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Il 3 marzo 1986, quattro anni dopo la caduta della giunta militare in Turchia, esce negli Stati Uniti Master of Puppets, terzo album in studio del gruppo trash metal statunitense Metallica. L’album, sei volte disco di platino, è considerato uno dei migliori dischi heavy metal di sempre. Otto canzoni che hanno lasciato il segno, trascinate da un singolo che ha cambiato la storia della musica. Nessuno avrebbe potuto immaginare che quel disco, 23 anni dopo la sua ultima ristampa per il mercato turco, sarebbe diventato parte della componente simbolica del movimento studentesco di un paese lontano mille miglia dalla California che ne fu culla.
Nel mese di marzo 2021 gli studenti dell’università Boğaziçi di Istanbul, in protesta contro l’imposizione di un rettore fiduciario nominato dal governo – in sprezzo alla consuetudine di democratiche elezioni – hanno portato avanti una serie di iniziative e di manifestazioni che sono culminate con l’irruzione violenta della polizia nel campus. Colonna sonora di quel mese di proteste è stato proprio l’album Master of Puppets dei Metallica, accompagnamento costante dei cortei vivaci e colorati, assieme ai cartelli con su la copertina dell’omonimo singolo, opportunamente modificata con il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan a rappresentare il grande burattinaio.
È interessante come il messaggio che sta dietro a un’opera d’arte cambi in funzione di chi ne usufruisce ed è curioso come questo fenomeno abbia portato un magistrale pezzo metal sulla dipendenza dalle droghe a divenire rappresentativo di questi ragazzi e della loro lotta contro i provvedimenti sempre più repressivi del governo dell’Akp.
A ben vedere, però, e a conoscere la storia dell’album e della band, si capisce che i semi erano già tutti lì, in attesa del giusto humus che li facesse germogliare, e la Turchia è, da sempre, terreno fertile per la musica ribelle.
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Musica ribelle turca
Nell’unica testimonianza scritta sulla storia del punk turco (il libro Being Punk in Turkey di Tolga Güldallı) si mette l’accento sul fatto che “dopo il colpo di Stato militare tradizionalista del 12 settembre 1980 che fu accompagnato da torture, arresti, esecuzioni, esili, proibizioni, censura e legislazione antidemocratica, esisteva ancora uno spazio per i giovani che rifiutavano di accettare la degenerata cultura arabeggiante imposta loro; per chi cercava un po’ di respiro, all’interno di quella società assimilata e disumanizzata, quello spazio si chiamava Heavy Metal all’inizio e, successivamente, Punk”, una scelta musicale e di vita che, in quel contesto, connota la parola di un valore aggiunto non indifferente.
D’altro canto, la storia d’amore tra contestazione e musica, in terra di Turchia, è vecchia più di mezzo secolo. Nel 1970 Selda Bagčan, cantautrice originaria dell’Anatolia, aveva sparigliato le carte dell’underground turco unendo canti tradizionali e psichedelia occidentale, dando vita a un sound innovativo e stupefacente che divenne ben presto uno dei pilastri della rivoluzione culturale che, dall’orizzonte grigio di Liverpool, aveva finito per far breccia anche nel cuore di molti giovani turchi. Nettamente schierata a sinistra, Selda, ebbe fin da subito problemi per le tematiche trattate nelle sue canzoni, per l’ostinazione a voler cantare alcuni pezzi in curdo e per aver musicato poesie vietate del poeta turco Nazim Hikmet.
Negli anni Ottanta, mentre a Istanbul i primi temerari si facevano le creste colorate alla faccia del generale Evren, la posizione di Bagčan si fece sempre più complicata; venne perseguitata e ostracizzata, imprigionata per ben tre volte e, quando la sua popolarità cominciò a varcare i confini nazionali, spopolando all’interno delle comunità turche all’estero, le venne proibito di lasciare il paese.
Le proteste di Gezi Park
I ribelli, però, difficilmente dimenticano chi ha portato la loro bandiera, così la sua eredità è stata raccolta dalle generazioni successive e la sua musica ha cullato le speranze di cambiamento che hanno animato i giorni di protesta a Gezi Park, repressi nel sangue nell’estate del 2013.
Anche la nuova ondata di musica psichedelica turca sembra esserne, in parte, un’emanazione, con gruppi e cantanti pronti a prendere il testimone e a lanciarsi alla conquista del mondo. È il caso di Gaye Su Akyol, la moderna regina della psichedelia, osannata da Iggy Pop e, un tempo, perla nascosta del mercato musicale alternativo turco, che è passata in pochi anni dai palchi fumosi dei locali di Istanbul al successo planetario.
Degna erede di un modo di concepire la musica che ne fa vessillo di protesta e orgoglioso mezzo di rivendicazione della propria diversità, viene definita “l’artista più coraggiosa della Turchia”, dato che i suoi testi le hanno provocato più di qualche noia con la polizia.
Musicalmente propone un mix di musica surf, atmosfere che ricordano Nick Cave, tradizione anatolica, influenze elleniche e tonnellate di psichedelia. “Mia madre era una cantante classica, mentre mio padre ascoltava pop e jazz turchi e mio zio era un fan della psichedelia anatolica e dei Led Zeppelin. Poi, quando avevo dieci anni, mio fratello mi ha fatto ascoltare i Nirvana”, racconta alla stampa, “tutto questo mi ha aiutato, così come mi ha aiutato l’aria che si respira a Kadıköy”.
Il quartiere, situato sulla sponda asiatica di Istanbul, è da un decennio il rifugio degli esuli dalle manganellate di piazza Taksim e dei transfughi in fuga dalla gentrificazione di Beyoğlu, una volta cuore pulsante della scena alternativa della città. Akyol, nata artisticamente sulle sponde del Bosforo, si è fatta le ossa nei Bubituzak – storica band underground turca – inserendosi in un solco che, partendo di Bagčan, passa anche da Erkin Koray, “il padre del rock psichedelico turco”.
Erkin Koray
Recentemente scomparso, Erkin è stato una vera e propria leggenda, nonché un personaggio più che controverso. Dotato di una grande voce e di un incredibile talento musicale, il cantante ha rivoluzionato il panorama musicale turco mescolando, per primo, melodie classiche e temi mediorientali in un rock psichedelico che ha resistito alla prova del tempo, alle crisi politiche e ai colpi di stato militari.
Accreditato come il primo musicista a elettrificare la Bağlama (il famoso liuto turco), l’uomo è stato tanto innovatore in contesto musicale, quanto incredibilmente ambiguo dal punto di vista politico; negli anni ha più volte manifestato il proprio supporto per l’Mhp (Partito del Movimento Nazionalista) – partito di estrema destra, nonché referente politico dei Lupi Grigi, movimento infarcito di populismo islamista e fascinazioni fasciste – salvo poi spostarsi su posizioni più moderate, soprattutto riguardo la laicità dello stato e l’obbligo del velo per le donne.
Una figura, quindi, ispiratrice a livello musicale, ma politicamente lontana anni luce dalle aspirazioni di Akyol e di gran parte della moderna scena underground turca, se si pensa che la cantante ha recentemente dichiarato al The Guardian di considerarsi un’artista politica, e che l’uso delle metafore nei suoi testi è anche un modo per lanciare messaggi sfuggendo alla censura. “Spesso la musica che faccio viene definita musica d’evasione” ha detto “ma, in realtà, tutto quello che faccio va contro l’evasione. Dovremmo sognare insieme per fare la guerra al male, ai fascisti e ai pazzi che in giro per il mondo si stanno diffondendo come un cancro”.
“London calling to the faraway towns,
Now that war is declared, and battle come down,
London calling to the underworld…”
cantava, nel 1979, Joe Strummer con i suoi Clash; nel 2023, in un mondo divorato dal capitalismo e dalla disillusione, a est del mar di Marmara, forse c’è ancora qualcuno disposto a rispondere a quella pacifica chiamata alle armi.
*Archeologo, ha vissuto a Betlemme e in Galizia. Ha collaborato con Rolling Stone Italia, IrpiMedia e Nena News. Ha inoltre scritto di surf, punk e skate su diverse testate, italiane e estere. Nel 2021 ha pubblicato Al-Hurryya الحرية – Storie d’amore, di guerra e di Anarchia(Eretica edizioni)..