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Schengen sì, ma non per tutti

Prima il nullaosta della Commissione europea all’allargamento dello spazio di libera circolazione a Croazia, Bulgaria e Romania, poi l’altolà di Austria e Paesi Bassi ai due stati dei Balcani orientali: cosa si nasconde dietro la decisione dei due paesi frugali? Un approfondimento di Nicola Zordan in collaborazione con la Rivista Il Mulino

Il 16 novembre scorso la Commissione europea ha espresso il suo parere favorevole all’ingresso di tre stati balcanici nello spazio Schengen: Bulgaria, Croazia e Romania. La decisione è avvenuta a poco meno di una settimana dal voto dello stesso tenore del Parlamento europeo nei confronti della Croazia, che andava a sommarsi alla risoluzione favorevole già approvata il mese precedente nei confronti di Bulgaria e Romania.

Ma il Consiglio dell’Ue, riunitosi appositamente l’8 dicembre, non è stato dello stesso avviso. A fare da muro alle aspirazioni bulgare e romene sono stati i Paesi Bassi e l’Austria, che hanno posto il loro diritto di veto sull’allargamento dell’area a Sofia e Bucarest: per ammettere nuovi stati nello spazio Schengen, infatti, è necessaria l’unanimità di tutti gli stati che già vi fanno parte.

La Croazia, invece, è riuscita a superare anche quest’ultimo ostacolo ed entrerà quindi contemporaneamente nell’eurozona e nello spazio Schengen con l’anno venturo, nonostante l’ingresso in Ue sia avvenuto con sei anni di ritardo rispetto a Bulgaria e Romania.

Le motivazioni della Commissione

Nel documento di accompagnamento alla sua decisione, la Commissione aveva invitato il Consiglio giustizia e affari interni a includere celermente nello spazio Schengen gli stati indicati, meritevoli, secondo quanto riportato, del buon funzionamento dello stesso. In particolare, la Commissione sottolineava l’impegno profuso, efficace e continuativo dimostrato da tutti e tre gli stati anche in circostanze difficili e potenzialmente destabilizzanti come la guerra in Ucraina e la pandemia di covid-19.

Mentre la Croazia ha completato il processo di valutazione Schengen appena un anno fa – procedimento attraverso il quale si monitora il livello di preparazione dello stato e il rispetto degli standard di Schengen – Bulgaria e Romania hanno le carte in regola già dal 2011. Per più di undici anni, dunque, all’opinione immancabilmente favorevole della Commissione non ha fatto seguito un’apertura definitiva e unanime anche del Consiglio.

A seguito di questa lentezza estenuante i due stati dei Balcani orientali hanno invitato la Commissione e un gruppo di esperti a esaminare lo stato di applicazione delle norme Schengen nei rispettivi paesi. L’accertamento, concluso a ottobre 2022, ha confermato ancora una volta l’aderenza di Sofia e Bucarest alle norme Schengen, rafforzando “l’applicazione complessiva dell’architettura Schengen in tutte le sue dimensioni. I due paesi hanno inoltre dimostrato risultati esemplari nell’attuazione delle norme Schengen”. A quanto pare, però, nemmeno questo scrutinio volontario ha convinto gli stati più riluttanti all’allargamento.

Tuttavia, questo encomio non ha lasciato indifferenti le numerose organizzazioni che operano lungo la rotta balcanica, tra le quali Amnesty International e Human Rights Watch. In particolare, non sono risultati graditi i riferimenti a una supposta “risposta efficace alla pressione migratoria”, senza alcun accenno alle documentate violenze sistematiche esercitate ai confini dell’Ue nei confronti dei migranti, ai respingimenti illegali, alla sottrazione o distruzione di documenti ed effetti personali. Evidentemente per la Commissione europea l’efficacia della risposta alla crisi migratoria si misura in termini di respingimenti piuttosto che di accoglienza, ed è inversamente proporzionale al numero di richieste d’asilo pervenute.

Come si legge nel documento, “il monitoraggio dei diritti fondamentali alle frontiere esterne conferma definitivamente che tali paesi continuano a soddisfare efficacemente le rigorose norme Schengen” (quanto ai diritti umani, in questo caso non si fa menzione alcuna) e che “Bulgaria, Romania e Croazia rivestono un ruolo fondamentale nel garantire la sicurezza delle nostre frontiere esterne comuni e nel contribuire efficacemente a mantenere un elevato livello di sicurezza e prosperità”. Insomma, vanno premiate in quanto proteggono i nostri confini esterni dalle ondate migratorie, poco importa con quali mezzi.

Le motivazioni del Consiglio

Non è la prima e non sarà l’ultima volta che Commissione e Consiglio dell’Ue si trovano in disaccordo. D’altro canto, a indirizzi politici differenti non sempre corrispondono posizioni concordi: mentre la Commissione è espressione dell’interesse generale dell’Ue, il Consiglio è più una consorteria dei singoli stati membri che compongono l’Unione, all’interno del quale ogni ministro rappresenta il proprio paese di appartenenza e ne tutela gli interessi di parte. Un sodalizio talvolta difficile, dunque, come ne è perfetta esemplificazione la macchinosità con la quale si procede di volta in volta all’allargamento europeo, nel quale è ormai tradizione assistere a un conflitto di pareri tra la Commissione, che vorrebbe fare avanzare il processo allo stadio successivo, e il Consiglio, che risulta invece ingessato dal criterio di unanimità e dai veti incrociati.

Mutatis mutandis, lo stesso attrito si verifica nell’allargamento dello spazio Schengen. Ma sebbene le spiegazioni della Commissione risultino abbastanza chiare – anche se per alcuni discutibili – le motivazioni del Consiglio appaiono invece più fumose e meritevoli di ulteriore approfondimento. Ufficialmente, la ragione principale dietro al diniego austriaco affonda le radici nell’immigrazione illegale verso il paese tedesco che trarrebbe origine, a detta del ministro degli Interni Gerhard Karner, proprio dai confini troppo permeabili dei due stati balcanici. La Croazia risulta invece esente da tale critica, avendo ben dimostrato negli ultimi anni come si respingano i richiedenti asilo dal proprio suolo, andando magari a violare il diritto internazionale ma tutelando l’inviolabilità dei confini esterni dell’UE.

“Al momento abbiamo 75.000 migranti illegali in Austria”, ha dichiarato il cancelliere tedesco Karl Nehammer. “Ciò significa che hanno attraversato una frontiera esterna dell’UE prima di arrivare in Austria”. Stando ai dati del governo di Vienna, circa il 40% di questi proviene da India e Tunisia, che approfittando del regime dei visti favorevole con la Serbia ha volato su Belgrado per poi inserirsi lungo la rotta balcanica. Tra le altre nazionalità spiccano quella afgana, pachistana e siriana.

Per giustificare la propria posizione, l’Austria ricorre anche ai dati di Frontex. Includendo anche i tentativi reiterati da parte delle stesse persone, l’agenzia di frontiera stima che solo nel 2022 dai Balcani occidentali siano entrati più di 139.000 “irregolari” in Ue, 78.000 in più rispetto all’anno precedente. E in questa retorica il governo austriaco trova una facile sponda nei Paesi Bassi, che vantano una lunga storia di opposizione all’ingresso nello spazio Schengen della Bulgaria, anche in virtù delle sua presunta impreparazione nella tutela dello stato di diritto.

Contraddizioni

A questo punto, però, non si può fare a meno di notare tutta una serie di contraddizioni nelle posizioni ufficiali dei due paesi frugali, che tarlano alle fondamenta la scricchiolante impalcatura delle loro giustificazioni. Innanzitutto, se l’intenzione di Vienna e Amsterdam era davvero quella di evitare che un ulteriore allargamento di Schengen a oriente comportasse un maggiore afflusso di migranti irregolari all’interno dei propri confini, non è chiaro per quale ragione non abbiano opposto resistenza anche alla candidatura di Zagabria. La Croazia, infatti, non solo rappresenta uno dei confini esterni più estesi, ma è anche uno dei punti d’ingresso nevralgici della rotta balcanica in Ue e uno dei passaggi obbligati per entrare in suolo austriaco. Tra i 75.000 irregolari citati da Nehammer, dunque, è verosimile immaginare che più di qualcuno sia transitato proprio per la Croazia. Non si capisce quindi perché, a parità di opinione favorevole della Commissione, si sia deciso di sbarrare la strada solo a Bulgaria e Romania.

Le incoerenze non si limitano a questo. I Paesi Bassi, per esempio, oltre alla questione migratoria, osteggiano un allargamento dei confini di Schengen alla Bulgaria in virtù delle supposte lacune nel suo sistema di tutela dello stato di diritto. Tanta severità nel richiedere il massimo rigore nel rispetto dei diritti umani, nonostante la diversa opinione da parte della schiacciante maggioranza degli altri stati membri, farebbe anche onore al governo olandese, non fosse che l’ottemperanza a questi stessi principi non venga invece richiesta alla Croazia. Ciò denota una completa mancanza di coerenza da parte del governo di Amsterdam, che adducendo una simile giustificazione per il rigetto delle richieste di Sofia e Bucarest sottintende implicitamente che le violazioni dello stato di diritto denunciate da numerose organizzazioni umanitarie e accertate dalla stessa Corte europea dei diritti dell’uomo siano meno rilevanti rispetto a quelle contestate alla Bulgaria, o peggio ancora non siano riconosciute affatto.

Se la politica dei respingimenti illegali viene pubblicamente elogiata e premiata con l’allargamento dell’area di libera circolazione in tempi record, il rischio è che l’esempio croato venga assurto dagli altri stati balcanici a modello vincente, da seguire. E le violenze di confine con esso. D’altro canto, basti guardare alle richieste che l’Ue muove agli stati candidati riguardo alla gestione dei flussi migratori per farsi un’idea di quali siano le vere priorità comunitarie.

Solo per citare le le ultime in termini di tempo, Bruxelles ha vincolato la liberalizzazione dei visti con la Serbia allo stralcio della politica di esenzione dal visto che Belgrado intrattiene con diversi paesi africani e asiatici, colpevole di facilitare l’immigrazione di diversi migranti che decidono di volare sulla capitale serba per poi immettersi lungo la rotta balcanica e cercare di entrare in Ue. Mentre la Bosnia ed Erzegovina ha dovuto irrigidire i controlli alla frontiera e adottare una strategia comprensiva in risposta al fenomeno migratorio per ottenere lo status di paese candidato. Nell’uno e nell’altro caso, l’intento nemmeno troppo celato è quello di ridurre al minimo l’afflusso di disperati verso quella che prende sempre più le fattezze di una fortezza Europa.

Al di là di Schengen

Non resta quindi che andare in cerca delle vere motivazioni che si nascondono dietro al veto austro-olandese, che come spesso accade in simili occasioni, ci portano distanti dall’oggetto immediato della discussione. E riguardano la ben più prosaica politica interna dei paesi membri. Oltre all’indirizzo politico liberal-conservatore, i governi austriaco e olandese condividono la stessa necessità di strizzare l’occhio all’elettorato di destra dei rispettivi paesi, particolarmente sensibile alla presenza di migranti e richiedenti asilo nel proprio territorio. Ecco allora che la richiesta di Bulgaria, Croazia e Romania di entrare nello spazio Schengen va oltre al significato di questo allargamento in sé e fornisce l’occasione ai governi di Austria e Paesi Bassi per presentarsi al proprio elettorato di riferimento come i protettori dei confini contro l’immigrazione illegale.

A pagarne le spese sono però Bulgaria e Romania, messe alla porta per questioni che hanno poco o nulla a che vedere con l’accordo di Schengen. Allo stesso tempo, la credibilità delle istituzioni europee ne risulta per l’ennesima volta danneggiata, in quanto tutta l’elaborata serie di condizionalità richieste ai paesi candidati non garantisce la conquista dell’obiettivo desiderato, poiché il processo decisionale resta in ultima istanza nelle mani dei singoli stati membri. Stati che puntualmente abusano del loro diritto di veto per la risoluzione di diatribe bilaterali o per meri calcoli di politica interna che nulla hanno a che fare con l’oggetto del dibattimento.

Ancora una volta, dunque, l’interesse comunitario risulta succube della politica dei veti incrociati.

Foto di copertina: Pexels

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Nicola Zordan
Nicola Zordan

Mosso da un sincero interesse per la storia e la cultura della penisola balcanica, si è laureato in Studi Internazionali all’Università di Trento, per poi specializzarsi in Studi sull’Europa dell’Est all’Università di Bologna. Ha vissuto in Romania, Croazia e Bosnia ed Erzegovina, studiando e impegnandosi in attività di volontariato. Tra il 2021 e il 2022 ha scritto per Osservatorio Balcani Caucaso Transeuropa. Attualmente risiede in Macedonia del Nord, dove lavora presso l’ufficio di ALDA Skopje.