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Nella notte tra il 12 e il 13 settembre, l’Azerbaigian ha lanciato una serie di attacchi missilistici e d’artiglieria contro 23 località in Armenia, descrivendoli come una risposta alle azioni di “sabotatori armeni” in territorio azero.
L’escalation è poi proseguita il 13 e il 14 settembre e si è conclusa solo nelle prime ore del 15, quando Erevan ha annunciato il raggiungimento di un accordo di cessate il fuoco “mediato dalla comunità internazionale”. Secondo i dati ufficiali, negli scontri sono morti almeno 135 soldati armeni e 77 militari azeri. Ci sono state anche 2 vittime civili armene, mentre 7mila persone in Armenia sono state evacuate dalle proprie case.
Si tratta dell’escalation più grave tra i due paesi dopo la cosiddetta guerra dei 44 giorni nel 2020 in Nagorno-Karabakh. Per la prima volta, gli scontri si sono concentrati sul confine internazionalmente riconosciuto tra Armenia ed Azerbaigian.
Da dove nasce la discordia tra Armenia e Azerbaigian? E perché l’escalation è avvenuta proprio in questi giorni?
Armenia e Azerbaigian, un secolo di tensione
Per provare a comprendere, seppur parzialmente, le attuali tensioni tra Armenia e Azerbaigian è necessario fare un salto indietro di un secolo, ai primi anni venti del Novecento, quando, dopo un breve periodo d’indipendenza, il Caucaso meridionale venne conquistato dal nascente impero sovietico.
Nella primavera del 1921, le autorità sovietiche assegnarono alla Repubblica Socialista Azera la regione contesa del Nagorno-Karabakh, nonostante la sua popolazione a maggioranza armena. All’Azerbaigian andò anche l’exclave del Nachicevan, abitata principalmente da azeri, ma separata dal resto della repubblica dal territorio dell’Armenia.
La prima guerra del Nagorno-Karabakh
Anche se le due parti non erano soddisfatte della divisione dei territori, il dominio sovietico congelò le tensioni territoriali tra Armenia e Azerbaigian per decenni. A cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta, esse tornarono però prepotentemente sulla scena.
A partire dal 1987, gli armeni si mobilitarono in massa per richiedere a Mosca l’unione del Nagorno-Karabakh all’Armenia. Seguirono anni di violenze e tensioni e, nel 1991, la popolazione armena nella regione autonoma si espresse a favore dell’indipendenza dall’Azerbaigian in un referendum boicottato dalla minoranza azera. Visto il rifiuto di Baku di accettare la secessione, la guerra era inevitabile.
Le forze armene ebbero la meglio: espulsero l’esercito azero dalla regione e occuparono parzialmente anche sette distretti azeri limitrofi al Nagorno-Karabakh, inclusa la striscia di terra che separa la regione dal resto dell’Armenia. La guerra si concluse nel 1994 con la firma dell’accordo di cessate il fuoco di Biškek.
Il conflitto fu una catastrofe, aggravata dalla precaria condizione economica in cui i contendenti versavano nei primi anni della loro indipendenza. Costò 30mila morti e costrinse centinaia di migliaia di persone ad abbandonare le proprie case: l’intera popolazione azera dell’Armenia e del Nagorno-Karabakh, inclusi i distretti limitrofi finiti sotto occupazione armena, fuggì in Azerbaigian che, nel frattempo, venne abbandonato dalla sua minoranza armena. Gli episodi di violenza contro i civili furono numerosi.
Seguirono trent’anni di quello che veniva impropriamente definito come un “conflitto congelato”, un termine usato e abusato in ambito giornalistico e accademico di cui gli eventi degli ultimi anni in Nagorno-Karabakh, e non solo, hanno definitivamente mostrato l’inadeguatezza.
La situazione sulla linea di contatto tra forze armene e azere era tutt’altro che congelata: periodicamente si sparava e morivano giovani soldati. Il Nagorno-Karabakh formalmente era uno stato indipendente, ma non riconosciuto da nessun paese membro dell’Onu, neanche dall’Armenia che ne garantiva la difesa e il sostentamento economico. Solo in tal modo la via dei negoziati poteva rimanere aperta.
I negoziati però non portarono a molti risultati. Il Gruppo di Minsk dell’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa, il meccanismo internazionale preposto a risolvere il conflitto, non riuscì a risolvere lo stallo. Se le parti concordarono sul alcuni principi di base – i cosiddetti principi di Madrid – quali il ritiro dell’esercito armeno dai distretti occupati limitrofi al Nagorno-Karabakh, il ritorno degli sfollati e lo svolgimento di un nuovo referendum per definire lo status futuro della regione a cui prendesse parte anche la popolazione azera, nella realtà poco si mosse.
Nel frattempo, Armenia e Azerbaigian si armavano e un’intera generazione cresceva nell’odio reciproco e nel ricordo delle violenze subite nel corso del conflitto degli anni Novanta. Baku, grazie alle entrate derivanti dalle sue risorse energetiche, costruì un esercito dotato delle armi più moderne, tra le quali i famosi droni turchi Bayraktar.
Nell’aprile 2016, ci fu una prima escalation, nota come guerra dei quattro giorni. Si sarebbe poi capito che erano solo le prove generali. Visto lo stallo nei negoziati, Baku si risolse a risolvere la questione del Nagorno-Karabakh con la forza.
La guerra dei 44 giorni
Il 27 settembre 2020, l’Azerbaigian lanciò un’offensiva che proseguì fino al 9 novembre. Nei 44 giorni di guerra, l’esercito azero ebbe la meglio sulle forze armene. Riuscì a riconquistare diversi distretti, tra i quali la città Shusha/Shushi,un luogo di particolare importanza strategica e simbolica per entrambi i contendenti.
Un giorno dopo la caduta della città, il 9 novembre 2020, le parti, con la mediazione russa, firmarono un accordo di cessate il fuoco, sostanzialmente una resa armena.
Per effetto del conflitto dei 44 giorni morirono più di 7mila persone da entrambe le parti, decine di migliaia di civili armeni rimasero sfollati e cambiarono gli equilibri di forza nella regione.
L’accordo di cessate il fuoco
In base ai nove punti dell’accordo di cessate il fuoco, l’Armenia si ritirò da una serie di aree limitrofe e da parte della regione del Nagorno-Karabakh così come definita in epoca sovietica. La popolazione armena di questi territori abbandonò le proprie case, in molti casi incendiandole per non lasciarle agli azeri.
Per comprendere le tensioni di questi giorni è bene sottolineare alcuni punti dell’accordo. In primo luogo, esso prevedeva il dislocamento di una forza di peacekeeper russa, con Mosca che sarebbe quindi dovuta diventare un attore fondamentale per evitare ulteriori escalation nella regione. Il Cremlino è anche formalmente impegnato nella difesa del territorio dell’Armenia (ma non del Nagorno-Karabakh), tramite l’Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva.
In secondo luogo, nell’accordo si parla della costruzione di una nuova strada tra Armenia e Nagorno-Karabakh visto che l’attuale strada passa dall’abitato di Shusha/Shushi, finito sotto il controllo azero. Infine, sono menzionati, in modo abbastanza generico, corridoi di trasporto tra Azerbaigian e Nachicevan.
9. Tutti i collegamenti economici e di trasporto della regione devono essere sbloccati. La Repubblica di Armenia garantisce la sicurezza dei collegamenti di trasporto tra le regioni occidentali della Repubblica dell’Azerbaigian e la Repubblica Autonoma del Nachicevan al fine di organizzare la libera circolazione di cittadini, veicoli e merci in entrambe le direzioni. Il controllo sulle comunicazioni di trasporto è esercitato dagli organismi del servizio di guardia di frontiera della Federazione russa.
Bisogna anche sottolineare che nell’accordo manca una qualsiasi menzione allo status futuro del Nagorno-Karabakh. Dalla nuova posizione di vantaggio guadagnata con la guerra, il presidente dell’Azerbaigian, Ilham Aliyev, non era più disposto a fare sconti.
I semi della discordia erano quindi già piantati nel testo dell’accordo e non hanno tardato a far crescere i propri frutti.
Nei primi mesi del 2021, ci furono una serie di schermaglie questa volta al confine internazionale tra Armenia e Azerbaigian. Con il ritiro delle forze armene dalle regioni limitrofe al Nagorno-Karabakh, c’era la necessità di demarcare la nuova frontiera tra i due paesi, ma i problemi non mancavano visto che in epoca sovietica non esistevano confini chiari. La mediazione di Mosca riuscì a calmare le acque per qualche mese, ma l’invasione russa dell’Ucraina fece presto a far sentire la sua influenza anche sul Caucaso meridionale.
Le prime avvisaglie si sono registrate in primavera, quando sono girate voci sul fatto che, viste le enormi perdite dall’esercito russo nell’attacco su Kyiv, parte dei peacekeeper russi dislocati in Nagorno-Karabakh fossero stati mandati al fronte ucraino, lasciando la regione sguarnita.
Ad agosto, un’altra escalation, legata ai ritardi nella costruzione della sezione armena della nuova strada tra Armenia e Nagorno-Karabakh.
Si è poi arrivati alla guerra del 13 e 14 settembre. Si può speculare sulla tempistiche di questo attacco: da una parte, dopo la disfatta di Charkiv, la Russia non sembra più così minacciosa, dall’altra le fonti energetiche azere sono diventate ancora più importanti per i paesi dell’Unione europea, visto il tentativo di liberarsi dalla dipendenza del gas russo. Non a caso, la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, durante una visita a Baku lo scorso agosto, ha definito l’Azerbaigian come un partner “degno di fiducia”. La delicata posizione di Bruxelles è stata rimarcata anche dal presidente turco e alleato azero, Recep Tayyip Erdoğan, che non ha mancato di sottolineare la dipendenza europea dal gas azero.
Quali sono gli obiettivi di questo attacco è abbastanza chiaro. Con ogni probabilità, l’intento di Baku è quello di pressare l’Armenia ad aprire un corridoio senza punti di controllo tra l’Azerbaigian, il Nachicevan e, conseguentemente, la Turchia, attraverso il territorio dell’Armenia meridionale.
Con tali premesse, altre escalation saranno inevitabili se non ci sarà un’azione di mediazione forte.
La visita a Erevan della Presidente della Camera dei rappresentanti americana Nancy Pelosi in questi giorni non può quindi che essere osservata positivamente. Rispetto ai tiepidi e generici inviti europei e russi – e anche americani, nel recente passato – al rispetto del cessate il fuoco, Pelosi ha esplicitamente condannato l’Azerbaigian per l’attacco sull’Armenia. Ha anche menzionato il genocidio armeno e la responsabilità collettiva a fare in modo che tali atrocità non si ripetano.
Se ad alcuni queste possono sembrare dichiarazioni eccessive, l’invasione dell’Ucraina ci ha insegnato che prevenire è meglio di curare. La guerra del 2020 ha risparmiato le regioni più popolate del Nagorno-Karabakh, dove vivono ancora circa 130mila armeni in un territorio senza uno status internazionale e circondato ormai dall’esercito azero. Se dovesse iniziare un altro conflitto, sarebbe difficile evitare nuove atrocità.
Non mancheranno sicuramente le analisi sulle implicazioni che la visita di Pelosi ha per la politica estera dell’Armenia e il tanto amato “grande gioco” delle potenze nel Caucaso meridionale. Il punto su cui focalizzarsi dovrebbe in realtà essere proprio la popolazione locale. Prese di posizioni decise da attori influenti, di qualsiasi provenienza, sono ben accette, se volte a prevenire ulteriori spargimenti di sangue.
L’uso della forza, ormai sdoganato, non può essere tollerato e normalizzato nella risoluzione delle controversie tra stati.
Nell’immagine di copertina: il confine fortificato tra Armenia e Nachicevan, proprio dove l’Azerbaigian vorrebbe aprire una nuova strada (Meridiano 13/Alessio Saburtalo).
Alessio Saburtalo è uno pseudonimo. L'autore che vi si cela si occupa principalmente di Caucaso con sporadici sconfinamenti in Russia e Asia Centrale. Saburtalo è un quartiere di Tbilisi.