia significato uniformità dell’analisi ed esclusività dei percorsi.

Testimoni e testimonianze

Flavio Mongelli, ex presidente dell’ARCI Milano, lega l’esperienza del pacifismo italiano alla costruzione di un processo politico internazionale, che, se da una parte riafferma il ruolo della società civile, dall’altro polarizza ulteriormente il rapporto con il sistema partitico nazionale.

Flavio Mongelli:

Il Pacifismo italiano […] rinato negli anni Ottanta nella lotta contro i missili, aveva un elemento comune molto forte: lavorare per la pace. Voleva dire lavorare per un ordine internazionale più giusto. Per un ordine mondiale multipolare. Infatti, legava questa battaglia al superamento dei blocchi [Est-Ovest]; all’Europa dei cittadini e non dei mercati; alla riforma delle Nazioni Unite. […] E in Jugoslavia c’erano tutti questi elementi. Pensavamo che intervenendo di persona con le realtà pacifiste… prendendo rapporti con le realtà pacifiste locali fosse possibile influenzare l’Europa e i propri governi ad intervenire; perché il movimento pacifista si concepiva come soggetto politico. È uno dei primi momenti in cui la società civile organizzata fa politica direttamente, si pone come soggetto politico […].

Manifestazione per la pace a Comiso (Aprile 1982)

Prima la mediazione politica avveniva attraverso i partiti, erano loro che cercavano di rappresentare la volontà dei cittadini organizzati nelle associazioni. […] Però già allora si manifesta un protagonismo nuovo, più autonomo da parte di soggetti della società civile organizzata. E nella vicenda jugoslava questa cosa si esprime: facciamo politica direttamente, cerchiamo di influenzare il nostro governo e i governi dell’Europa per intervenire lì. Noi cerchiamo di avere una funzione utile: individuare le forze locali che vanno in quella direzione, di dare elementi di analisi e fare delle proposte. L’Europa, e la politica italiana, non erano preparate. Si è creata, con la Jugoslavia, un’ulteriore cesura tra società civile e la politica dei partiti.

Uno degli esperimenti più interessanti di cooperazione decentrata, capace di tradurre e interpretare questa nuova postura di presenza, fu senza dubbio quello sviluppato tra Bergamo e Kakanj nell’ambito dei progetti di gemellaggio tra i comuni dell’Italia e della Bosnia ed Erzegovina. Un rapporto che non fu circoscritto unicamente al momento di massima crisi umanitaria, ma che seppe maturare e prolungarsi nel tempo, fino alla successiva fase di ricostruzione infrastrutturale e sociale. 

Roberto Bertoli:

L’avvio del percorso che ha portato a tutto il progetto è stato quello di trasportare tutti i sentimenti di semplice solidarietà in una spinta anche di tipo politico. Di rifiuto della guerra, di rifiuto del conflitto, della ricomposizione del conflitto in maniera differente: non con la vittoria del più forte, ma con il coinvolgimento nella comprensione del fatto che ci si può confrontare senza ammazzarci. Da questo punto di vista è stato forse uno dei primi tentativi di mettere insieme soggetti anche completamente diversi che io definisco, per la realtà di Bergamo, come il diavolo e l’acquasanta. Intendendo che intorno al tavolo si sedevano le Donne in nero – il diavolo – e dall’altra parte la Caritas – l’acquasanta. Questo è stato un passaggio importante. Sia per il peso che avevano alcune associazioni, tipo la Caritas, i sindacati… associazioni potenti, forti, con una propria struttura e una propria storia. Ma anche per le associazioni, e i circoli che nascevano, che partivano da altri percorsi… che non avevano dietro una storia di lungo periodo; non avevano organizzazione o non erano strutturati. [Ad esempio] come i circoli e i gruppi di paese e le Donne in nero… che erano poche persone. Si mobilitavano, ma non avevano strutture e riferimenti. Allora, essere riusciti a mettere insieme in quella fase soggetti così diversi è stato forse uno degli elementi di arricchimento che ha permesso il coinvolgimento nel gruppo di fette importanti della città. Proprio perché ognuno poteva trovare le proprie sensibilità all’interno, le proprie attenzioni, le proprie diversità e non era costretto, invece, ad aggregarsi a strutture più grosse”. 

La guerra in Jugoslavia produsse una sorta di effetto catalizzante nella ricomposizione di una società civile italiana ancora dilaniata dallo scontro politico-sociale degli anni Settanta. La polarizzazione ideologica venne stemperata dall’illusoria ondata d’ottimismo culturale che si irradiò con la caduta del muro di Berlino, mentre anche le pratiche di cooperazione umanitaria furono riarticolate in base alle nuove analisi suoi confitti e ai nuovi interpreti della geopolitica globale. Utilizzando le categorie introdotte da Langer, si potrebbe sostenere che il passaggio fu quello racchiuso dal pacifismo tifoso al pacifismo concreto

Silvio Ziliotto:

Un pacifismo frammentato anche. C’è tanto mondo cattolico e tanto impegno. Nel caso nostro è un mondo cattolico che però è aperto a una componente che non è per nulla cattolica, appunto, dei laici, dei circoli ARCI…. è un pacifismo differente rispetto alla tradizionale impostazione cattolica. A me piace di più la nostra impostazione perché va meno nelle zone di frattura, cioè va meno nelle zone del fronte. Invece il nostro è l’atteggiamento di chi interviene nei campi, non con gente unicamente cattolica, ma è aperta all’altro. Io sono un pochino scettico nel fare pace con le marce della pace, anche perché in alcuni casi si è andati a mettere in pericolo l’incolumità di alcuni volontari […]. Io in alcuni casi ero un po’ differente perché mi sembrava una maniera per mettersi in mostra e non portare nulla a casa, però sono sicuro che abbiano dato un segnale [rivolto alle marce]. Diciamo che le sentivo meno mie, preferivo portare la pace facendo un lavoro continuo di volontariato, di aiuto nel quotidiano… sentivo che fosse più funzionale andare in un campo profughi e dare una mano nel concreto.

Ma se le tecniche umanitarie e della disobbedienza civile differiscono dalle pratiche partitiche operate durante la Guerra Fredda, con il conflitto jugoslavo ad essere risignificato è anche la funzione stessa del corpo. Quel corpo che, in particolar modo per il caso bosniaco, diventa un potente elemento simbolico. “Cosa renderebbe genocidari gli stupri delle donne bosniaco-musulmane?” domanda Stefano Petrungaro. “L’obiettivo sarebbe stato quello di bloccarne la riproduzione biologica, uccidendo gli uomini e ingravidando le donne con il seme della propria nazionalità. Alla base di un simile atteggiamento, la delirante convinzione che cultura e biologia siano intrinsecamente connesse”. Marina Fresa, attivista delle Donne in nero di Venezia, durante l’intervista ha largamente ricostruito l’ascrizione della questione di genere all’interno del dramma jugoslavo.”

Marina Fresa:

Ogni volta che penso alle attività che svolgevamo prima di internet mi chiedo come facessimo a trovare le persone e trovarci tra di noi… riuscivamo a fare tutto. Non si chiamavano flash mob, ma ci trovavamo con facilità incredibile: nelle osterie, nelle piazze, nei centri sociali. A Venezia-Mestre il Centro donna è stato un posto molto importante e significativo per le donne della città. In questo contesto, abbiamo trovato i contatti con le donne di quella che ancora era la Jugoslavia. Questi scambi sono stati anche molto emozionanti. Ci hanno inviato alcune foto che ritraevano le donne di Zagabria e di Belgrado vestite di nero mentre protestavano contro la guerra simultaneamente, queste donne ci chiedono di offrire loro uno spazio fuori dalla guerra e quindi con il comune di Venezia, che ci finanzia questa straordinaria impresa, organizziamo un convegno dal titolo “La guerra non ci appartiene” (o qualcosa di simile).

Manifestazione delle Donne in Nero di Venezia-Mestre durante la guerra in Bosnia ed Erzegovina (Foto di Marzia Bona)

Organizzammo questo convegno facendo arrivare le donne da Zagabria, da Belgrado, da Pančevo… da tutte le città. Ecco, ricordo con grande emozione la delegata di Sarajevo. A quell’epoca la Bosnia era ancora fuori dal conflitto [siamo nel febbraio 1992] […]. L’intervento della donna di Sarajevo è stato molto in stile socialismo reale. Nel senso che lei ha portato i saluti della Bosnia, del Comitato delle Donne di Sarajevo e con questa aria molto ufficiale da delegata delle donne del partito. Ricordo che questa cosa ci aveva fatto tenerezza, perché era come l’immagine di qualcosa che non c’era più pur esistendo ancora. C’era lei con il suo corpo e la sua storia. Il convegno si svolse a porte chiuse, rigorosamente ad inviti, non era una cosa aperta. Le donne che avevamo chiamato a partecipare erano donne con cui avevamo delle relazioni e con cui avevamo cominciato un lavoro sul tema della cittadinanza femminile e dell’opposizione delle donne alla guerra, come con le donne della Casa delle donne a Bologna. […] Questi due giorni di convegno sono stati molto emozionanti, perché in realtà la guerra c’era. Le donne croate non volevano neanche vedere le donne serbe. Nonostante l’invito fosse stato quello di creare uno spazio di pace in realtà questa pace non c’era neanche in questo bellissimo giardino dove noi ci riunivamo. Quindi è stato un esercizio di pazienza e autorevolezza da parte nostra, donne italiane, per riuscire a far parlare tutte. Per creare uno spazio in cui ognuna potesse parlare e rimandare indietro il rancore e l’idea di nemico che aveva dell’altra.

La memoria della rete pacifista italiana si mostra profondamente stratificata. Nel narrare il loro attivismo, i testimoni esercitano un processo di storicizzazione del movimento necessario al fine di percepirsi all’interno di questa esperienza. In un frangente complesso come quello attuale (ri)pensare alle pratiche di disobbedienza civile, di inclusione e di arricchimento reciproco messe in atto poco più di trent’anni fa ci permette di analizzare il presente da una diversa angolatura. Il pacifismo, come emerge dai vari racconti, è il risultato più concreto di un quotidiano esercizio di ascolto interculturale e di rifiuto della violenza come mezzo di risoluzione delle crisi internazionali. 

*Ricercatore e giornalista, Andrea Caira è co-autore (assieme ad Arianna Cavigioli) del volume, edito da Mimesis, “La resistenza oltre le armi. Sarajevo 1992-1996”, che i due autori hanno raccontato anche su Meridiano 13 in questo articolo dedicato in particolare alla vivacità teatrale nella Sarajevo assediata.

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