di Nicola Mariani *
Il 13 marzo 2022, per iniziativa dell’Accademia per gli studi teologici di Volos (Grecia), 65 teologi ortodossi hanno composto una dichiarazione relativa all’invasione russa dell’Ucraina iniziata il 24 febbraio. Già a fine marzo, il documento, intitolato “Una dichiarazione dei teologi ortodossi sulla dottrina del ‘russkij mir‘”, contava più di 500 firme di intellettuali ortodossi, sia membri del clero che laici.
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La struttura
La dichiarazione ha la struttura di una confessione di fede, ovvero un pronunciamento ecclesiastico autorevole di fronte a una situazione che rappresenta un grave pericolo per la fede della chiesa. A un’introduzione, che descrive la situazione, segue la confessione vera e propria, strutturata in sei punti introdotti ciascuno da una citazione biblica. Ogni punto si comprende come interpretazione autorevole del testo biblico ad esso relativo e vi si afferma quello che gli autori del documento “confessano” (ossia dichiarano come vincolante per la loro fede) e quello che, conseguentemente, “condannano” (ossia respingono come anticristiano). Tale struttura è tipica delle dichiarazioni vincolanti nella storia delle chiese cristiane, trovando notevoli precedenti nei pronunciamenti dogmatici sia delle tradizioni orientali che occidentali.
Già la struttura del documento è dunque significativa. Adoperandola, si vuole indicare che si sta dicendo qualcosa di vincolante per la chiesa cristiana, qualcosa che pone le persone cristiane di fronte a un aut-aut perché indica loro una grave minaccia per il vangelo di Gesù. Il primo punto da trattenere è dunque questo: i teologi non hanno voluto esprimere un parere o una raccomandazione (come pure, con altri strumenti, avrebbero potuto fare), bensì si sono presi una responsabilità enorme, identificando il contesto spirituale entro cui hanno letto la guerra russa all’Ucraina come una negazione diametrale di Gesù Cristo.
L’introduzione
L’introduzione presenta la situazione a cui la dichiarazione reagisce. La guerra russa all’Ucraina è descritta come una “minaccia storica” giustificata religiosamente attraverso l’ideologia del “russkij mir”, definita “fondamentalismo religioso etno-filetista ortodosso di carattere totalitario”. L’espressione è piuttosto tecnica e si riferisce a tutte quelle ideologie religiose che, in suolo cristiano, considerano l’appartenenza etnico-nazionale, culturale e linguistica a un popolo come spiritualmente significativa.
Una posizione etno-filetista afferma cioè che l’identità di un popolo ha un valore dal punto di vista della storia della salvezza e un ruolo o una missione speciale nella rivelazione di Dio all’umanità.
Una simile posizione, come il documento giustamente rileva, non è compatibile con la fede cristiana, la quale afferma che, in Gesù, ogni separazione spirituale dell’umanità fondata su base etnico-identitaria è caduta, a partire da quella fondamentale tra ebrei e gentili. Del resto, il documento ricorda che “il principio dell’organizzazione etnica della Chiesa è stato condannato al Concilio di Costantinopoli del 1872”, condanna ribadita ed estesa dal Sinodo ortodosso tenutosi a Creta nel 2016, occasione alla quale, non a caso, proprio la rappresentanza della chiesa russa decise all’ultimo momento di non partecipare, così limitando la portata e l’autorevolezza delle decisioni sinodali.
La dichiarazione definisce l’ideologia del “russkij mir” come “falso insegnamento”.
Per “mondo russo”, secondo la dichiarazione, si intende una “sfera o civiltà russa transnazionale chiamata Santa Russia”, quindi estesa “ai russofoni di tutto il mondo” e concepita come “operante in sinfonia con un leader comune” e caratterizzata da “una spiritualità, una moralità e una cultura distintive comuni”. Naturalmente, il “mondo russo”, secondo i suoi promotori, sarebbe ostacolato da un nemico esterno, che tenterebbe di sabotarne la ricchezza spirituale attraverso la “corruzione morale”.
Questo nemico è l’Occidente “corrotto”, che si sarebbe arreso, anche nelle sue espressioni cristiane, al “secolarismo militante” e alla “devianza morale”, soprattutto in termini di diritti della comunità LGBTQ. A simili “degenerazioni”, il “mondo russo” contrapporrebbe invece la “venerazione della santa Russia” e una “comprensione rigorista e inflessibile della Tradizione”. I teologi della dichiarazione non hanno dubbi: l’”eresia” del mondo russo rende impossibile l’unità ecclesiale, ossia minaccia e ostacola la predicazione del vangelo. Per tale motivo, il “mondo russo” è da essi definito “dottrina non ortodossa, non cristiana e contro l’umanità”. Di fronte all’”eresia”, i redattori della dichiarazione si ritengono “ispirati dal vangelo di nostro Signore e dalla Santa Tradizione” a promulgare la loro confessione di fede fondata sulla Bibbia e articolata in sei punti.
Senza entrare nell’articolazione teologica di ciascun punto, ho ritenuto utile indicare quali sono i tre pericoli mortali per la fede a cui i redattori della dichiarazione ritengono di dover rispondere.
La confessione
In primo luogo, essi colgono nell’ideologia del “mondo russo” l’intenzione di “sostituire il regno di Dio con il regno della Santa Rus’” e condannano tale intenzione perché usurpa la signoria di Gesù Cristo sul mondo intero e sottrae a Dio la facoltà di “asciugare ogni lacrima”. Così facendo, il “mondo russo” deforma la fisionomia di ogni buona autorità terrena, perché la santifica, ne fa cioè un idolo, ovvero trasforma una realtà “creaturale” (contingente, naturale, storica) in una spirituale, così affiancando a Dio altri “signori”, altre autorità che possono pretendere l’obbedienza incondizionata dell’essere umano.
In secondo luogo, i teologi colgono nell’ideologia del “mondo russo” una negazione del valore universale della persona di Gesù. Secondo la fede cristiana, Gesù Cristo abolisce nella sua croce (morte e risurrezione) ogni differenza identitaria (per esempio etnico-nazionale o di genere) che abbia un peso di fronte a Dio: dopo Pasqua, un cristiano non può più affermare che alcune persone, per la contingenza della loro identità storica, siano più vicine a Dio di altre. Per questo motivo, la condanna del “mondo russo” come “male completamente contrario al vangelo” è inevitabile, dato che “tutti sono eguali in Cristo (…) e hanno accesso al suo amore e perdono come persone create a immagine e somiglianza di Dio”.
In terzo luogo, la dichiarazione coglie nel “mondo russo” una minaccia per la pace e per la vita, quindi una forza che opera in direzione opposta rispetto al dono di sé che Dio, secondo la fede cristiana, fa all’umanità intera in Gesù Cristo. I teologi dichiarano: “se lasciamo che il prossimo muoia per strada (il riferimento qui è alla parabola detta “del buon samaritano”), non siamo nell’amore di Cristo ma ci siamo fatti suoi nemici. Noi invece (…) dobbiamo pregare per la pace e anche alzarci profeticamente e attivamente per condannare l’ingiustizia, fare la pace anche a costo della nostra vita”. Poiché gli ideologi del “mondo russo” pregano per la pace ma poi non la costruiscono, anzi la ostacolano, gli autori della dichiarazione ne condannano l’atteggiamento “quietista” e ipocrita come bugiardo. La dichiarazione procede dunque con una riflessione sull’abuso delle parole. Attraverso eufemismi che fanno violenza alla verità (come il parlare di “operazione militare speciale” invece di guerra), l’ideologia del “mondo russo” nasconde che è in gioco chiaramente l’”intento omicida di una parte sull’altra”. La dichiarazione si concluse con una preghiera perché gli ideologi del “mondo russo” “tornino all’unità dello Spirito per mezzo del vincolo della pace”.
Un precedente storico importante
Come cristiano riformato e dottorando in teologia, non posso fare a meno di notare l’analogia, strutturale e contenutistica, tra questa e un’altra dichiarazione teologica, quella redatta a Barmen il 31 maggio 1934 da un gruppo di teologi riformati e luterani guidati da Karl Barth, uno dei principali teologi cristiani del XX secolo. Anche in quell’occasione, il contesto rappresentava un mortale pericolo per la fede: il nazionalsocialismo era penetrato nel tessuto stesso del sentire spirituale della chiesa evangelica tedesca, la quale era arrivata ad affermare che la “Parola di Dio” fosse udita non soltanto in Gesù Cristo, ma anche nell’“ora storica” del nazismo. Allora era il popolo tedesco, con il suo presunto diritto a ritagliarsi uno “spazio vitale (Lebensraum) ad est” ad essere innalzato come un idolo e a vedersi attribuita una partecipazione diretta alla sovranità di Gesù sulla realtà intera. Una parte della chiesa cristiana, in quel caso evangelica, ritenne di dover reagire confessando la fede: al di fuori di Gesù, non ci sono altre parole in cui ci troviamo di fronte ad un’istanza che possa pretendere la nostra totale obbedienza.
Ad oggi, anche simili parole confessanti possono sembrare totalitarie e il rischio di interpretare il cristianesimo come una forma di totalitarismo è presente. In una società per la quale la fede cristiana è non solo indifferente, ma quasi incomprensibile nei suoi simboli fondamentali, la teologia non può ignorare irresponsabilmente l’effetto che fa parlare di “nostra totale obbedienza” in riferimento a Gesù.
Vorrei però chiarire un punto che è fondamentale per evitare fraintendimenti catastrofici: nessuna forma di totalitarismo, soprattutto se “battezzato” dalla chiesa, soprattutto se “cristiano”, può prendere la “totale obbedienza” di chicchessia. Quando i teologi delle due dichiarazioni riservano a Gesù Cristo soltanto la “totale obbedienza”, con ciò stesso rifiutano di tributarla a un principio, a un’ideologia, a una chiesa, a un sistema dottrinale, a un regime politico. Essi scelgono di tributarla a un uomo che, con la sua prassi di vita e nella sua morte vergognosa, svuota da dentro, rende ridicola e denuncia come irrimediabilmente malvagia la dinamica intima di ogni totalitarismo, sia esso politico, religioso o entrambe le cose. Per le persone cristiane, dire che a Gesù è tributata una “obbedienza totale” (e questo, in breve, è quanto le dichiarazioni vogliono dire), significa l’esatto opposto di quanto ciò significa se riferito ad altre figure, programmi o ideologie, perché il contenuto di questa “obbedienza totale” a Gesù è la libertà nella forma dell’amore. Naturalmente, è legittimo respingere come illusoria e delirante la convinzione cristiana che la fede sia la modalità esistenziale entro cui vive la libertà nella forma dell’amore. Anzi, guardando alla storia delle chiese, sia orientali che occidentali, diciamo che si trovano quantomeno altrettante buone ragioni per dubitare della confessione cristiana di quante se ne trovino che parlano in suo favore.
L’ambiguità del fatto religioso e la croce come segno di contraddizione
Se mi si chiedesse a che cosa serva la dichiarazione teologica di Volos per la società nel suo complesso, per fermare la guerra russa in Ucraina o per favorire un dialogo proficuo tra le chiese e le persone non cristiane o non credenti, ammetto che rimarrei piuttosto spiazzato. Non penso proprio che si tratti di una questione di utilità e posso immaginare senza alcuna difficoltà che la maggior parte dei nostri contemporanei, leggendo le parole della dichiarazione, possano con ragione chiedersi a che cosa serva ripetere parole antiche e polverose che, per i più, non hanno semplicemente alcun significato.
A ben guardare, però, un’utilità della dichiarazione, non voglio dire generale, ma almeno più estesa delle dimensioni della chiesa cristiana, può essere forse individuata. La dichiarazione, infatti, dice a tutti che il fattore religioso (in questo caso cristiano), da sempre ambiguo, lo è ancora una volta oggi, mentre scrivo, lo è pericolosamente e, anzi, mortalmente.
È proprio tale fattore, infatti, che “battezza” la guerra di Putin e le conferisce un carattere distortamente “sacro”, quindi la intensifica e la alimenta nella sua mostruosità.
Non credo però di far indebita violenza alla dichiarazione dei teologi ortodossi se dico che alla fine essa vuole dire quanto segue: che quella ambiguità assolutamente scandalosa del fattore religioso contiene però, nella sua manifestazione storica cristiana (non mi esprimo su altre religioni perché non mi competono) un segno di contraddizione, un’interruzione, un momento di giudizio e di profondissima trasformazione. Questo segno è la croce, su cui, secondo la fede cristiana, Dio stesso afferma la giustizia nel mondo morendo a vantaggio e al posto dell’umanità ingiusta affinché essa possa vivere e camminare nella giustizia, nella libertà e nella pace. È per questo che, dal punto di vista cristiano, stare sotto quella croce implica direttamente la libertà e la pace. La dichiarazione parla proprio di ciò, esprimendo teologicamente la convinzione che, proprio di fronte al fallimento tragico e inescusabile delle chiese, proprio quando tale fallimento è più lampante che mai, proprio lì quel segno rifulge con un’evidenza ancora maggiore e dice “no!” alla morte per dire “sì!” alla vita. E qualche cosa che dice “no!” alla morte per dire “sì!” alla vita, a prescindere e nel pieno rispetto delle convinzioni religiose o non religiose di ciascuna persona, è, a mio avviso, direttamente interessante per tutti e tutte.
* Nicola Mariani è predicatore locale della chiesa valdese di Lucca e dottorando in teologia sistematica alla facoltà di teologia protestante dell’Università di Vienna.