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A dieci anni di distanza dalla partita Serbia-Albania, giocata a Belgrado, allo stadio Jna di Belgrado, casa del Partizan, e interrotta a causa del famoso “drone”, vogliamo ripubblicare questa testimonianza comparsa per la prima volta, pochi giorni dopo l’evento, sul portale solosalerno.it.
Contrariamente a quello che di solito offriamo ai nostri lettori, questo contributo sarà pubblicato in prima persona per dare più forza e concretezza alle parole del protagonista, che ha vissuto in prima persona i fatti. I punti di vista e alcune ricostruzioni sono frutto del momento e del contesto in cui questo pezzo è stato realizzato. All’epoca dei fatti l’autore aveva 27 anni e stava svolgendo il servizio civile in Kosovo, a Gjakova (Đakovica in serbo) per conto di Celim, una Ong milanese.
Ci siamo, il grande giorno finalmente è arrivato: 14 ottobre 2014, Serbia e Albania tornano ad affrontarsi in una partita di calcio. L’ultimo precedente risale a ben trentasette anni fa [a quei tempi però si trattava di Jugoslavia-Albania, giocata il 22 giugno 1977 a Skopje e terminata con il risultato di 1-1, ndr]. Durante questo arco temporale il già difficile contesto geopolitico si è ulteriormente deteriorato: si sono succedute infatti la guerra e la successiva dichiarazione d’indipendenza dell’ex provincia serba del Kosovo, popolata in stragrande maggioranza da kosovari di etnia albanese.
A Gjakova, oggi in Kosovo, dove questi ultimi rappresentano il 95% dei cittadini (l’altro 5% è costituito dalla minoranza RAE [Rom, Ashkali, Ezigiani, ndr], mentre i pochi serbi che vivevano qui sono fuggiti subito dopo il conflitto), non si parla d’altro. Il sentimento nazionalista, infatti, è fortissimo, così come l’odio verso i serbi: nel 1999, le forze militari e paramilitari agli ordini di Belgrado rasero al suolo la città. Inoltre, più della metà dei calciatori albanesi ha radici kosovare, e due di loro, Burim Kukeli e Lorik Cana, il capitano, sono originari proprio di Gjakova.
La partita tra Serbia e Albania, come spesso succede anche per incontri tra squadre di club, trascende quindi il semplice significato sportivo per abbracciare aspetti socio-politici ben più complessi e intrecciarsi con la Storia. Soltanto chi non ha mai frequentato una curva può ignorare tali questioni. La vigilia della partita non è stata di quelle tranquille: ai tifosi albanesi non è stato permesso di assistere al match a Belgrado per evitare scontri tra le opposte tifoserie.
Con Alice, l’altra volontaria in servizio civile, usciamo per vedere la partita in compagnia dei nostri amici kosovari. La çarshia e vjeter, l’antico mercato ottomano di Gjakova, è un tripudio di bandiere raffiguranti l’aquila bicefala nera su sfondo rosso, un simbolo ormai familiare, e di striscioni inneggianti all’Albania Etnica, o Grande Albania (Shqipni Etnike in albanese). Con questa espressione si indica non un “progetto politico presunto”, così come erroneamente riportato da un noto quotidiano nazionale, bensì un’aspirazione territoriale su uno spazio popolato in prevalenza da cittadini di etnia albanese.
Questi rivendicano tale regione come propria in quanto viene considerata la roccaforte della propria civiltà, che si reputa discendente direttamente dall’antica popolazione indo-europea degli Illiri. Questo territorio comprende, oltre che l’Albania, il Kosovo, la parte serba confinante con quest’ultimo, il sud-est del Montenegro inclusa la capitale Podgorica, circa metà del territorio macedone e la regione occidentale greca che comprende la città di Ioannina.
Veniamo accolti dall’odore acre dei fumogeni che tingono il cielo di rosso e dall’esplosione di diversi petardi. Io, cresciuto nella bolgia della Curva Sud dell’Arechi, mi sento a casa; Alice, che avrà visto sì e no un paio di partite dal vivo, non è della stessa opinione e mi supplica di cercare un posto più tranquillo. Ridendo, andiamo alla ricerca di un bar che abbia qualche posto libero; tuttavia, tutti i locali nel centro storico sono stracolmi di persone. Avevo visto così tanta gente per le strade di Gjakova soltanto d’estate, quando i kosovari emigranti dispersi nel mondo tornano per le vacanze.
Riusciamo finalmente a sederci in un bar dove Charlie, un volontario americano dei Peace Corps, ci aveva riservato dei posti. L’atmosfera è elettrica; accanto a me, avvolto nella sciarpa albanese e con il copricapo tradizionale, il plisi, è seduto Gaga, un ragazzo kosovaro che ha perso il padre durante la guerra. “Amico”, mi dice, “non puoi capire quanta adrenalina ho in corpo!”. Immagino che veder giocare questa partita possa provocare delle emozioni uniche, indescrivibili, che possono essere comprese fino in fondo soltanto da chi ha vissuto la stessa situazione.
Le squadre entrano finalmente in campo, la partita inizia, i brindisi non si contano. Ogni giocata dell’Albania che supera il centrocampo è accompagnata da boati fragorosi, gli attacchi serbi vengono seguiti da urla e insulti. Un po’ li invidio: sarà che la storia dell’unità d’Italia presenta aspetti molto oscuri riguardanti soprattutto le vessazioni subite dal Meridione, sarà che da noi il nazionalismo è legato soprattutto agli ambienti neofascisti, io per la nazionale italiana non riesco a provare la stessa sensazione di appartenenza.
È anche vero, però, che altrettanto non può dirsi per la Salernitana: il gol del 2 a 1 di Carrus ad Alessandria resterà indelebilmente impresso nella mia mente come uno dei momenti più belli della mia vita (una forza sovrannaturale mi spinse magicamente a festeggiare sulla balaustra del Moccagatta); a prescindere dalla categoria e dai risultati, non riesco a fare altro che sostenere la maglia granata.
Tornando al match, quando Cana sfiora il gol su inzuccata da calcio d’angolo, Gjakova quasi se ne cade. L’Albania, dopo un avvio di gara piuttosto timoroso, si è sciolta ed inizia a macinare gioco ed occasioni. È evidente l’ottimo lavoro svolto da De Biasi e Tramezzani, che hanno dato un’identità a una squadra composta in larga parte da calciatori che militano all’estero. In seguito alla clamorosa vittoria in Portogallo, poi, la nazionale albanese ha scalato il ranking Fifa di ben 25 posizioni, passando dalla posizione numero 70 alla 45.
Verso la fine del primo tempo, succede qualcosa di strano: i tifosi serbi iniziano a tirare fumogeni in campo, mentre la telecamera inquadra un drone che sta sorvolando lo stadio di Belgrado. Quando lo zoom si sposta sull’oggetto volante, si riconosce una bandiera sulla quale è rappresentata l’effigie dell’Albania Etnica. Ai suoi lati sono ritratti i volti di Ismail Qemali e Isa Boletini, i padri della patria albanese; in basso, a caratteri maiuscoli, è impressa la scritta Autoctono. È il delirio: le persone al bar scattano in piedi in un’esplosione di gioia mista a nazionalismo, dagli altoparlanti del bar si diffondono le note di canzoni popolari albanesi, qualcuno festeggia facendo esplodere alcuni colpi di pistola in aria.
La partita è stata sospesa dopo che un calciatore serbo ha afferrato la bandiera, con rissa conseguente in campo. Per un attimo non riesco a credere che la visione di una bandiera possa provocare tale reazione; ricollocandomi prontamente nel contesto, capisco che l’orgoglio albanese, si sta esprimendo nella sua forma più virulenta, sfidando l’odiato nemico nel proprio stadio, nella propria capitale, nel proprio territorio. Ed insistono a dirci che il calcio è soltanto uno sport…