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Romano Devleti/Džipsi Raj (‘Paradiso rom’) è stata una pubblicazione indipendente mensile rom incentrata sulle tematiche della cultura, l’arte e l’educazione, attiva alla fine degli anni Novanta del secolo scorso in Bulgaria. La rivista è stata fondata dalla poetessa Sali Ibrahim, membro della comunità rom erli del distretto di Fakulteta a Sofia (uno dei più grandi quartieri rom dei Balcani) e autrice di otto volumi di poesie e altre opere sia in bulgaro che in romaní.
Conformemente alla volontà della Ibrahim, redattrice capo del giornale, i testi pubblicati sulla rivista erano bilingui, sia in lingua bulgara che in lingua romaní, con l’obiettivo di portare avanti un dialogo efficace con le altre comunità del paese, nonché di valorizzare lo spirito rom anche al di fuori del paese balcanico, raggiungendo altri lettori di origine rom. Lo spunto per la realizzazione di questa pubblicazione di carattere innovativo venne dato dalla sottoscrizione di una convenzione di difesa dei diritti delle minoranze nazionali da parte dell’allora presidente bulgaro Petăr Stojanov nell’aprile 1998.
Il primo numero di Romano Devleti uscì nello stesso mese e si aprì con un esplicito riferimento all’importanza della cultura secolare delle varie comunità rom, attingendo al materiale esclusivo e ricco dei manoscritti e del folklore rom, la loro poesia, mitologia, storia, humor, religione: le tematiche del giornale si presentavano dunque come prevalentemente culturali.
Nelle sue pagine si potevano però leggere anche articoli riguardanti i problemi più attuali della contemporaneità e trovare informazioni sulle pubblicazioni rom di altri paesi del mondo, scoprendo legami con alcune personalità rom anche al di fuori della Bulgaria.
Il compito della rivista, oltre alla presentazione della cultura e l’arte del popolo rom, era quello di diffondere il più possibile anche importanti informazioni che contribuissero a decostruire gli stereotipi sulle minoranze rom.
“Perché il mondo ha tenacemente deciso che dai rom non c’è nulla da imparare, nulla da sentire, perché li ha isolati e li porta ad autoisolarsi (…) perché i messaggi dei rom non piacciono agli altri..?” – si chiede la stessa direttrice Sali Ibrahim.
Il messaggio che il giornale tentava di diffondere ai lettori bulgari è che ciascuno di loro poteva provare ad avvicinarsi alla comunità rom, sia attraverso le pagine del giornale, che nella vita quotidiana, sentendosi più legato alle sue questioni che costituivano ugualmente parte di quelle della più ampia società bulgara, responsabilizzandosi verso le tematiche interculturali del paese. Allo stesso tempo il messaggio rivolto alla comunità rom era quello di sforzarsi ad essere più costruttiva, più consapevole ed impegnata nella risoluzione dei propri problemi e nella costruzione di una società pacifica.
Un importante tema trattato dal Romano Devleti era quello della lingua madre romaní, verso la quale Ibrahim rivolgeva molte delle sue riflessioni:
Se qualcuno può affermare che il Signore ha ingiustamente operato inventando una lingua superflua e che tale lingua è quella romaní, allora bisogna che lo dimostri nel modo più leale!
E ancora: “Non ci sono dubbi che la lingua madre sia portatrice dello sviluppo genetico e valoriale di ogni persona. Io in questi 30 anni di ricerca sulla lingua romaní sono giunta a scoprire l’intatto incanto della sua ricchezza, della semantica, dell’alto sarcasmo nella parlata quotidiana, all’esistenza di concetti che non ci sono in altre lingue”.
Nell’illustrare le potenzialità della sua lingua madre, Sali Ibrahim racconta di come la parola romaní sia estremamente espressiva, essendo il suo sarcasmo sviluppato a un punto tale che “persino un bambino non alfabetizzato può riuscire a comunicare con strabiliante acume e spirito”. “Le magie della lingua rom sono molte, ed esse meriterebbero di essere specificamente studiate da un’equipe di linguisti”. Gli intellettuali rom bulgari del gruppo attivo su Romano Devleti speravano proprio in questo, nel genuino interessamento di persone che volessero specializzarsi in tale campo, convinti del fatto che nessuna conoscenza davvero profonda su questa cultura poteva essere prodotta senza un sincero rapporto con la sua lingua.
Le lingue portano con sé la sedimentazione della storia dei popoli, perciò la conoscenza di quelle dei popoli cosiddetti ‘subalterni’ diviene fondante per interpretare un punto di vista lasciato per troppo tempo in disparte, ritenuto inconoscibile e indifferenziato. Tali considerazioni costituiscono dunque un’esortazione rivolta a vari studiosi, non solo linguisti, ma anche storici e antropologi: quando ci si rapporta a popolazioni e gruppi sociali in condizioni politicamente ed economicamente svantaggiate si dovrebbe dedicare alle relative lingue la stessa attenzione che si presterebbe alle lingue di culture più riconosciute; tuttavia, questo avviene molto raramente. Poiché le lingue delle società subalterne sono più vulnerabili in relazione alle lingue maggioritarie, esse sono più soggette a processi di mutamento forzati, e il caso della lingua romaní nei confronti di quella bulgara corrisponde proprio a questa situazione.
Il potere totalitario del regime comunista è riuscito a impiantare numerosi pregiudizi di matrice xenofoba nella maggioranza bulgara, e addirittura in membri della stessa popolazione rom, al punto che molti di loro “provano orrore” davanti ad ogni parola ‘straniera’, come è ritenuta quella romaní. Per dimostrare invece la dignità e la cultura di cui è imbevuta questa lingua, Sali Ibrahim menziona degli esempi che provano la sua antichità:
Come negare che le prime denominazioni della geografia mondiale non hanno ancora perso il loro significato in lingua romaní? Per esempio, Africa significa approssimativamente ‘nelle terre che sopravvengono’, America ‘le nostre terre’, Pakistan ‘posto fratturato’, India ‘mamma’, ecc…
I valori educativi legati alla rivista
Per quanto riguarda l’ambito educativo, il giornale puntava ad affermare anche in questo campo l’importanza cruciale rivestita dalla lingua madre: “Il bambino rom è abbandonato in un labirinto in cui l’unica uscita è quella della lingua madre, ma essa è murata. E parallelamente a esso si muove il labirinto dell’altra lingua. E il bambino deve trovare l’uscita”.
Come si aiuta un bambino rom? La tesi della rivista è che l’educazione in lingua madre è quella che garantirà maggiori possibilità al bambino di apprendere propriamente anche bulgaro, o qualunque sia la lingua ufficiale del paese in cui abiti. Solo attraverso tale condizione il bambino rom potrà superare l’offesa che lo ha colpito da qualche parte profondamente nel cuore, l’amarezza che gli altri “odiano la sua lingua e tutto ciò che è legato alla sua origine”. Tuttavia, la scuola immaginata dal giornale mirata all’apprendimento della lingua materna in forma orale e scritta era (e rimane) in Bulgaria una prospettiva non realistica, non disponendo le istituzioni scolastiche di mezzi a sufficienza, e non beneficiando di un reale consenso: per ora essa non può funzionare e rimane solo un lontano miraggio. E così rimane anche una bella utopia un programma scolastico in cui si studi la storia bulgara in maniera più varia e da punti di vista molteplici che possano restituire anche la visione rom, mostrando il contributo che la sua musica, la sua letteratura orale, la sua poesia hanno dato al paese.
L’unico progetto reale di rilievo in questa direzione è stata la collaborazione fra la rivista Romano Devleti e la fondazione Romani Daj-Bulgaria alla pubblicazione di materiale di studio. Questo era finalizzato all’istruzione di bambini e adulti, rom e bulgari, e si è concretizzato nella compilazione di un vocabolario bulgaro-rom, di un libro di conversazione bulgaro-romaní, di un abecedario, due raccolte di versi in lingua romaní e bulgara (per adulti e per bambini), e in alcuni sussidiari scolastici. Lo scopo di tali iniziative era quello di contribuire a superare la barriera psicologica che divideva bulgari e rom e creare una possibilità di reciproco avvicinamento nell’ottica di una conoscenza comune, nonché di dare visibilità alle comunità rom, valorizzando il loro patrimonio culturale e la loro ricca storia fino ad allora ignota ai più.
In tale direzione il giornale Romano Devleti si muoveva anche nella sua rubrica intitolata I rom nel folklore bulgaro, in cui si presentavano canzoni che mostravano la secolare e tradizione di convivenza multietnica del paese, interrottasi con l’avvento dello stato-nazione bulgaro. Spesso le canzoni erano incentrate su vicende amorose, ponendo un forte accento sulla sofferenza degli innamorati, causata dalla limitazione ai matrimoni misti fra rom e bulgari. In tale modo si voleva rimarcare che anche nel folklore e nella musica popolare, rom e bulgari erano esistiti e continuavano a vivere ineluttabilmente assieme, procedendo nello sviluppo storico uno accanto all’altro.
Il significato utopistico dell’esperimento di Romano Devleti
Come ha affermato Ibrahim in uno dei suoi editoriali, la nazione rom ha taciuto troppo a lungo e soprattutto ha perso nel tempo molta della sua storia e identità. Tuttavia, una pubblicazione come Romano Devleti poteva dimostrare che le cose erano cambiate e che era meglio tardi che mai per cambiare il corso degli eventi in una direzione propositiva. Negli articoli e testi pubblicati su questa rivista si dava finalmente la possibilità agli stessi rom ora di diventare protagonisti della propria storia, visto che essi provavano un irresistibile desiderio di parlare e scrivere per se stessi, e non lasciare che fossero altri a farlo al posto loro.
Il desiderio della rivista di accendere la curiosità del lettore bulgaro (o di altre comunità non rom) verso importanti tematiche culturali e sociali non si accompagnava tuttavia ad alcuna strategia di “commuoverlo fino alle lacrime”, insistendo su “quanto sia triste il povero rom”. Al contrario, lo scopo era quello di presentare la cultura e lo stile di vita rom in maniera interessante, stimolante, leggibile, affinché il lettore potesse capire come non vi fosse più senso nel tenere gli occhi chiusi su questo segmento della società bulgara e che molti benefici potevano essere tratti dalla familiarizzazione con i suoi valori culturali.
L’esperimento di Romano Devleti durò purtroppo solo poco più di un anno, fino al 1999. Nella sua quindicina di numeri, la rivista riuscì comunque a realizzare un’impresa estremamente significativa: provare quanto lo spazio rom fosse occupato da gente di talento, creatori di letteratura, poesia, arte e folklore, che rappresentavano un valore aggiunto per la stessa cultura bulgara, nell’ottica di uno sviluppo multiculturale.
La missione utopistica del Romano Devleti era proprio quella di portare i lettori a convincersi del fatto che non vi era nulla di sbagliato nel voler salvaguardare ciò che è rom, o del fatto che esisteva una lingua più o meno diversa da quella maggioritaria. La stessa presenza di tale pubblicazione, scriveva Sali Ibrahim, poteva ostacolare non solo i nazionalisti ma anche gli stessi rom nella denigrazione di tale patrimonio linguistico e culturale.
Sali Ibrahim scriveva inoltre:
Non vorremmo mai dover iscrivere nel libro degli esseri naturali in pericolo d’estinzione anche i rom, particolarmente in Bulgaria, dove hanno subito cinquant’anni di regime assimilazionista, che ha cancellato parte significativa della loro autocoscienza,
Queste parole si rivelano ancora oggi come un monito, in tutti i paesi del mondo in cui la presenza rom nella storia passata e presente continua a non essere riconosciuta e non si dà spazio alla sua parola, sia essa orale o scritta.
Foto delle copertine di Romano Devleti tratte dal sito dell’archivio del museo nazionale della letteratura della Bulgaria.
Antropologa e ricercatrice di origine italo-messicana-levantina. Attualmente ricercatrice post-doc presso il dipartimento di Sociologia dell'Università di Ljubljana. I suoi temi di ricerca, che si ripercuotono anche sulla sua scrittura non accademica, riguardano la diaspora, i confini, la diversità culturale e le minoranze etnolinguistiche, con una predilezione particolare per l’area balcanica. Quando messa nelle giuste condizioni, parla più o meno fluentemente una dozzina di lingue e ne legge almeno altre cinque (romeno, russo, portoghese, un po’ di romanì e mandarino), grazie al suo bagaglio genealogico multiculturale e ai numerosissimi soggiorni di ricerca e studio all’estero finanziati da diversi enti nazionali ed internazionali.