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Un film documentario si inserisce nelle ferite della memoria della Sarajevo assediata e porta alla luce un capitolo brutale e poco noto della guerra in Bosnia. Con testimonianze e filmati dell’epoca, il regista Milan Zupanič cerca di ricostruire le vicende dei “safari” su Sarajevo e propone interrogativi non solo etici, ma anche di natura introspettiva e psicologica.
Sarajevo ha ospitato dal 9 al 13 settembre di quest’anno la rassegna cinematografica Al Jazeera Balkans Documentary Film Festival. Il concorso presenta e promuove autori e documentari che si occupano di temi sociali, in particolare valori umani universali come il coraggio, la giustizia e la tolleranza. Molti i film in concorso sulla Bosnia, il paese balcanico più rappresentato al festival.
Uno dei documentari che ha maggiormente attirato l’attenzione dell’opinione pubblica è Sarajevo Safari del regista sloveno Miran Zupanič, prodotto dalla slovena Arsmedia. Presentato in première il 10 settembre, questo documentario di 75 minuti affronta uno degli aspetti tragici meno conosciuti e documentati della guerra degli anni Novanta.
Mentre può sembrare che, a distanza ormai di oltre venticinque anni dalla fine del conflitto, ci sia ancora poco da raccontare, o poca spinta e volontà di farlo, il regista ha voluto cercare di far luce su un’attività cruenta e senza scrupoli che avveniva durante il lungo ed estenuante assedio della città tra il 1992 e il 1995: facoltosi uomini stranieri, probabilmente annoiati dagli ordinari passatempi e alla ricerca di esperienze forti e cariche di adrenalina, avrebbero pagato ingenti somme di denaro per unirsi alle truppe serbo-bosniache lungo le postazioni ai margini di Sarajevo, sulle montagne che circondano la città, per darsi a una barbara attività venatoria: la caccia all’essere umano. Zupanič, attraverso le informazioni fornite da alcuni testimoni, cerca di ricostruire questa vicenda dal punto di vista fattuale ma non solo, anche psicologico e filosofico.
Le testimonianze sui safari
Il testimone chiave, che ha preferito rimanere anonimo e proteggere la sua identità, ha avuto una formazione di tipo militare negli anni Ottanta e ha lavorato nel settore dell’intelligence fino alla dissoluzione della Jugoslavia. Rimasto senza occupazione, ha ricevuto una proposta da un’agenzia americana con l’incarico di girare per il paese in guerra, protetto da un accredito stampa, e di acquisire informazioni, tastando il polso delle fazioni in conflitto. È durante questo periodo che viene a conoscenza di veri e propri “safari” che avvenivano a Sarajevo, organizzati in particolare nell’area di Grbavica. Uomini venuti da lontano (la cui provenienza resta da accertare, alcune fonti parlano di americani, canadesi e russi, altre di italiani), disposti a pagare grosse cifre per giocare alla guerra, per fare i cecchini per un giorno e sparare sulla città.
Oltre alla testimonianza, Zupanič si serve anche di filmati girati e recuperati da Božo Zadravec, cameraman e direttore della fotografia, e da Franci Zajc, produttore del film, che all’epoca erano giornalisti di guerra proprio nella Sarajevo sotto attacco. Sono state raccolte anche altre testimonianze di civili sarajevesi che sono stati colpiti o che hanno perso dei famigliari a causa del colpo ignobile di un cecchino. Un altro ex ufficiale dell’intelligence militare e analista parla apertamente davanti alla telecamera e corrobora la versione del narratore e collega anonimo con le proprie scoperte, ottenute da un soldato nemico catturato. Questi ha riferito di aver assistito in prima persona al trasporto di uno dei “cacciatori”. Non era certamente facile far arrivare dei civili sulle postazioni militari serbo-bosniache, alcune fonti rivelano che i trasporti avvenissero via terra, altre con elicotteri. Le località di riferimento per questi spostamenti erano prima Belgrado e poi Pale, a una manciata di chilometri da Sarajevo. Con molta probabilità, la modalità e le condizioni di sicurezza del trasferimento verso le zone da cui sparare dipendevano da quanto il cliente fosse disposto a pagare: più potente e più ricco, maggiore era il comfort durante il viaggio.
Il lavoro svolto dal regista e dai suoi collaboratori ha contribuito a togliere alcuni strati di oblio da queste brutali vicende, tuttavia resta ancora molto da sapere e da verificare. Senza dubbio, una lunga filiera di figure ed entità contribuiva a rendere possibile le spedizioni di caccia all’uomo.
I bastardi di Sarajevo di Luca Leone
Negli lunghi anni di silenzio e omertà dopo la fine della guerra, alcune voci coraggiose avevano già tentato di fare chiarezza su questi fatti, sia tra le vittime dei cecchini sia tra i giornalisti che si trovavano in città durante l’assedio. Lo scrittore e giornalista Luca Leone, co-fondatore di Infinito Edizioni, è tra i primi a parlare delle spedizioni intorno a Sarajevo. Nel 2014, e in seconda edizione nel 2018, pubblica I bastardi di Sarajevo. In forma di romanzo, dà voce a personaggi di diversa natura, da politici corrotti che tengono in pugno la città, spregiudicati carnefici, giovani che sognano di liberare la città, vittime avvolte nel silenzio, e ancora certi turisti stranieri che vogliono giocare alla guerra per trascorrere un weekend alternativo: “Stranieri da tutta Europa – c’erano anche italiani – pagavano ai checkpoint gestiti dai paramilitari serbi sia in Croazia sia in Bosnia per poi passare un fine settimana a sparare sui civili sopra Sarajevo”, afferma l’autore in un’intervista all’Ansa.
Zupanič ha voluto mostrare immagini e testimonianze, volti e luoghi dove questa tragedia si consumava; ma ha anche tentato di sviscerare gli aspetti più introspettivi e le sfumature psicologiche. Nell’intervista di presentazione del film risponde alle domande di Al Jazeera Balkans, mettendo in evidenza che è necessario soffermarsi ad indagare i profili psicologici di uomini che rischiano anche la propria vita per entrare in una zona di guerra e pagano grandi importi di denaro per trovare diletto sparando su civili inermi e sconosciuti. Riportiamo qui uno stralcio della conversazione con il regista che permette di comprendere meglio le intenzioni del regista e le finalità del suo lavoro documentaristico:
Quando hai incontrato per la prima volta questo fenomeno?
Il mio produttore Franci Zajc mi ha parlato per la prima volta del “safari” nel febbraio 2019 e quella storia è stata assolutamente scioccante per me. Abbiamo girato in Bosnia ed Erzegovina con Franci e il cameraman Božo Zadravac già all’inizio del 1993. […] In effetti, Franci è il maggior responsabile di quel film, perché ha cercato per anni e poi ha trovato persone pronte a parlare del safari davanti alla telecamera. Purtroppo c’è stato anche chi prima ha acconsentito alla registrazione, ma poi ha cambiato idea. La paura è ancora presente dopo quasi trent’anni.
In che misura le autorità di Pale hanno partecipato all’organizzazione del “safari” di Sarajevo?
Secondo le testimonianze, alcuni membri dell’Esercito della RS e dell’Esercito della Jugoslavia hanno partecipato all’organizzazione del “safari”. […] Non ho informazioni sul ruolo delle autorità a Pale. Devo qui sottolineare che la nostra intenzione non era quella di identificare persone specifiche, perché, vista la delicatezza dell’argomento, quelle informazioni non erano nemmeno a nostra disposizione. […]
Qual era il profilo delle persone che vennero per uccidere i cittadini di Sarajevo: ricchi, politicamente influenti, psicopatici, avventurieri?
Il nostro film solleva più domande di quante ne risponda. È certo che in quel laboratorio del male che chiamiamo globo c’è un tipo speciale di persone pronte a sparare a chiunque si imbatta nei loro mirini senza alcun motivo esterno: un bambino, una madre, qualsiasi uomo o donna anonimo. Quali impulsi interni li portano a farlo? Che piacere offre loro? Che tipo di potere hanno che qualcuno lo organizza per loro? Da dove vengono e dove tornano?
Ci sono innumerevoli domande a cui non ho risposte. Ma non è tutto: i servizi segreti stranieri hanno seguito questo fenomeno e sembra che nessuno della comunità internazionale sia intervenuto per fermare questo “safari”. Perché no? Questa è la domanda più importante per me.
[…] Lasciami dire un’altra cosa. Ho fatto molti film nella mia carriera e nessuno è stato così oscuro come questo. Così nero e così pessimista. Ma, d’altra parte, mi sembra estremamente importante che tutti noi che abbiamo questa possibilità – diffondiamo la conoscenza della fenomenologia del male che è nell’essere umano. Per sapere come contrastare quel male. Ma non con il proprio male, ma con il bene individuale e comune.
Il male non ha mai un volto solo. Come sono questi uomini nella loro vita quotidiana? Hanno famiglia, figli? Chi scelgono di essere, quando nessuno dei loro cari li vede? Avventurieri della domenica, vogliono prendere parte a un gioco pericoloso, indossano abiti da soldato o da cacciatore, forse si danno arie sulle loro abilità venatorie, o forse hanno bisogno di bere qualcosa di forte prima di accingersi a puntare le armi sulla città assediata. Nei loro mirini, prede umane. I cittadini inerti di Sarajevo, come animali in fuga, si spostano curvi sperando di non essere visti, correndo a zig zag nel tentativo di confondere il cecchino. Ma ha speso molti soldi l’uomo venuto da lontano, e non vuole perdere l’occasione, non vuole sbagliare. Il prezzo sarà ancora più alto, se riesce ad abbattere un bambino. Che scarica di adrenalina, quando ricapitano opportunità come queste? Ci vuole una guerra complicata, i cui fronti si confondono, e una città sotto assedio, da cui non si entra e non si esce per lunghi anni. Non sono cose da tutti i giorni. O forse sì.
Appassionata di Est Europa e in particolare di ex Jugoslavia. Studia mediazione culturale presso l’Università degli Studi di Udine, approfondendo la conoscenza del serbo-croato e del russo. Ha partecipato (e lo farà ancora) a diversi progetti europei nei Balcani.