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L’isola di Pag è una delle più grandi e più conosciute isole croate. Pochi però sanno che una delle insenature dell’isola nasconde le rovine di un campo di concentramento e sterminio, costruito nel 1941 dalle autorità del regime Ustaša. Il campo di Slana, in cui vennero imprigionati serbi, ebrei e comunisti croati, fu chiuso pochi mesi dopo la sua apertura con l’arrivo dell’esercito italiano. La sua storia, seppur breve, merita di essere raccontata: abbiamo deciso di parlarne con Tia Glavočić di Documenta, organizzazione non governativa di Zagabria che punta a costruire una narrazione sana del complesso passato dello spazio post-jugoslavo.
Il viaggio per arrivare al campo di Slana è lungo e faticoso: dopo aver attraversato i monti Velebiti ed essere giunti nella minuscola cittadina di Karlobag, occorre imbarcarsi verso l’isola di Pag e raggiungere una profonda insenatura protetta da due lunghi lembi di terra. In una baia all’apparenza deserta, nascosta, invisibile dalla terraferma, sorgeva Slana, uno dei campi di concentramento e sterminio costruiti dallo Stato Indipendente Croato (Nezavisna Država Hrvatska, abbreviato in NDH), stato fantocccio istitutito nell’aprile del 1941 sotto il controllo delle potenze dell’Asse durante la Seconda guerra mondiale.
Il primo campo di sterminio in territorio croato
Gli arresti di ebrei, serbi e comunisti croati iniziarono immediatamente dopo l’istituzione dello Stato Indipendente Croato. A seguito delle deportazioni, i primi campi di concentramento vennero costruiti. Come Tia Glavočić racconta:
Slana fu il primo campo di sterminio dello Stato Indipendente di Croazia, costruito nel giugno del 1941. Il primo campo di concentramento fu costruito il 15 aprile del 1941, cinque giorni dopo la nascita dell’NDH, ma non si trattava di un campo di sterminio.
Il campo di Slana faceva parte di un più ampio sistema di campi, il cui quartier generale si trovava nella città di Gospić, che comprendeva una serie di strutture situate sui monti Velebiti e sull’isola di Pag. Quest’ultima, nascosta e remota, serviva per lo più come luogo di sterminio. Le condizioni del terreno pietroso e desolato, direttamente esposto alla bora che soffia dalle montagne, senza acqua potabile e vegetazione, non potevano consentire alcun tipo di vita normale. I prigionieri che arrivavano sul campo di Slana vivevano, com’è facile dedurre, in condizioni inimmaginabili:
Nel campo c’era un edificio costruito per gli ufficiali del regime Ustaša, ma non c’erano edifici destinati agli internati. Questa è una cosa abbastanza rara: normalmente nei campi c’erano quantomeno delle baracche di legno. Nel caso di Slana, i prigionieri erano costretti a rimanere all’aperto, eccezion fatta per alcune tettoie di legno che si possono vedere in alcune vecchie fotografie.
La vita del campo di Slana fu molto breve: nemmeno due mesi dopo la sua apertura, venne chiuso dalle autorità Ustaša, dopo che alcuni territori dello Stato Indipendente Croato vennero trasferiti sotto il controllo dell’esercito italiano nell’agosto del 1941. Non appena si sparse la voce che le truppe italiane sarebbero arrivate sull’isola di Pag, le autorità croate decisero di distruggere il campo e cancellarne le tracce. La decisione si tradusse nell’uccisione di massa di tutti gli internati. È difficile, però, stabilire quante persone siano state deportate sull’isola di Pag.
Il regime Ustaša non ha prodotto molti documenti ufficiali, erano più confusionari e disorganizzati, per esempio, dei gerarchi nazisti. Inoltre, dopo aver lasciato l’isola, hanno distrutto tutti i documenti che avevano prodotto. Per questo motivo è molto difficile stabilire quante persone sono state internate nel campo di Slana. Quello che sappiamo è che c’erano due diverse sezioni nel campo, una dedicata agli ebrei e una dedicata ai serbi, ai quali era destinato un trattamento peggiore.
Ancora più difficile è cercare di stabilire il numero delle vittime che, secondo alcune ricostruzioni, potrebbero essere state circa seimila:
I testimoni più affidabili dell’esistenza del campo di Slana sono le persone che vivevano sulla costa croata e possedevano delle imbarcazioni, e che erano obbligati a trasportare le persone da Karlobag all’isola di Pag. Queste testimonianze sono ora raccolte negli archivi ufficiali, ed è contando il numero di viaggi in barca che si è arrivati a stimare il numero delle vittime.
Il problema della memorializzazione del campo di Slana
Per quanto le atrocità commesse a Slana nei due mesi in cui il campo è stato operativo siano evidenti, tenere vivo il ricordo delle vittime e dei prigionieri del campo è più complesso di quel che dovrebbe essere. Se non fosse per le attività portate aventi da associazioni come Documenta o dal Consiglio Nazionale Serbo (organo politico che rappresenta i serbi di Croazia), la storia del campo sarebbe probabilmente andata persa. A questo proposito, Tia Glavočić racconta:
Nessuno degli abitanti di Pag, oggi, vuole parlare di quello che è successo sull’isola e si comportano tutti come se nulla fosse mai successo. Questa è un cosa un po’ strana perché durante la Seconda guerra mondiale la Resistenza era molto attiva a Pag. Ma questo aspetto della storia dell’isola sembra essere stato dimenticato.
Nel corso degli anni, Documenta e il Consiglio Nazionale Serbo hanno provato a fare in modo che la storia del campo fosse conosciuta e rispettata. Non sono mai riusciti a essere ascoltati dalle istituzioni, con la cui indifferenza si sono scontrati:
Per tre volte abbiamo provato a installare una targa commemorativa dove sorgeva il campo, ma adesso quel che è visibile è solo il luogo in cui la targa era stata posizionata. Infatti, ogni volta che la placca veniva installata, qualcuno la distruggeva. L’ultima volta è stata distrutta nel giro di un giorno. Non abbiamo idea di come qualcuno potesse esser venuto a conoscenza della targa, dal momento che non abbiamo reso nota la notizia in nessun modo. Recentemente, siamo giunti alla conclusione che fosse meglio non metterne una targa nuova, perché eravamo certi che sarebbe stata distrutta di nuovo. Il Consiglio Nazionale Serbo ha provato a parlare con le autorità locali, ma il governo locale ha deciso di non collaborare.
Questo episodio risulta ancora più grave se si prende in considerazione il fatto che, se da un lato la memorializzazione del campo di Slana viene ostacolata, la presenza di monumenti dedicati a chi si è reso complice del massacro di Slana sembra passare inosservata:
Il luogo in cui il campo di Slana fu costruito venne scelto da alcuni ufficiali Ustaša, che si fecero aiutare da un prete cattolico locale, Josip Felicinović, che suggerì l’esatta posizione e assicurò gli ufficiali del regime che nessuno avrebbe potuto scoprire il campo se l’avessero costruito in quell’insenatura. L’aspetto interessante è che Felicinović ha un monumento a lui dedicato proprio nella città di Pag.
Va inoltre preso in considerazione che il campo di Slana non è un unicum: la sua storia è simile a quella di quasi tutti gli altri campi di concentramento costruiti dallo Stato Indipendente Croato, in cui non sono presenti memoriali. Fa eccezione il più noto campo di Jasenovac che, sebbene sia spesso al centro di polemiche che coinvolgono le autorità serbe e quelle croate alternativamente, è riconosciuto come campo di concentramento e ricordato come tale.
Il campo di Slana è dunque un simbolo di un processo di revisionismo storico molto più ampio, che deriva dall’incapacità dello stato croato, divenuto indipendente dopo la dissoluzione della Jugoslavia, di confrontarsi in modo razionale con il proprio passato, promuovendo così un processo di riconciliazione duraturo e sostenibile:
Quando affronto il problema della memorializzazione in Croazia, uso spesso l’esempio di Slana, perché penso che rappresenti bene la situazione in generale. Penso che installare una targa in un luogo simile sia una questione di rispetto molto basilare, eppure non siamo riusciti nemmeno a compiere questo gesto simbolico. Inoltre, dal momento che molte persone sostengono che il campo non sia mai esistito, mettere una targa potrebbe portare a essere accusati di distorcere la realtà dei fatti. Questo avviene nonostante le prove dell’esistenza del campo arrivino non solo dalle testimonianze, ma anche dalle fotografie scattate dalle autorità fasciste quando arrivarono sul posto.
Laureata in Studi Interdisciplinari e Ricerca sull’Europa Orientale, ha vissuto un po’ ovunque nei Balcani occidentali. Si interessa di tutto quello che è successo e succede al di là del muro di Berlino. Lentamente, sta imparando il serbo-croato.