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L’inconfondibile mascella squadrata è contrita come poche volte si è mai visto, i capelli biondi sempre perfettamente pettinati all’indietro sembrano quasi afflosciati, gli occhi color ghiaccio sono stretti in una smorfia dolore e preoccupazione: «Mia mamma ha 85 anni, non è in grado di muoversi e vive a Donec’k: ho paura di non vederla più». L’ultima visita in Italia di Serhij Bubka è molto diversa da quelle a cui ci aveva abituato. Né atleta prodigio tutto d’un pezzo, prima sovietico ma da sempre ucraino, né dirigente sorridente e affabile degli organismi olimpici nazionali e internazionali.
La guerra spaventa chiunque, anche chi per trent’anni si è lasciato cadere a corpo libero da sei metri d’altezza senza batter ciglio. Il conflitto non può che toccarlo da vicino: è nato a Luhans’k nel 1963 ma si è trasferito adolescente a Donec’k seguendo il suo allenatore. Proprio quest’ultima è diventata la sua città d’adozione, tanto che di fronte allo Stadio Olimpico è stata eretta una statua in suo onore. Il basamento in pietra, neanche a dirlo, è alto tanto quanto il suo record mondiale, 6 metri e 15 centimetri; il momento in cui è raffigurato per l’eternità, umanità permettendo, è quello dell’inizio della sua tipica rincorsa, quando il corpo è perfettamente raccolto e l’asta è tenuta sulla destra e svetta verso il cielo.
I primi anni e l’incontro con Vitalij Petrov
«I grandi campioni non esisterebbero senza i grandi allenatori. Noi siamo le star ma, dietro le quinte, c’è chi ci ha costruito», racconta Bubka in un’intervista dell’estate 2017. Il coach, nell’atletica, ha un’importanza forse addirittura superiore che negli altri sport. Perché tutto lo sforzo di costruzione, di allenamento, di creazione del gesto tecnico viene racchiuso in pochi secondi di esibizione. Non si parla di lunghe partite in cui poter rimediare a un errore, né di uno sport di squadra dove i compagni possono supplire a una prestazione sottotono. È tutto deciso lì in quegli istanti che, se per gli spettatori sono velocissimi, per gli atleti sembrano infiniti; istanti in cui tutto dev’essere perfetto.
L’allenatore, quindi, è imprescindibile per un atleta. È lui a notare ogni volta che il piede è fuori posto, che un movimento del braccio è asincrono al fluire del corpo, che un appoggio leggermente spostato cambia tutto il risultato. È un altro uomo di Donec’k l’ingegnere che ha costruito il più grande astista di tutti i tempi: si chiama Vitalij Petrov. Ha conosciuto il piccolo Serhij quando questi aveva appena nove, forse dieci anni e si era fatto convincere da un amico a entrare in un club di salto con l’asta a Luhans’k. Vitalij stava per compierne trenta ed era uno dei tanti allenatori su cui l’Unione Sovietica faceva affidamento per poter mostrare al mondo la propria forza attraverso le competizioni sportive. Appena vide Bubka capì che poteva lavorare tanto su di lui e renderlo un grande atleta. Il ragazzo aveva una particolare predisposizione per l’attività fisica, ma soprattutto mostrava già una determinazione fuori dal comune.
Forse era merito anche dell’educazione militare impartita dal padre Nazar, convinto membro dell’Armata Rossa. Egli non voleva che il figlio si allenasse nel salto con l’asta, ma rimase sostanzialmente inascoltato. Così quando Nazar e Valentyna, la madre di Serhij e del fratello Vasilij, si separarono definitivamente, Petrov prese la palla al balzo e portò il suo allievo con sé a Donec’k. Il quindicenne Bubka alloggiava in un dormitorio, andava regolarmente a scuola e passava tutto il resto del suo tempo ad allenarsi. A differenza di quello che credeva il padre, i risultati non tardarono ad arrivare. Il ragazzo mostrò in breve tempo delle potenzialità atletiche incredibili, e come molti predestinati della pedana era portato in più discipline: arrivava a correre i 100 metri in 10 secondi e spiccioli, e nel salto in lungo superava gli 8 metri. Nonostante raggiungesse risultati che gli avrebbero permesso di scegliere qualsiasi tipo di gara, fu nel salto con l’asta che si concentrarono tutti i suoi sforzi.
La nascita del modello Petrov/Bubka
A pensarci bene, questa è una delle discipline più particolari di tutto il panorama. Immaginare che l’atleta debba gestire una parte dell’esercizio in aria, cercando di sfruttare a suo vantaggio l’energia data dal rinculo dell’asta per arrivare più in alto possibile mentre combatte contro l’ineluttabile forza di gravità, rende giustizia al concetto greco di impresa insito nella parola athlos. Mentalmente, inoltre, il salto con l’asta rappresenta una sfida di altissimo livello: si raggiungono i cinque, sei metri d’altezza solo grazie alla presa su un lunghissimo bastone che ti spara in cielo, prima di decidere volontariamente di lasciarlo andare per cadere nel vuoto. Significa letteralmente volare, tre lunghissimi secondi di pura adrenalina prima di toccare il materasso. Significa dover fare i conti con paure primordiali dell’uomo, che hanno bloccato qualsiasi astista che sia mai salito in pedana. Paure come quella del volo, del vuoto, o più semplicemente quella di farsi seriamente male. Gli infortuni, nel salto con l’asta, non sono troppo rari.
La collaborazione tra il giovane allenatore e l’ancor più giovane astista porta alla creazione di una forma talmente raffinata di salto che ancora oggi è considerata da tanti come la migliore mai vista, e da tutti gli altri come il banco di prova per testare altri stili. Tanto che non può prendere altro nome che quello di “modello Petrov/Bubka”. Il dibattito è ancora molto vivo tra chi pensa che siano le capacità fisiche eccezionali di Bubka ad avergli permesso di raggiungere quel tipo di risultati e che ogni astista debba sviluppare un suo particolare tipo di salto adatto al suo corpo, e chi invece sostiene che il metodo porti vantaggi biomeccanici fondamentali. È un momento che fa da spartiacque nella storia della disciplina, tanto quanto la rivoluzione portata da Dick Fosbury nel salto in alto.
Caratteristiche principali del modello sono la presa sull’asta praticamente sulla punta; la corsa verso il punto di decollo con le spalle dritte tenendo l’asta quasi ferma; l’oscillazione della gamba di richiamo una volta preso il volo; la mancanza di un momento di raccoglimento a metà del salto per poi “spararsi” verso la massima altezza (il cosiddetto stile tuck and shoot), bensì una presa di posizione totalmente verticale nell’ascesa alla sbarra. Questi accorgimenti, adottati da Petrov dopo aver osservato e rielaborato la tecnica dell’astista svedese Kjell Isaksson, bene si associano alla prodigiosità atletica di Bubka, capace di avere una velocità in fase di decollo di quasi 32 km/h, poco lontana dalla media di 37 km/h con cui Usain Bolt ha stampato il record del mondo dei 100 metri piani in 9,58 secondi; però il giamaicano non aveva un’asta lunga 5 metri e 20 da dover trasportare nel suo sprint.
L’inarrestabile ascesa fino al record del mondo
Dopo aver costruito l’atleta perfetto per il salto con l’asta, arriva il momento di mostrarlo al pubblico. Bubka ha diciannove anni quando, nell’agosto 1983, si disputa la prima edizione dei Mondiali di atletica leggera a Helsinki. Ha già partecipato in realtà a una gara internazionale, ai Campionati Europei per juniores tenuti a Utrecht nel 1981, finendo al settimo posto. Ma ora è il momento di risplendere. In Finlandia si gareggia all’aperto e il maltempo non fa sconti, tanto che i round di qualificazione non si disputano per il forte vento e la pioggia incessante. Ci si gioca tutto nell’ultimo giorno di gare, il 14 agosto, in una finale in cui tutti gli iscritti hanno una possibilità.
Sono presenti atleti di tutto rispetto, come il detentore del record mondiale e neo campione europeo Vladimir Poljakov e il francese Thierry Vigneron. Entrambi deluderanno le attese, fermandosi alla misura di entrata a 5,40 metri. Sono solo in sette a superarla, tra cui Bubka. Che salta al primo tentativo i 5,50, mentre ha un po’ di difficoltà e solo al terzo riesce a mettersi alle spalle i 5,60. Rimangono in tre: lui, l’altro sovietico Volkov (ex campione europeo e medaglia d’argento alle Olimpiadi di Mosca ‘80) e il bulgaro Tarev. Quest’ultimo fallisce ai 5,65 metri, Volkov ai 5,70 e ai 5,75. Bubka, con un solo salto perfetto a quota 5,70 metri, ha la strada spianata. L’allievo di Petrov nel frattempo decide di provare a fare il botto: alla sua prima competizione internazionale tra gli adulti prova ad attaccare il record del mondo di Poljakov, fissato a 5,81 metri. Fallisce tre volte, ma al suo sostanziale esordio è incoronato primo Campione del Mondo nel salto con l’asta.
L’anno successivo Bubka domina letteralmente la scena. Nel 1984 non ha l’opportunità di presentarsi alle sue prime Olimpiadi, perché il blocco sovietico decide di boicottare l’edizione di Los Angeles. Un altro francese, Pierre Quignon, vincerà l’oro saltando a 5,75 metri. Peccato che Bubka avesse già superato quella misura sei volte nei mesi precedenti alle Olimpiadi americane. Prima indoor, quando il primo febbraio a Milano si issa a 5,82 metri e a Inglewood la settimana successiva arriva fino a 5,83. Poi arriva la stagione dell’outdoor, e tutti gli appassionati si aspettano un attacco al record del mondo fermo proprio a 5,83 metri appartenente a Vigneron.
Riesce subito il 26 maggio a Bratislava, firmando il nuovo limite a 5,85 metri. Non contento, lo ritocca altre due volte prima che tutta l’attenzione si sposti su Los Angeles: il 2 giugno salta 5,88 metri a Parigi, e due settimane prima delle Olimpiadi arriva a 5,90 metri nel meeting di Londra. La medaglia d’oro di Quignon assume sempre meno valore, vista la sua mancanza in pedana. Anche perché, finita la manifestazione americana, si disputa un’elettrizzante edizione del Golden Gala a Roma: Vigneron si presenta fresco del bronzo olimpico e supera sé stesso, riconquistando sorprendentemente il record mondiale saltando a 5,91 metri, ma Bubka pochi minuti dopo fissa l’asticella a 5,94 e la supera. Ogni altro tentativo di resistenza è futile, è lui il padrone assoluto del salto con l’asta; ci vorranno trent’anni prima di vedere qualcuno superarlo.
L’attacco al limite impossibile da superare
Dopo aver stabilito il dominio Serhij può permettersi di porsi un altro obiettivo, questo ancora più leggendario: oltrepassare quota 6 metri. Il primo record mondiale di salto con l’asta riconosciuto dalla Federazione Internazionale è datato 6 agosto 1912, quando Marc Wright superò per primo la soglia dei 4 metri nelle qualificazioni alle finali delle Olimpiadi di Stoccolma. Cinquant’anni dopo un altro americano, Brian Sternberg, è il primo atleta a saltare i 5 metri. È stato anche il primo a utilizzare un’asta in fibra di vetro. I miglioramenti da quel primo tentativo riuscito sono tanti, così nei vent’anni successivi il limite verrà alzato sempre più spesso, sempre più velocemente. Eppure tutti i vecchi astisti, e tanti di quelli nuovi, ritenevano impossibile che si sarebbe mai visto un uomo volare fino a 6 metri d’altezza. Un muro invalicabile, per chiunque.
Nelle prime uscite outdoor della stagione 1985, una sorta di riscaldamento, Bubka salta due volte 5,80 e una 5,85 metri. Il prossimo importante appuntamento è il 16 luglio a Nizza; parte da Mosca il 13, atterrando a Parigi alla vigilia della festa nazionale francese che ricorda la presa della Bastiglia. Anche nella capitale ci sarebbe un meeting: non è previsto inizialmente tra gli iscritti, ma il capo delegazione lo avverte che un posto per lui lo trovano, se vuole competere. Una telefonata rapida a Petrov per chiedere il permesso, e poi dà l’assenso: basta che, vista la presenza di pochi avversari, non faccia troppi salti per non stancarsi troppo. Alle undici arriva in hotel, mezz’ora dopo riparte per andare allo Stade Jean-Bouin, storico impianto di Parigi situato di fianco al Parco dei Principi e poco lontano dai campi del Roland Garros.
Dopo un po’ di riscaldamento salta i 5,70 metri al primo tentativo, superando subito il francese Collet e guadagnando la vittoria. Sbrigata la pratica, ha a disposizione tre salti a una misura più alta: solitamente mette l’asta sui 5,90 o 5,95, ma stavolta vuole osare. Alza il limite fino a 6 metri. È probabilmente uno dei salti più belli di tutta la sua carriera. Rasenta la perfezione nella compattezza della corsa, nella tecnica di stacco da terra, nel modo in cui sale con una stupenda verticale verso il cielo. C’è tanto spazio tra il suo corpo e l’asticella, quando incomincia la sua discesa verso il materasso, verso il record che era ritenuto fino a quel giorno impossibile da raggiungere. Dopo l’atterraggio si rimette in piedi, l’esultanza non è di quelle pazze che si vedono al giorno d’oggi. Alza semplicemente le braccia, raggiante, raccogliendo l’applauso del pubblico estasiato.
Bubka il cannibale maledetto
Serhij Bubka diventa definitivamente un fenomeno non solo del salto con l’asta, ma dell’intero movimento dell’atletica. Negli anni successivi ritocca costantemente il record del mondo, centimetro dopo centimetro. Non prova mai a saltare un passaggio, ad avanzare l’asticella di più del minimo sindacale per firmare un nuovo limite. Una visione cinica della sua carriera spiegherebbe il tutto con i bonus in denaro ricevuti ogni volta che batte la sua stessa misura, prima elargiti dallo stato sovietico e poi da sponsor occidentali come Nike.
Sì, perché mentre Bubka mantiene una costanza invidiabile saltando il suo ultimo record undici anni dopo la prima vittoria a Helsinki, nel frattempo l’URSS si è sfaldata. Così Serhij può finalmente indossare fieramente la casacca dell’Ucraina quando a Sestriere il 31 luglio 1994 salta a 6,14 metri, la sua misura definitiva per l’outdoor. L’anno precedente, sempre vestendo giallo e blu, aveva fissato il limite indoor a 6,15 metri nella sua Donec’k. In totale firma 35 record del mondo, 17 outdoor e 18 indoor. Sono invece 49 i salti oltre i sei metri, nei dieci anni successivi alla rottura della mitica barriera solo altri due astisti ce la faranno a superarla. Va da sé che Bubka cannibalizzi quasi ogni gara a cui partecipa. I Mondiali sono roba sua dal 1983 al 1997, sei edizioni consecutive in cui non scende mai (a parte l’esordio finlandese) sotto i 5,85 metri. Campionati europei, meeting sparsi in giro per il mondo: è un trionfo continuo.
C’è solo una manifestazione con cui non ha un grande feeling, purtroppo la più importante. Dopo aver saltato l’edizione americana del 1984, a Seul quattro anni dopo si presenta da favorito e ha già portato il record a 6,06 metri. Gli basta il terzo tentativo a 5,90 per vincere l’oro, l’unico che gli mancava. Da lì in poi, non riuscirà più a vincere una medaglia. A Barcellona, dopo aver passato il giro di qualificazione con un singolo salto a 5,60, sbaglia tre tentativi tra 5,70 e 5,75 metri ed è penultimo nella gara. Ad Atlanta non si presenta proprio in pedana, vittima di un infortunio. A Sidney, un anno prima del ritiro e sempre bloccato da problemi fisici, fallisce la misura di entrata in finale ancora una volta, sempre a 5,70 metri. Una maledizione.
L’allontanamento di Petrov e il finale di carriera
Nel tempo si è allontanato da Petrov, già dopo la fine delle Olimpiadi di Seul; secondo il tecnico, molte delle divergenze sono state alimentate anche dalla moglie. Non è andata male a nessuno dei due, perché quando Bubka finalmente si ritira, Petrov può ricominciare a mietere successi con i suoi atleti: prima con Giuseppe Gibilisco, poi con la zarina dell’asta Elena Isinbaeva, infine seguendo i brasiliani Fabiana Murer e Thiago Braz, tanto che il suo personale medagliere tra Mondiali e Olimpiadi parla di nove ori, un argento e un bronzo.
Serhij invece si ritira ufficialmente nel 2001, un anno dopo il disastro di Sidney e senza aver saltato i sei metri da quattro stagioni; il corpo non collabora più verso un esercizio così faticoso. Lascia a Donec’k, dove tutto era incominciato quasi trent’anni prima, nel febbraio 2001, circondato dall’affetto del suo popolo. Non è rimasto con le mani in mano, non sembra esserne capace. Diventa membro del Comitato Olimpico Internazionale prima come atleta, poi come diretto dipendente; dal 2005 è presidente del Comitato Olimpico Nazionale ucraino; ed è anche tra i membri del concilio della Federazione Internazionale di atletica leggera. Alla stampa dice che non è stato pesante passare dall’essere in pedana allo stare dietro la scrivania: lo aveva già previsto prima del ritiro come un naturale passaggio da una fase di vita a un’altra, prendendo i nuovi impegni con la stessa precisione e attenzione ai dettagli con cui programmava i suoi allenamenti.
Una leggenda indimenticabile
La storia degli sport individuali è spesso segnata dai limiti che si impone. Una prestazione ritenuta irreale, o il passaggio di un atleta ritenuto talmente più forte degli altri che non sarà mai possibile superarlo. Il salto con l’asta non trascende da questa regola, anzi l’eccezionalità del gesto rende se possibile ancora più forti queste credenze. Quei 6 metri, che prima di Serhij Bubka sembravano irraggiungibili da un essere umano, sono stati spazzati via dal saltatore ucraino. È stato lui, per decenni, il totem pagano impossibile da prevaricare. Poi una sera di febbraio del 2014, proprio a Donec’k, proprio nello stadio dove tredici anni prima si era ritirato Bubka, il francese Lavillenie ha osato superare i 6,15 metri. Serhij quella sera è lì, nella sua veste pluri-dirigenziale, a guardare infrangersi con un pizzico di malinconia il suo record del mondo.
È solo un antipasto prima dell’entrata in scena di quello che sarebbe diventato il nuovo dominatore della disciplina, quell’Armand Duplantis che ha ritoccato quattro volte in due anni il limite, portandolo alla misura netta di 6,20 metri nel marzo 2022. Ha solo ventitré anni, uno in meno di quelli che ne aveva Bubka quando saltò i 6 metri per la prima volta. «I limiti, come le paure, spesso sono solo illusioni» spiegava un vincente nato come Michael Jordan, la sera della sua introduzione nella Hall of Fame NBA; ma i personaggi che quei limiti li sorpassano senza indugio vedono il loro nome scolpito nella storia, e non verranno mai dimenticati. Lassù, nell’Olimpo dello sport, non può che esserci posto per Serhij Bubka.
Collaboratore del Tirreno e altri giornali locali, oltre a occuparsi quotidianamente dell'Empoli FC segue anche calcio e basket dilettantistico nei matchday. Da membro del gruppo di scrittori Storie di Premier è coautore di due libri: Box to Box e Villains of Premier League. Ha collaborato da giugno 2020 a dicembre 2021 con la redazione sportiva di East Journal.