Come potrai immaginare, questo progetto ha dei costi, quindi puoi sostenerci economicamente con un bonifico alle coordinate che trovi qui di seguito. Ti garantiamo che i tuoi soldi verranno spesi solo per la crescita del progetto, per i costi tecnici e per la realizzazione di approfondimenti sempre più interessanti:
IBAN IT73P0548412500CC0561000940
Banca Civibank
Intestato a Meridiano 13
Puoi anche destinare il tuo 5x1000 a Meridiano 13 APS, inserendo il nostro codice fiscale nella tua dichiarazione dei redditi: 91102180931.
Il 5 aprile 1992 a Sarajevo si doveva giocare un incontro di calcio della prima divisione jugoslava. Alla fine della stagione precedente le squadre slovene e croate avevano abbandonato il torneo, che ormai si disputava solo fra compagini bosniache, serbe, montenegrine e macedoni. Proprio come era accaduto il 20 gennaio 1990 in occasione dell’ultimo congresso della Lega dei Comunisti della Jugoslavia, Lubiana e Zagabria avevano deciso di tirarsi fuori dalla disputa. L’onda lunga della caduta del Muro di Berlino stava lentamente sgretolando l’unione degli slavi del sud e come sempre accade, anche il calcio rifletteva quello che stava succedendo nel paese.
Allo stadio Grbavica stavano per affrontarsi i padroni di casa dello Željezničar e il Rad di Belgrado. Erano i tempi del portiere Dragan Škrba, idolo dei tifosi, e del giovane attaccante Mario Stanić, sarajevese di nascita, che qualche anno dopo sarebbe diventato un pilastro della nazionale croata. Quella che doveva disputarsi era la 26esima giornata, o nona di ritorno. Le squadre si trovavano invischiate nella lotta per non retrocedere, e i sarajevesi in particolare venivano da una serie di prestazioni negative. Al tempo il campionato aveva una particolarità: le partite che si concludevano in pareggio venivano decise ai calci di rigore. La vincente portava a casa un punto, la perdente zero. Questa regola, assieme ai due punti per vittoria, decretava una classifica molto corta. Lo Željezničar era terz’ultimo, ma aveva soltanto cinque punti in meno del Rad, che occupava l’undicesima posizione.
Agli ospiti era stato caldamente consigliato di non recarsi in trasferta quel giorno a causa delle tensioni che percorrevano il paese, ma le indicazioni erano state ignorate. Non era chiaro cosa stesse succedendo in Bosnia Erzegovina, ma le due squadre volevano semplicemente affrontarsi e portare a termine il campionato. Però anche gli stessi giocatori di casa avevano notato qualcosa di strano in città. Alcuni ponti erano stati bloccati e c’era stata agitazione nelle prime ore del mattino, ma tutto sembrava essere rientrato. La partita stava per iniziare. Mentre le due formazioni stavano effettuando il riscaldamento davanti agli spalti vuoti, improvvisamente si udì una raffica: qualcuno stava sparando. Tutti lasciarono il terreno di gioco all’istante cercando riparo negli spogliatoi. Grazie anche all’aiuto dei dirigenti di casa, i giocatori del Rad raggiunsero l’aeroporto e tornarono a Belgrado. Quella fu l’ultima partita dello Željezničar nel campionato jugoslavo. Era appena cominciato l’assedio di Sarajevo.
Bruciare lo stadio dello Željezničar, simbolo di convivenza
Un mese dopo, il 4 maggio, gli abitanti del quartiere di Grbavica, che dà il nome anche allo stadio, assistettero inermi al rogo che distrusse l’intero impianto. Le forze assedianti avevano deciso di colpire uno dei luoghi simbolo dell’integrazione cittadina incendiando la tribuna ovest, che era interamente di legno. La struttura proveniva dallo stadio “6 aprile” del quartiere di Marijin Dvor, ed era stata portata al Grbavica già dalla sua inaugurazione nel 1954, quando ancora la casa dello Željezničar aveva la pista da atletica. L’incendio andò avanti per molte ore distruggendo anche gli spogliatoi, i riflettori e tutto il resto.
L’incendio dello stadio Grbavica, casa dello Željezničar
Ma la storia dei blu di Sarajevo è molto più antica di quella del proprio stadio, al quale però ormai sono indissolubilmente legati. La squadra difatti mosse i primi passi come polisportiva dei lavoratori ferroviari, Željezničar, appunto. Viene fondata ufficialmente nel 1921 come associazione sportiva multietnica e interclassista, in un periodo in cui era necessario dichiarare l’appartenenza etnica del proprio sodalizio.
Lo Željo, così come è chiamato dai suoi tifosi, è sempre stata una squadra piuttosto invisa al potere. Prima rifiutò di prendere parte al campionato dei collaborazionisti dello Stato Indipendente di Croazia, poi fu penalizzato dal nuovo stato socialista nonostante le origini popolari. Infatti, nel 1946, da Belgrado pensarono di dare una nuova squadra alla borghesia musulmana di Sarajevo, fondendo alcuni club già esistenti e creando la Torpedo, che poi sarebbe diventata il Sarajevo. Il prezzo da pagare per lo Željezničar era cedere sei dei propri giocatori ai nuovi rivali, che così avrebbero potuto tenere alto il nome della Bosnia contro gli avversari delle altre repubbliche. Ancora oggi nella curva dello stadio Grbavica si può vedere la faccia di un signore attempato, con una calvizie incipiente e la parola “Ne”. Quella pezza ricorda a tutti la storia di Josip “Joško” Domorocki, che nonostante l’offerta di un bell’appartamento, si rifiutò di trasferirsi al Sarajevo e decise di rimanere allo Željo e di diventarne un’eterna bandiera.
Uno stadio che diventa simbolo della squadra e viceversa
Lo stadio Grbavica, detto anche Dolina Ćupova (la Valle dei cespugli con un riferimento alla guerra in Vietnam: chi arrivava dove lasciare ogni speranza), fu inaugurato nel 1954 dalla vittoria per 4-1 in seconda divisione, girone ovest, contro lo Šibenik. Dal 1968 al 1976 l’impianto fu sottoposto a lavori di rinnovamento, che prevedevano fra le altre cose anche l’eliminazione della pista da atletica. Ironia della sorte, fu proprio durante quell’esilio al Koševo – la casa dei rivali cittadini del Sarajevo – che lo Željezničar vinse il suo primo e unico titolo di campione di Jugoslavia (1972). Invece fu disputa al Grbavica la fantastica stagione 1984-85, quando i blu arrivarono ad un passo dalla finale di Coppa Uefa, estromessi da un gol all’87esimo minuto del terzino ungherese József Csuhay, dopo aver eliminato lo Sliven, il Sion, l’Universitatea Craiova e la Dinamo Minsk.
La storia sembrava essersi interrotta nel maggio 1992. L’incendio aveva devastato l’intera struttura ed erano anche andate perse o distrutte circa 300 coppe custodite al suo interno. Oltretutto la guerra rendeva impossibile qualunque sforzo per ricostruire lo stadio. Ancora una volta però la gente dello Željezničar decise di impegnarsi direttamente per la sopravvivenza della propria squadra. Ristabilita la pace, grazie a raccolte fondi e tanto lavoro volontario l’impianto venne rimesso in piedi. La prima partita fu disputata il 2 maggio 1996 e, nonostante la forte rivalità, come avversario fu scelto il Sarajevo, perché doveva essere una gara simbolica grazie alla quale l’intera città cercava di tornare alla normalità.
Il presente non è roseo, ma il vecchio Željo non si arrende
Oggi lo Željezničar fatica nella prima divisione bosniaca. Le lotte etniche che percorrono il paese si riflettono sull’andamento del campionato, che viene continuamente lottizzato fra serbi, croati e bosniaci musulmani. La vittoria dello stesso è sempre più un affare fra Sarajevo, Zrinjski Mostar e Borac Banja Luka, con qualche incursione di tanto in tanto. Chi non ha grandi patroni fatica a trovare spazio.
Eppure in città la presenza dei blu e dei suoi tifosi si percepisce forte e chiara, come quando camminando per la Baščaršija – il centro storico della capitale – ci si imbatte in una delle due Ćevabdžinica Zeljo, dove si possono mangiare dei ćevapi fra i migliori del circondario. Nell’insegna spicca orgoglioso il simbolo della squadra. Recentemente la comunità dello Željezničar è stata chiamata ad una prova molto complessa: salvare la propria squadra dal fallimento. Una mobilitazione impressionante ha raggiunto in breve tempo gli obiettivi che erano stati fissati per concedere una boccata d’aria e un po’ di tranquillità alla squadra. Il cielo sopra lo stadio Grbavica non è certo limpido, ma chi conosce Sarajevo sa che basta un po’ di vento per far tornare il sole a splendere come un tempo.
Autore dei libri “Questo è il mio posto” e “Curva Est” - di cui anima l’omonima pagina Facebook - (Urbone Publishing), "Predrag difende Sarajevo" (Garrincha edizioni) e "Balkan Football Club" (Bottega Errante Edizioni), e dei podcast “Lokomotiv” e “Conference Call”. Fra le sue collaborazioni passate e presenti SportPeople, L’Ultimo Uomo, QuattroTreTre e Linea Mediana. Da settembre 2019 a dicembre 2021 ha coordinato la redazione sportiva di East Journal.