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Nel 2022 l’editore bresciano Lamantica ha pubblicato un interessante volumetto contenente la traduzione di un’opera teatrale molto poco nota, anche agli stessi russi, del poeta Evgenij Evtušenko, Se tutti i danesi fossero ebrei. Si tratta di un testo per molti versi legato, nella sua storia di diffusione e messa in scena, all’Italia e che finalmente è disponibile in lingua italiana grazie alla traduzione di Evelina Pascucci, traduttrice di molte opere di quest’autore del Novecento russo.
Abbiamo parlato di quest’opera in particolare e di Evtušenko a tutto tondo con Francesco De Napoli, non soltanto autore della densa introduzione al volume edito da Lamantica, ma anche amico del poeta russo.
Innanzitutto, ci tengo a ringraziarti per aver voluto condividere con noi questa pubblicazione speciale di uno scritto teatrale di Evgenij Evtušenko davvero poco noto, anche perché uscito in Russia unicamente su rivista nel 1996, in un periodo in cui il poeta si trovava, tra l’altro, ben distante dal suo paese d’origine. La storia stessa di questa traduzione italiana merita un discorso a sé stante, ce la riassumi brevemente? Dopotutto, è una storia in parte legata al fatto che conoscevi personalmente l’autore; mi sembri dunque la persona più indicata per raccontarla.
Gentile Martina, sono io che ringrazio te e la redazione di Meridiano 13 per l’opportunità di rendere nota a una più ampia fascia di lettori questa magnifica realizzazione editoriale di Lamantica dell’unica opera teatrale scritta da Evtušenko. Confesso che devo tutto alla cara e indimenticabile Evelina Pascucci, la traduttrice della maggior parte dei volumi di Evtušenko editi in Italia.
Nel 2001 Evelina, con cui ero in ottimi rapporti di amicizia, volle inviarmi la sua traduzione in italiano di Se tutti i danesi fossero ebrei, naturalmente dopo aver interpellato e ottenuto il parere favorevole dell’autore. Quel testo mi colpì enormemente, come del resto mi succedeva ogni volta che leggevo gli scritti e le interviste rilasciate dal Poeta del disgelo. Evtušenko non era mai banale, non si ripeteva mai nelle sue dichiarazioni pubbliche sempre controcorrente e incisive di autore “impegnato”. Sappiamo tutti che sull’impegno – come pure sul difficile genere della poesia civile – incombe il rischio costante di scadere nell’enfasi o nella retorica.
Ebbi subito un’idea: rappresentare l’opera teatrale a Cassino, la Città Martire della Seconda guerra mondiale. Il primo passo fu contattare l’amico Giorgio Mennoia, direttore del Centro Universitario Teatrale di Cassino, il quale diede la sua totale adesione. Quindi, chiesi il consenso ad Evelina in quanto traduttrice della pièce, la quale non solo fu lieta di questa proposta ma si assunse l’onere di informare l’autore.
Era questa l’operazione più difficile: rintracciare Evtušenko fu sempre un’impresa, in quanto egli era, di fatto, un vero e proprio “cittadino del mondo”, come leggiamo in tanti suoi versi.
Trascorsero alcuni mesi prima che Evelina mi telefonasse per comunicarmi che Ženja (diminutivo di Evgenij) in quei giorni si trovava nel Vietnam. Il Poeta s’era dichiarato entusiasta dell’idea e pertanto autorizzò l’allestimento teatrale dell’opera a titolo assolutamente gratuito, tutte le volte che la Compagnia Universitaria avesse voluto. L’autorizzazione fu formalizzata per iscritto qualche tempo dopo, quando Evtušenko giunse in Italia nell’ottobre del 2002 per ritirare a L’Aquila il Premio “Laudomia Bonanni”.
Un paio di settimane prima della cerimonia Evtušenko mi chiamò per dirmi che desiderava incontrare nel capoluogo abruzzese i rappresentanti del Centro Universitario. Quel giorno partì alla volta de L’Aquila una carovana composta da oltre una trentina di persone: l’intera compagnia teatrale, più il direttivo del Sodalizio “Paideia” da me presieduto.
Il capolavoro teatrale Se tutti i danesi fossero ebrei fu rappresentato in prima nazionale l’anno seguente, nel gennaio 2003, in occasione dell’inaugurazione dell’Anno Accademico.
Per quando concerne, invece, la possibilità di dare alle stampe la pièce, pubblicata – come tu hai ricordato – fino a quel momento unicamente sulla rivista russa “Družba narodov” (1996), cioè nello stesso anno della data riportata sul dattiloscritto, ne parlai in più occasioni sempre con la dolcissima Evelina. Mi rispose ogni volta, sorridendo, che tante erano le opere inedite di Evtušenko, non solo in Italia.
Aggiunse che da quando Ženja s’era trasferito con la famiglia a Tulsa, in Oklahoma – se ricordo bene, nel 1993 – s’era dato anima e corpo all’insegnamento universitario (Letteratura russa e Cinematografia). Scriveva molto, ma non si curava granché delle vicende editoriali dei suoi libri come faceva da giovane. Negli Stati Uniti gli orizzonti erano vastissimi e gli impegni frenetici, il Poeta teneva continue conferenze in giro per gli States e non riusciva a far fronte a tutto. Le ricerche effettuate in vista dell’edizione Lamantica – effettuate dal curatore Lorenzo Gafforini – consentirono di ritenere che il testo tradotto da Evelina e datato 7 gennaio 1996, fu sottoposto da Evtušenko a successivi ampliamenti e modifiche, per quanto – forse inavvertitamente – l’autore mantenne sempre la datazione originaria.
Del resto, anche l’importantissimo volumone di memorie I Sessantisti. Memorie in prosa (Šestidesjanik. Memuarnaja proza, Mosca 2006), che in Russia ha venduto finora circa un milione di copie, era stato in parte tradotto dalla nostra Pascucci, ma finora nel nostro Paese non è stato pubblicato.
Soffermiamoci ancora un attimo su Evtušenko, prima di approcciarci al testo del dramma. La sua figura di autore è molto particolare, Buttafava lo ha definito “l’Enfant terrible e insieme l’Enfant gaté della cultura sovietica”. Tu nell’introduzione al volumetto lo definisci convincentemente “un’anomalia”, un poeta “che continua ad essere guardato con una certa aria di sufficienza” dagli accademici e che eppure ha goduto di un successo strepitoso negli anni del disgelo e, va detto, è stato molto tradotto in Italia in quello stesso periodo. Ci racconti un po’ chi era Evgenij Evtušenko, o Ženja, come lo chiami in amicizia?
Per comprendere con una certa esattezza la parabola esistenziale di Evtušenko bisogna partire dagli anni della sua prima infanzia, che egli ricostruì nel 1963 nella sua Autobiografia precoce. Postille marginali. In quel libro egli raccontò le tragiche vicende dei suoi due nonni.
Va precisato che Evtušenko, nato Gangnus (il cognome paterno, tipicamente tedesco), fu costretto dai familiari a prendere come cognome quello della madre, di origine ucraina, perché durante la guerra la sua insegnante intimava agli altri compagni di classe di non giocare con Ženja, perché era un “tedesco”.
Il nonno materno Ermolaj Evtušenko, tra gli artefici della rivoluzione bolscevica sugli Urali, negli anni di Stalin fu prelevato nottetempo con l’accusa di alto tradimento, e di lui si perse ogni traccia. Ma prima di essere arrestato, Ermolaj volle brindare con il nipotino alla rivoluzione. Anche l’altro nonno, Rudolph Gangnus, un professore di matematica di origine lettone ma con ascendenze tedesche, fece la stessa fine di Ermolaj con l’accusa di essere una spia lettone. Questi drammatici avvenimenti ebbero forti ripercussioni sulla formazione del piccolo Ženja, in quanto lo convinsero che la rivoluzione del 1917 in sé era una cosa giusta, che era però degenerata a causa del sanguinario dittatore Stalin.
Nell’Autobiografia precoce Evtušenko spiegò bene questo suo credo, come nell’affermazione che segue: “(…) Stalin aveva profondamente contraffatto il pensiero di Lenin. Se, infatti, il pensiero e l’opera di Lenin potevano essere riassunti nella massima ‘Il comunismo al servizio degli uomini’, per Stalin, sostanzialmente, erano gli uomini al servizio del comunismo”.
A Stalin fece seguito il disgelo di Chruščëv. Si trattò di una nuova fase storica che fece pensare alla possibilità di una più o meno felice attuazione degli ideali della rivoluzione, contro l’involuzione stalinista. Nel campo della cultura Evtušenko divenne subito uno dei maggiori esponenti del disgelo, tanto che i suoi recital poetici si svolgevano negli stadi davanti a centinaia di migliaia di persone, e i suoi libri si vendevano in milioni di copie.
Per questo è lecito affermare che se Evtušenko da un lato era un enfant terrible per le sue veementi accuse contro le fazioni staliniste che si annidavano nei gangli del potere, dall’altro era un enfant gaté – come scrisse anche Angelo Maria Ripellino – cioè viziato dall’enorme successo che fece di lui un “divo” a tutti gli effetti.
È noto che in Russia i poeti sono sempre stati estremamente vicini al popolo: in Russia i poeti vengono celebrati esattamente come noi siamo soliti osannare cantautori come De André, Dalla e Guccini. Lo stesso Evtušenko ebbe a scrivere: “Il poeta in Russia è più che poeta”. Evtušenko, dunque, rappresentò una forte “anomalia” nel contesto generale, dal momento che le sue vicende personali – quasi da “predestinato” – segnarono e indirizzarono la sua esistenza in una direzione precisa, quasi unica, e forse proprio per questo di difficile comprensione.
Al periodo di Chruščëv fece seguito la restaurazione di stampo stalinista imposta da Brežnev, ma ormai la celebrità e il prestigio di cui godeva Evtušenko a livello internazionale lo avevano reso, per mille motivi, quasi “intoccabile”.
Nel saggio ho cercato di spiegare, sia pure in sintesi, come egli fu soggetto a restrizioni e punizioni di varia natura, tuttavia la nomenklatura brežneviana nei suoi confronti era come se avesse le mani legate. Questo perchè nelle sue poesie egli comunque celebrava i valori del leninismo contro lo stalinismo. Si trattava forse di una sottile astuzia per raggirare Brežnev? Io credo che Evtušenko fosse ben conscio dei risultati positivi arrecatigli da una tale linea di condotta, ma nello stesso tempo i suoi versi di protesta si presentano indubbiamente sinceri, sofferti e artisticamente validi, come appare evidente se esaminiamo la raccolta premonitrice Gli eredi di Stalin (1962).
L’irrefrenabile Enfant terrible poteva pertanto permettersi il lusso di prendere pubblicamente le difese di dissidenti come Dudincev, Solženicyn, Brodskij e di altri autori meno noti. Dunque, il problema era: come punire uno che era famoso nel mondo perché amico di Che Guevara, Fidel Castro e Neruda?
Nel 1985 ebbe inizio l’era luminosa della perestrojka di Gorbačëv. Ženja, riuscito a superare incolume l’epoca di Brežnev, riconobbe in Gorbačëv il prosecutore del disgelo. Eletto alla Duma, fu tra i più stretti collaboratori del padre della perestrojka. Tuttavia, il tentativo di colpo di Stato contro Gorbačëv dell’agosto 1991, e soprattutto il patto segreto – all’insaputa di Gorbačëv – stipulato a Belavežskaja pušča fra i tre Presidenti di Russia, Ucraina e Bielorussia (dicembre 1991), i quali proclamarono la secessione dei loro Stati dall’Unione Sovietica, costrinsero Gorbačëv (Presidente dell’URSS) a dichiarare lo scioglimento dell’Unione Sovietica.
Furono anni di devastazioni e di sangue: in molte zone dell’ex-URSS scoppiarono focolai di guerra civile fra le tre principali forze politiche che si contendevano il potere: gli stalinisti, i nazionalisti di destra e i filo-occidentali. In Russia non esisteva alcuno spazio per le idee riformiste – comunque socialiste – di Gorbačëv, che era considerato da tutti un “traditore” della Patria.
Evtušenko, che pure vantava moltissimi sostenitori, era politicamente caduto in disgrazia, tanto che le sue foto e i suoi libri furono dati alle fiamme nella Piazza Rossa, insieme di quelli di Gorbačëv.
A quel punto non gli restò che accettare l’invito rivoltogli dall’Università di Tulsa a ricoprire una cattedra onoraria, come già accennato, e si trasferì con la famiglia negli Stati Uniti.
Il testo teatrale Se tutti i danesi fossero ebrei viene scritto in un’epoca molto distante da quel disgelo in cui l’autore aveva trovato un suo spazio e un suo ruolo – e uso la parola “ruolo” non a caso, vista l’importanza che Evtušenko riponeva nella figura del Poeta, “guida spirituale del proprio Paese” (da Autobiografia, 1963). Se tutti i danesi fossero ebrei nasce in un momento storico, quello postsovietico, in cui, cito Evtušenko stesso, “la Russia / ha perso in Russia / la Russia” (da Perdita, 1991). Che tipo di autore è diventato Ženja in questo periodo?
Nonostante le disavventure degli ultimi anni in Russia, Evtušenko non uscì mai di scena, svolse sempre un ruolo di primissimo piano nel panorama culturale non soltanto russo, ma mondiale. Bisogna considerare che dagli anni del disgelo a quelli in cui scrisse Se tutti i danesi fossero ebrei corrono, come ho scritto, almeno quattro diverse fasi epocali: a) gli anni di Chruščëv; b) il periodo di Brežnev; c) la perestrojka di Gorbačëv; d) la fine dell’Urss e il trasferimento del Poeta in Oklahoma.
Faccio notare che, a prima vista, sembrerebbero epoche tra loro “molto distanti”, in realtà erano tutte strettamente collegate in una fitta serie di reazioni a catena. Stiamo parlando di oltre mezzo secolo di lotte intestine che Evtušenko ha attraversato – confessò – da perfetto incosciente. Scrisse nel poema Fukù! (1989): “Non mi hanno ancora ucciso e c’è un motivo. / non sono abbastanza saggio per questo onore”.
Da tutti questi sconvolgimenti egli uscì sempre moralmente vittorioso e quasi indenne. Questo perché, ad ogni mutar di vento, egli si distinse sempre per una sua profonda coerenza di fondo, checché ne dicano i detrattori. Egli riuscì a salvaguardare la propria dignità di uomo e di scrittore, pur essendo continuamente messo alla prova e strattonato da tutte le parti.
Va detto che gli ultimi decenni vissuti sul suolo americano resero il Poeta meno irruento e più disincantato, come era normale attendersi vista anche l’età avanzata. Egli iniziò a considerare gli eventi secondo una concezione, direi, non molto lontana dai “corsi e ricorsi storici” di Vico, per quanto non rinnegò mai la propria visione socialista e libertaria della società, così come era stata elaborata al fianco di Gorbačëv.
Ma veniamo dunque al testo stesso. Se tutti i danesi fossero ebrei è un’opera teatrale che risente, a mio avviso, molto dell’afflato poetico che contraddistingue le opere del suo autore. È un testo estremamente evocativo che mescola, come in una poesia, piani e scene (“quadri”, per riprendere la terminologia del dramma) diversi, uniti tra loro da fili rossi tematici, simbolici, linguistici; uno tra tutti: il flauto che continua a risuonare in ambientazioni, epoche storiche e contesti narrativi differenti.
In un momento passiamo dal Seicento al Novecento, recuperando, con l’aiuto di Evtušenko, una storia ignota ai più, come quella della principessa Leonora Cristina (1621-1698) rinchiusa per ventidue anni in una torre del castello di Copenaghen con l’accusa di complotto ai danni del re. Una sua ipostasi, sempre danese ma ebrea, riappare in altri quadri di ambientazione bellica, a mo’ di sfida personificata gettata in faccia a militari nazisti di vario rango e carattere.
A tuo avviso perché Evtušenko sceglie di recuperare una storia antica, ignota ai più e legata tanto al contesto danese? Per quanto riguarda la tematica ebraica, questa non è estranea alla produzione dell’autore, basti pensare alla sua Babij Jar(1961). Eppure si percepisce anche a tal riguardo uno slittamento narrativo. Perché Evtušenko ha scelto di riprendere e intersecare questi specifici piani, secondo te?
La pièce fu scritta in una stagione dell’esistenza di Ženja che definirei quella del cocente “crollo delle illusioni”, con specifico riferimento al socialismo in Russia. Dopo tante battaglie, Evtušenko prese atto che il fiume degli eventi continuava ad andare nella direzione di sempre, ossia “a passo di gambero”, ricordando una efficace definizione di Umberto Eco.
Ma una flebile speranza esisteva: finora il mondo, sia pure a singhiozzo, è sempre andato avanti, e certe conquiste si sono dimostrate irrinunciabili. Tutto ciò grazie alla Cultura, la sola che possa rendere possibile un autentico progresso basato sulla fratellanza e sull’uguaglianza, che costituiscono le fondamenta di una vera libertà. Da questa riflessione derivò una ricerca tematica e stilistica che sintetizzasse tutti questi concetti e, nello stesso tempo, rispecchiasse gli ideali dell’autore. È questa la ragione per cui Ženja concepì questa geniale opera teatrale.
L’autore aveva bisogno di ambientare il dramma in una simbolica “zona franca”, che non fosse né la Russia che tante sofferenze gli aveva arrecato, né l’America dove viveva, una terra di cui Evtušenko disdegnava il capitalismo e l’arrivismo spietati. Teatro della pièce doveva essere un archetipo limpido eppure misterico, un punto d’incontro tra tragedia, realtà e sogno.
Nella trama s’intrecciano indissolubilmente diverse vicende, tra cui quelle lontanissime nel tempo – ma dalle problematiche vicinissime – di due ragazze vittime di vessazioni indicibili, non a caso entrambe di nome Leonora Cristina: la prima vissuta nel XVII secolo e la seconda durante la seconda guerra mondiale. Le peripezie della principessa Leonora Cristina di Danimarca si prestavano perfettamente allo scopo, a cui Evtušenko associò i singolari avvenimenti dell’occupazione nazista nella stessa Danimarca.
Ženja volle insistere con ostinazione sul concetto della diabolica ripetività delle nequizie del mondo, e lo fece ponendo subito, in apertura del dramma, alcuni versi tratti dal diario segreto della Principessa: “Ogni generazione – nella polvere e nel sangue – / depreca i propri errori amari; / ma le nuove di ripeterli mai saran stanche…”. Tutto questo per affidare il suo messaggio agli uomini di buona volontà nel nome della Cultura, che è l’unico baluardo contro il Male.
Ci sono molti “quadri” della pièce che mi piacerebbe commentare insieme a te, ma ne scelgo uno che tocca uno dei piani, a mio parere, fondamentali della struttura del testo, che ritorna a più riprese, compreso il finale, ma che nel Quadro IX viene forse enucleato nella maniera più esplicita. Siamo di fronte a un dialogo tra la principessa rinchiusa nella torre e il suo capo carceriere. Quest’ultimo critica la principessa e con lei i colti, gli intellettuali, gli scrittori, ribadendo che
“di tali ignoranti, come me, Altezza, ce ne sarà sempre una quantità. Una quantità invincibile, immortale. Noi, appunto, siamo la birra dell’umanità e voi molto istruiti, scusi Altezza, solo la sua schiuma, sia pur bianca come la neve. Ma soffiarla via non costa niente”.
Il capo carceriere si spinge oltre, immaginando un futuro in cui “avrà inizio la dinastia mondiale dei servi! E voi, intellettuali, diverrete per sempre servi dei servi”. Questo ribaltamento delle gerarchie, tuttavia, anche nella descrizione del capo carceriere ha ben poco di idilliaco. Che lettura proponi di questo ribaltamento dalle tinte fosche, ribaltamento tutto sommato ripreso, fuor di metafora, nelle scene che vedono al centro i nazisti?
L’autore mette queste affermazioni, non certo per una stravaganza, in bocca al Capo Carceriere. Questi, nella sua stupida e perfida ignoranza, auspica un totale “ribaltamento” dei rapporti sociali. In realtà, è ciò che accade da sempre nella storia del mondo. I “servi” di ieri sono destinati a diventare i “padroni” di domani, i cui discendenti un giorno – trascorso il periodo della schiavitù – torneranno a essere i nuovi padroni, magari alleandosi con le componenti sociali emergenti.
Non sempre questi processi si verificano rispettando tabelle precise: a volte questi ribaltoni avvengono dopo appena una generazione, altre volte occorrono secoli. Tutto dipende dagli accidenti epocali e dalle contingenze legate al territorio. Su questo tema si dilungò Vico nelle sue opere, ma anche Sartre affrontò e approfondì l’argomento, quando nella Critica della ragione dialettica parlò di “totalizzazioni” dialettiche tra singoli individui o gruppi sociali che si combattono tra loro per impadronirsi del potere. Per Sartre la “dialettica” non è tanto un pacifico confronto di idee, quanto un vero e proprio scontro fisico e bellico. Almeno così è stato per millenni, ed è tuttora, nella storia degli uomini, i quali non dialogano affatto, ma si sterminano tra loro e basta. La differenza tra Vico e Sartre consiste sostanzialmente nel fatto che per Sartre le “totalizzazioni” comunque muovono il mondo, lo modificano, nel bene o nel male. Il Capo Carceriere, nella sua belluina ignoranza, non sapeva che erano già esistite in ogni angolo della Terra innumerevoli “dinastie mondiali dei servi”.
Nel citato poema Fukù! (1989), Evtušenko definì questi continui conflitti che insanguinano il mondo come una palese dimostrazione del fatto che viviamo ancora nella preistoria. Ne trascrivo i passaggi essenziali: “Si è trasformata la terra / nella più enorme delle tombe. / Finché esisteranno i confini, / saremo sempre preistorici. / La vera storia avrà inizio / quando essi non ci saranno”.
A questo punto, sorge spontanea la domanda: ma se il mondo è sempre stato così, a che serve impegnarsi, scrivere libri? La risposta è quella già accennata sopra. L’umanità finora si è trascinata in uno stato brado, selvaggio, perché è mancata la Cultura, una vera Cultura, quella dell’amore e della giustizia. Il Poeta non lo dice apertamente perché rischierebbe di cadere nel protagonismo e nella retorica, e d’altra parte l’opera teatrale non fu concepita per rinnovare i proclami da “tribuno” della verde età di Ženja.
Ma in ogni pagina delle sue opere ritroviamo il vero spirito del cittadino del mondo Evtušenko, in ogni suo gesto rimane sempre sottinteso l’ideale che animò tutta la sua esistenza: quello del socialismo. Un socialismo libertario e a misura d’uomo.
Se tutti i danesi fossero ebrei di Evgenij A. Evtušenko, traduzione di Evelina Pascucci, Edizioni Lamantica, 2022. A cura di Lorenzo Gafforini. Con un saggio introduttivo di Francesco De Napoli.
Dottoressa di ricerca in Slavistica, è docente di lingua russa e traduzione presso l’Università di Trieste, si occupa in particolare di cultura tardo-sovietica e contemporanea di lingua russa. È traduttrice, curatrice di collana presso la casa editrice Bottega Errante ed è la presidente di Meridiano 13 APS.