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Russia e minoranze: intervista allo storico Giovanni Savino

Le minoranze etniche sono un elemento imprescindibile dello stato russo. Ne abbiamo parlato con Giovanni Savino, storico che si occupa di Russia e nazionalismi nell’età contemporanea. Ha insegnato storia contemporanea per anni a Mosca, adesso è docente all’Università Federico II di Napoli. È autore del canale Telegram Russia e Altre Sciocchezze e del volume Il nazionalismo russo, 1900-1914: identità, politica, società (FedOA, 2022).

Un cartellone sulla piazza principale di Machačkala, capitale del Daghestan, immagine che correda l'intervista a Giovanni Savino.
“Solo quando siamo insieme siamo la Russia”, una frase di Vladimir Putin riportata in un cartellone sulla piazza principale di Machačkala, capitale del Daghestan (Meridiano 13/Aleksej Tilman).
Giovanni Savino, come si inseriscono le minoranze interne alla Federazione Russa nella retorica putiniana nazionalista contemporanea? E come si è trasformata la tendenza alla folklorizzazione dei popoli nativi dell’epoca sovietica nel discorso nazionalista attuale?

Il rapporto tra nazionalismo russo e minoranze nazionali è complesso e non si può descrivere in termini univoci. Per comprenderlo bisogna guardare quali sono i retaggi della storia e qual è il posto occupato dalle minoranze nazionali nel sistema istituzionale e giuridico russo.

Focalizzandoci su quest’ultimo aspetto: la Federazione Russa ha ereditato la divisione in repubbliche nazionali dall’Unione Sovietica. Le repubbliche hanno più o meno gli stessi territori che avevano prima del 1991. Le minoranze sono presenti nella Costituzione russa come parte dell’unione nazionale (rossijskij narod, il popolo multietnico russo – contrapposto a russkij aggettivo che descrive solo l’etnia russa). Negli ultimi decenni, tuttavia, sono avvenute delle modifiche importanti a tal proposito.

La prima è una modifica di tipo istituzionale. Nel sistema federativo russo, oggi le repubbliche nazionali e le oblast’ sono parificate a livello di importanza istituzionale. Infatti, i cosiddetti circondari federali racchiudono insieme oblast’ e repubbliche nazionali (ad esempio, il circondario federale del Volga include la Repubblica del Tatarstan, così come la Oblast’ di Ul’janovsk, due realtà diverse). Questo significa una sorta di istituzionalizzazione della verticale del potere, ma soprattutto, un demansionamento dell’importanza delle repubbliche visto che è come se si fosse aggiunto un gradino ulteriore nel rapporto con Mosca.

La seconda modifica riguarda la folklorizzazione; in Unione Sovietica esisteva l’idea della nazionalità titolare, ovvero le nazioni che davano origine ai titoli delle entità autonome all’interno dell’Unione. Quel tipo di culture venivano promosse, in alcuni decenni di più, in altri di meno, ma non si è mai arrivati a un completo rivolgimento di quel tipo di politica. Nell’attuale Federazione Russa, la folklorizzazione è molto più presente e viene favorita da una serie di misure legislative che dall’esterno appaiono di poco conto.

Come, ad esempio, la questione dell’educazione in lingua materna. Nel 2018, è stata introdotta una legge sull’istruzione nelle lingue nazionali, che non diventa più obbligatoria nelle repubbliche, ma facoltativa. La lingua madre viene svantaggiata in questo modo sia istituzionalmente, soprattutto nelle repubbliche con meno risorse, sia per questioni pratiche. I genitori dello studente baschiro o mari, sono molto più propensi a fargli studiare il russo che non il baschiro o la lingua dei mari perché la prospettiva è quella di mandare il figlio a Mosca o in una delle grandi città a studiare all’università e far carriera.

Quindi noi ci troviamo di fronte a una folklorizzazione molto più forte di quello che era nel periodo sovietico dovuta a questi provvedimenti istituzionali e legislativi, ma anche allo sviluppo economico in Russia, che è accentrato su Mosca e poche grandi città.

Per raccontare un’esperienza personale, quando insegnavo in Russia, ho avuto moltissimi studenti di minoranza etnica e linguistica. Alcuni conoscevano le lingue nazionali, soprattutto chi veniva dalle repubbliche più avvantaggiate economicamente (ad esempio, jacuti e tatari), la maggioranza però, parlava solo in russo. Discorso a parte per la Cecenia che è un mondo dove spesso ci sono problemi con la conoscenza del russo perché è una regione che si può descrivere come un feudo, in cui è avvenuto un revival della lingua cecena.

Quello con le minoranze è un rapporto molto complesso che, a livello costituzionale, ha visto una sorta di declassamento di recente. Un emendamento del 2020 ha, infatti, introdotto una norma che riconosce il ruolo della lingua russa come lingua del “popolo costruttore dello stato”. Questo tipo di considerazione quanto meno formalizza l’idea che il popolo russo sia superiore agli altri popoli della Federazione.

La lingua di stato della Federazione Russa in tutto il suo territorio è la lingua russa in quanto lingua del popolo costruttore dello stato, facente parte dell’unione multinazionale dei popoli uguali della Federazione Russa.

Articolo 68 della Costituzione della Federazione Russa
Quando si guarda all’imperialismo russo, esiste da anni un dibattito sul concetto di “colonialismo interno” che si è riacceso dopo il 24 febbraio 2022. Come ti collochi in questo dibattito, a tuo modo di vedere si può analizzare l’espansionismo russo del passato con le stesse lenti interpretative che si usano per gli imperi europei?

Nel caso russo, io credo che molto dipenda da quelle che sono le regioni in cui venne attuato l’espansionismo. Vi erano forti differenze nelle politiche di espansione in Europa, Siberia, Estremo Oriente e Asia Centrale. Non vi è stata una politica complessiva da questo punto di vista. Ad esempio, l’espansionismo in Siberia tra il XVI e il XVIII secolo si è costituito di vari elementi. Partendo da un’espansione più popolare, con i cosacchi, andando sempre più verso l’investimento governativo. Invece, in Asia Centrale, si è assistito, anche nell’ambito del Grande Gioco nella seconda metà dell’Ottocento, a una vera e propria guerra coloniale come lo era anche l’espansione nel Caucaso.

Sul tema del colonialismo interno (termine ideato da Alexander Etkind nel 2011), trovo interessante e convincente che Etkind parli anche di una specie di autocolonizzazione dei russi.

Vi sono state dinamiche coloniali nell’espansionismo russo, ma il tipo di approccio coloniale e di costruzione dei rapporti sociali, economici e politici dipende da area ad area. Bisogna anche presentare il contesto in cui questo colonialismo avvenne. Una società come quella zarista era composta di vari ceti e varie epoche: nello stesso paese all’inizio del Ventesimo secolo si passava dai grossi centri industriali come Mosca, Pietroburgo e la Polonia del Congresso, agli allevatori di renne e le società dei cacciatori-raccoglitori. Questo tipo di differenza tra campagna e città, centro e periferia, caratterizza uno stato che aveva provato a nazionalizzarsi, ma non vi era sostanzialmente riuscito. Ciò va sempre sottolineato quando si parla di colonialismo interno.

In sintesi, trovo giusto discutere di colonizzazione interna, ma bisogna sottolineare che esistono differenze di approccio e di politica nelle varie aree soggette all’espansione russa. Ci troviamo di fronte a due miti. Il primo è quello del russo sempre colonizzatore e sempre cattivo, il secondo è il mito del russo che porta la civiltà. Questa seconda visione viene spinta dal Cremlino in ogni modo, dipingendo falsamente l’espansionismo russo come meno negativo rispetto a quello europeo.

Concentrandoci sul periodo sovietico, ritieni giusto ascrivere l’espansione dell’Urss in molti dei territori che facevano parte dell’Impero russo a una declinazione dell’imperialismo russo o questa è un’interpretazione che non restituisce la complessità del fenomeno?

Credo che guardare alla complessità del fenomeno sovietico sia la chiave di interpretazione giusta. Bisogna premettere che i rapporti coloniali sono sempre una questione assai complessa perché hanno almeno due punti di vista: il punto di vista del colonizzatore e il punto di vista del colonizzato.

Negli ultimi anni, sulla questione dell’Unione Sovietica io credo che si faccia molto uso di una serie di approcci che non tengono conto, in primo luogo, di quello che l’Unione Sovietica programmava di essere e, quindi, dobbiamo presumere, credeva di essere. Ovvero, soprattutto nella prima fase, uno stato sovranazionale a cui avrebbero aderito tutti i proletari del mondo uniti in questa federazione socialista mondiale.

In secondo luogo, la questione del rapporto tra centro e periferia. È vero che noi vediamo che vi era una divisione del lavoro tra repubbliche all’interno dell’Urss, ma ci sono state eccezioni, soprattutto sulla questione ambientale, su cui andrebbe ricollocata la riflessione sul rapporto tra centro e periferia. Una dimostrazione dei grossi disastri fatti da una burocrazia accentratrice è il Lago d’Aral, prosciugato anche a causa dell’idea di uno sviluppo economico basato sul cotone e le monoculture.

Leggi anche: Lago d’Aral, cartoline dallo sfascio

Descrivere l’Unione Sovietica tout court come una potenza espansionistica coloniale, a mio modo di vedere, significa non tener conto del ruolo dell’ideologia comunista nella costruzione dell’immaginario e delle strutture istituzionali del potere sovietico. Significa anche confondere un po’ le acque. Anche perché l’Urss aveva un profondo interesse alla questione dei movimenti coloniali. Questo si vede soprattutto nei primi anni dell’Unione Sovietica, poi scoperto da numerosi studiosi e storici che interpretavano le rivoluzioni russe come parte di un processo globale complesso di emancipazione coloniale.

Sei d’accordo con l’idea che le nostre conoscenze e studi delle minoranze in Russia (ma spesso anche degli ex paesi sovietici) sono inevitabilmente condizionate e filtrate da studi e ricerche russe o secondo te questo non costituisce un quadro del tutto veritiero?

A mio modo di vedere, ci sono due livelli diversi.

A livello accademico, ci sono diversi studi sulle minoranze in Russa, quindi non sono d’accordo che questo problema esista grazie ai progressi fatti negli ultimi trent’anni, ma anche prima, nella tarda età sovietica.

Se però noi vediamo la questione dal punto di vista di come l’informazione invece agisce sul punto di trattazione delle minoranze nazionali, allora in questo vi sono dei problemi, dovuti essenzialmente anche al tipo di organizzazione che ha il mondo mediatico. Per esempio, se una televisione o un giornale ha un corrispondente a Mosca, il corrispondente difficilmente andrà in Jacuzia. Esiste anche un problema del mondo mediatico italiano. Spesso le notizie non le prendiamo dalle agenzie dei paesi o dei media indipendenti di quei paesi, ma le prendiamo attraverso il filtraggio che viene fatto dalle grosse compagnie mediatiche europee e nordamericane.

Quindi, se dal punto di vista accademico non è più così da qualche decennio, dal punto di vista dell’informazione questo problema esiste, ma sono stati fatti dei passi in avanti. Sono ottimista perché vedo una serie di progetti che provano a raccontare la Russia dei non russi, l’Asia Centrale o l’Europa orientale senza un punto di vista russo.

Bisogna anche sottolineare che esistono diversi punti di vista russi sui rapporti con le minoranze.

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Aleksej Tilman
Aleksej Tilman

Nato a Milano, attualmente abita a Vienna, dopo aver vissuto ad Astana, Bruxelles e Tbilisi, lavorando per l’Osce e il Parlamento Europeo. Ha risieduto due anni nella capitale della Georgia, specializzandosi sulle dinamiche politiche e sociali dell’area caucasica all’Università Ivane Javakhishvili. Oltre che per Meridiano 13, scrive e ha scritto della regione per Valigia Blu, New Eastern Europe, East Journal e altre testate.