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Un viaggio in auto dal meridione al settentrione del paese che fu, raccontato attraverso i suoi monumenti – i celeberrimi spomenici (plurale di spomenik, letteralmente “monumento” in serbo-croato).
Le vacanze estive sono trascorse o stanno volgendo al termine più o meno per tutti e noi, irriducibili di ciò che sta al di là del meridiano 13, ovviamente, non potevamo certo lasciarci sfuggire l’ennesima occasione per esplorare qualche altro angolo sperduto di Europa dell’est.
Il viaggio che vado a descrivere tappa per tappa in verità si pone a metà tra il dovere e il piacere, essendo stato di recente costretto a intraprendere un roadtrip che mi ha visto attraversare, da sud a nord, l’intera ex Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia, dalla Macedonia del Nord fino alla Slovenia.
L’occasione è stata ghiotta per fermarsi qua e là lungo il tragitto, dilatando le tempistiche di viaggio e scegliendo le strade più lente, laddove possibile, lontane dal turismo d’assalto, dall’afa estiva e dal chiacchiericcio stridulo delle mete più convenzionali. Il leitmotiv del mio peregrinaggio, ancora una volta, sono loro: gli spomenici, questi colossi di cemento e ferro a presidio della memoria di un paese che non esiste più.
Se da Skopje si segue in direzione nord verso Niš, dopo due ore scarse di auto ci si trova all’altezza di Vlasotince, in Serbia. La cittadina, oltre che vantare delle invidiabili spiaggette sulle insenature del fiume Vlasina, che costituiscono il naturale refrigerio urbano alle calure estive, ospita uno spomenik di Bogdan Bogdanović presso lo staro groblje, il vecchio cimitero cittadino.
Il sito commemorativo sorge su un’altura accanto a un cimitero preesistente, come testimoniano le numerose lapidi sbilenche che ne puntellano il prato. Inoltrandosi verso il corpo centrale del memoriale, edificato a eterno ricordo delle innumerevoli vittime locali della guerra di liberazione nazionale contro le forze dell’Asse, ci si imbatte in svariate rocce dalla forma frastagliata, incise da motivi floreali in stile neolitico che ben si abbinano alle pietre tombali precedenti.
La passione di Bogdanović per l’arte funeraria neolitica non è certo un segreto. Molte delle sue opere sono cosparse di incisioni che si ispirano al complesso funerario di Newgrange, in Irlanda, portato alla luce dagli archeologi proprio in quegli anni e oggetto di un saggio firmato da Bogdanović stesso.
All’improvviso le pietre si aprono per fare spazio a un anfiteatro in pietra incavato, con l’erba a fare capolino qua e là tra le pietre a formare una peculiare sorta di land art. Sopra ad esso svetta imponente il corpo principale del memoriale: un monolite alto 12 metri di forma rettangolare, mancante di una sezione semicircolare alla sua estremità superiore.
È il nome stesso del monolite a fornirci un suggerimento sulla possibile interpretazione del suo significato: “Guardiano della rivoluzione”. Stando a una diffusa interpretazione, il monolite potrebbe simboleggiare una rappresentazione stilizzata di Atlante nello sforzo sovrumano di sorreggere l’intera volta celeste – lo spazio vuoto semicircolare – analogalmente all’eroico partigiano sulle cui spalle fu edificata la Jugoslavia socialista.
La dea della vittoria di Leskovac
A venti chilometri scarsi da Vlasotince sorge la cittadina di Leskovac, dove si può ammirare un’altra opera di Bogdanović. Si tratta di un parco memoriale antecedente al Guardiano della rivoluzione, ma si possono chiaramente individuare dei tratti che, sebbene declinati in modi diversi, accomunano i due siti. Mi riferisco alla presenza di un anfiteatro incavato al di sopra del quale torreggia un monolite di pietra, il tutto preceduto da due raggruppamenti di rocce incise con motivi neolitici di altezze differenti.
Le 34 pietre si distinguono l’una dall’altra dal tipo di motivo scolpito: si possono distinguere stelle, volatili e mammiferi, ma un elemento abbastanza ricorrente è la spirale. Tale simbolo sicuramente rimanda, ancora una volta, all’arte neolitica, ma ha anche una connessione tutta locale: nell’ex-Jugoslavia sono numerosi i siti archeologici medievali che hanno tramandato fino ai giorni nostri gli stećci, delle pietre tombali incise con vari motivi, anche antropomorfi, in ricordo del defunto.
L’architetto di Belgrado, introducendo questi elementi all’interno del sito, pone così il passato e il presente in contatto, ricorrendo a un simbolo – la spirale – altamente evocativo: si tratta della raffigurazione che simboleggia il ciclo della vita. Una delle pietre, non a caso, reca la scritta
Non siamo morti, ma dormiamo, la pietra e i nostri occhi osservano
Altre pietre riportano i nomi di 17 eroi nazionali provenienti da Leskovac caduti nel corso del conflitto.
Ma veniamo al pezzo forte, la “Dea della vittoria”, o “Dea della foresta”, come inizialmente chiamata da Bogdanović. Si tratta di un monumento di forma conica, costruito da sottili liste di pietra che si innalzano sempre più verticalmente fino a creare una struttura che ricorda un vaso dalla base larga e il collo stretto.
Secondo un’interpretazione comune, si tratterebbe di una rappresentazione astratta della dea Nike, personificazione della vittoria raffigurata sotto le sembianze di una donna alata. In tal senso, l’ornamento sommitale bronzeo, costituito da due coppie simmetriche di riccioli, starebbe a simboleggiare le ali della dea della vittoria, acclamata dai caduti ai suoi piedi – un migliaio da tutto il circondario – nel silenzio eterno della pietra.
I pugni di Bubanj
Proseguendo verso nord di appena una quarantina di chilometri si arriva a Niš, una città che, rappresentando il conglomerato urbano principale di tutto il circondario, soffrirà tremendamente l’occupazione nazifascista, come testimoniano le innumerevoli stragi compiute entro e fuori dai suoi confini.
Il 12 febbraio 1942, per esempio, al campo di concentramento cittadino 105 detenuti, guidati dal capo partigiano Branko Bjegović, portano a termine una delle prime evasioni di massa mai riuscite nell’Europa occupata, lasciandosi dietro 11 tedeschi morti. Nel 1987 Stamenković ne farà un film, Lager Niš.
La rappresaglia è però immediata, sistematica, brutale. Piccoli gruppi di carcerati iniziano a essere prelevati ogni notte e portati a Bubanj, una piccola collina a sud della città. Ai carcerati vengono fatte scavare le fosse che ospiteranno i loro stessi cadaveri a seguito della fucilazione. Questa pratica proseguirà per tutta la guerra fino alla liberazione della città, avvenuta il 14 ottobre del 1944.
Le stime parlano di più di 10mila vittime assassinate in questa località nel corso della guerra. I numeri sono incerti perché prima della ritirata i nazisti dissotterrarono centinaia di resti umani nel disperato tentativo di celare al mondo la loro barbarie.
Stando a quanto si racconta, un detenuto sul punto di essere fucilato alzò il pugno serrato al cielo prima di cadere sotto i colpi del plotone d’esecuzione, in un estremo gesto di ribellione e sfida nei confronti dei suoi aguzzini.
Da questo aneddoto pare trasse ispirazione Ivan Sabolić per il design dello spomenik di Bubanj: tre pugni chiusi che si innalzano verso il cielo, sorgendo dai resti delle vittime che ancora riposano al di sotto del tessuto erboso della collina. Tre, come i tre gruppi etnici maggiormente colpiti dalla violenza degli occupatori: serbi, ebrei, rom. Oppure, secondo un’altra interpretazione, come gli uomini, le donne e i bambini che perirono indiscriminatamente sotto la follia nazifascista.
Dal sangue dei comunisti e dei patrioti sono nati i pugni: pugni di ribellione e di monito, pugni di rivoluzione, pugni di libertà. Siamo stati colpiti, ma non siamo mai morti e non ci siamo mai sottomessi. Abbiamo sconfitto le tenebre e aperto la strada verso il sole
Incisione di un verso del poeta di Niš Ivan Vučković posta su una parete a nord-est rispetto al complesso memoriale
Il santuario della libertà di Kruševac
Il contachilometri segna 75 chilometri macinati dalla città di Niš ed eccoci arrivare a Kruševac, altra meta tristemente nota per la presenza di un campo di concentramento nazista nel periodo dell’occupazione.
A seguito della direttiva del feldmaresciallo Wilhelm Keitel, che fissava la proporzione della rappresaglia nazista sulla popolazione civile in cento vite per ogni soldato tedesco ucciso, centinaia di esponenti di spicco della città di Kruševac vennero preventivamente rastrellati e rinchiusi in una struttura limitrofa alla collina di Bagdala, a un chilometro circa dal centro cittadino, dove furono perpetrate le esecuzioni.
Si stima che circa 1.650 partigiani e civili trovarono la morte in questo sito, con il picco di esecuzioni giornaliere raggiunto il 29 giugno 1943, quando 324 civili furono giustiziati in un sol giorno. Il generale delle SS August Meyszner, mandante delle esecuzioni, venne catturato dalle forze alleate e condannato a morte a Belgrado nel dicembre del 1946.
Il complesso memoriale Slobodište – combinazione delle parole “sloboda”, libertà, e “svetilište”, santuario – con i suoi 13.5 ettari rappresenta uno dei parchi di questo genere più vasti che abbia mai visitato, frutto di una stratificazione di elementi originali e aggiunte postume, modifiche e ampliamenti.
Il percorso commemorativo inizia con l’edificio Dom slobodišta, aggiunto solo nel 1978 e oggi ospitante un piccolo museo che spiega ai visitatori la storia del campo di concentramento e dei suoi internati. Attorno alla struttura si possono ammirare delle sculture di Bogdanović che richiamano espressamente ad altri complessi memoriali dello stesso autore (Novi Travnik e Bihać, in Bosnia).
Seguendo il sentiero si raggiunge la “Valle del rispetto”, dove sono presenti due tumuli circolari tra loro simmetrici che contengono i resti delle vittime e sulla cui sommità originariamente ardevano due fiamme eterne.
I tumuli coperti dal manto erboso, ancora una volta, sono un riferimento all’arte funeraria neolitica e insieme all’intero complesso memoriale, i cui rilievi furono modellati su indicazione di Bogdanović stesso – che ricorse ai macchinari di un locale stabilimento di scavatrici – fanno dell’architetto di Belgrado uno dei pionieri e precursori indiscussi della land art, sviluppatasi oltreoceano solo a partire dalla fine degli anni Sessanta.
Al centro dei due tumuli una piazzetta acciottolata conduce alla “Porta della morte” o “Arco solare”, un passaggio di pietra semicircolare con l’apertura rivolta verso l’alto a formare un omega invertito. L’omega non è affatto casuale, poiché viene tradizionalmente associato all’idea di fine e di inizio di un nuovo ciclo. Infatti questo portale ci conduce alla “Valle dei viventi”, anche nota come “Valle della memoria”, ponendo in diretto contatto il regno dei vivi con il regno dei morti (una dicotomia, come avremo modo di vedere anche in seguito, ben presente nei lavori di Bogdanović).
Si percorre quindi uno stretto corridoio acciottolato posto tra due pendii erbosi, fino a quando la vista si apre su un ampio spazio circolare, anch’esso delimitato da clivi verdeggianti. Qui emergono in ordine sparso dodici sculture alate di massimo due metri, ciascuna decorata con incisioni differenti. L’architetto rimanderebbe qui alla civiltà minoica, che usava adornare i propri edifici con le corna del bue sacrificale in segno di sacralità.
Risalendo il pendio e seguendo il sentiero, che gira attorno alla valle, si può infine giungere in un ampio anfiteatro sommerso dall’erba, vicino al quale fu progettata una piccola sala espositiva sotto il livello del suolo, oggi in disuso.
Lo spomenik di Popina
Bastano 37 chilometri seguendo la E-761 per raggiungere un altro spomenik iconico di Bogdanović: il parco memoriale di Popina.
Il 13 ottobre 1941 la 717ima divisione di fanteria tedesca, forte di un migliaio di effettivi, sta risalendo la valle del fiume Morava, nella Serbia occidentale. La manovra fa parte di quella che è passata alla storia come la prima delle “sette offensive nemiche” volte a sradicare il movimento di resistenza partigiano dai territori occupati.
Vicino al villaggio di Štulac, lungo le pendici della collina Nebrak, si scontrano con i combattenti posti a pattuglia della repubblica di Užice, il primo territorio d’Europa liberato dal giogo nazifascista. Con meno di un terzo degli effettivi rispetto ai nazisti e peggio equipaggiati, i partigiani oppongono una fiera resistenza, ingaggiandoli per più di quattro ore prima di ritirarsi. La battaglia di Popina è considerata il primo scontro frontale tra i partigiani di Tito e le truppe occupanti.
Il memoriale di Popina sorge sulla collina che si macchiò del sangue dei suoi difensori. Il suo stile è astratto: lo spomenik è costituito da tre monoliti di pietra, due di nove metri di altezza e uno triangolare di venti, posto tra i primi. Al centro di ciascuno dei tre si apre uno spazio cilindrico, che genera prospettive sempre differenti.
La più interessante la si può ottenere all’estremo meridionale del complesso, sopra una collinetta appositamente predisposta per permettere un allineamento visivo perfetto dei tre cilindri. Si viene così a generare un singolare effetto tunnel, probabile richiamo al passaggio dalla vita alla morte. In questo senso, il monolite triangolare posto al centro del parco potrebbe rappresentare un prisma, attraversando il quale si muterebbe forma e si passerebbe ad altre dimensioni.
Il mausoleo allineato con gli astri
Altri 65 chilometri, altra maestria di Bogdanović. Siamo a Čačak, a tutti gli effetti all’interno della Repubblica di Užice menzionata poc’anzi. Il parco memoriale commemora gli oltre 4.600 partigiani caduti nei dintorni nel corso della guerra di liberazione nazionale.
Il sito presenta numerose peculiarità, anche per gli standard di Bogdanović. Il corpo centrale del complesso è rappresentato da tre edifici alti 12 metri, posti uno accanto all’altro, che ricordano nella forma l’architettura minoica o un tempio. Ciascuno di essi dispone di due entrate che corrono lungo la stessa asse, percorsa da un sentiero acciottolato che dalla base della collina, dove riposano i civili e i partigiani caduti di Čačak, conduce allo spomenik posto alle pendici del monte Jelica.
I tre edifici coperti sono ornati dentro e fuori dall’inverosimile numero di 620 teste di figure mitologiche scolpite nel granito. Oltrepassare la soglia significa entrare in un mondo di tenebre, popolato da mostri ancestrali. Ma tra le tenebre si continua a scorgere il paesaggio circostante, e seguendo la luce si può riuscire ad attraversare anche la più buia delle notti.
Giocando ancora una volta con lo spazio fisico a disposizione, l’architetto conduce il visitatore attraverso gli orrori della guerra, verso la luce. Senza tutti quei riferimenti ideologici tipici del realismo socialista, senza scadere nel morboso, senza rievocare dolori e violenze passate, Bogdanović è in grado di far immedesimare sensorialmente il visitatore nella sofferenza di quegli anni, alla quale c’è però sempre una via d’uscita.
L’aspetto che più colpisce – e che non può certo essere casuale – è però l’orientamento del complesso. Tutte e sei le aperture sono infatti allineate in modo da accogliere al loro interno i primi raggi del solstizio d’inverno e l’ultima luce del solstizio d’estate. Diversi monumenti preistorici, soprattutto con funzioni funerarie, sfruttarono lo stesso allineamento per favorire l’ingresso della luce in questi specifici momenti dell’anno e facilitare in questo modo il viaggio dei defunti verso l’aldilà.
Con ogni probabilità l’architetto, attraverso questo espediente millenario, ha voluto augurare alle anime dei caduti pace eterna.
Il monumento al coraggio di Ostra
Combattendo contro 500 soldati ostili, con 14 morti e 11 sopravvissuti i partigiani confermarono la storia della Serbia, che mai una volta accettò la schiavitù. (…) durante la guerra di liberazione del 1941-1945, il Distaccamento partigiano di Čačak stava morendo ma è rinato, e testimonia che la libertà può perdere alcune battaglie, ma non perderà mai la guerra
Inscrizione incisa all’ingresso del memoriale a firma del poeta di origini serbe Slavko Vukosavljević
Il 4 marzo 1943 un’unità del distaccamento partigiano di Čačak spese la notte presso il villaggio di Ostra, a soli 18 chilometri di distanza. Traditi da un collaborazionista, subiranno un’imboscata da parte di truppe cetniche e quattordici di loro troveranno così la morte.
Oltre ad una guerra di liberazione combattuta contro invasori esterni, il movimento di liberazione nazionale dovette combattere anche una guerra civile contro i collaboratori interni, dagli ustascia di Ante Pavelić ai cetnici di Draža Mihailović. Questi ultimi, inizialmente alleati dei partigiani di Tito e foraggiati dagli Alleati, ben presto sposarono una politica di aperta collaborazione con l’occupante in chiave anti-comunista.
È proprio attraverso questa chiave di lettura che è possibile comprendere come il comandante cetnico Predrag Raković, responsabile dell’imboscata di Ostra appena menzionata, nel 1941 facesse parte proprio dello stesso distaccamento partigiano di Čačak che nel 1943 finirà nel mirino dei suoi uomini.
Lo spomenik, snaturato da un’adiacente chiesa ortodossa di recente costruzione, si slancia obliquamente con vettori tangenti tra loro verso il cielo di Ostra. In mezzo ad essi prendono forma pugni e volti stilizzati, taglienti, contratti nello sforzo sovrumano di combattere un nemico soverchiante, apparentemente invincibile. L’alluminio che ne ricopre la superficie, riflettendo la luce circostante, sembra far brillare il monumento di luce propria.
Il fiore di Jasenovac
Uno dei primi spomenici che abbia visitato, il primo di cui abbia mai sentito parlare, uno dei miei preferiti in assoluto: Kameni Cvijet, il “fiore di cemento”, uno dei monumenti più noti di Bogdanović.
Con il fiore di Jasenovac ci lasciamo alle spalle la Serbia per inoltrarci nella Repubblica croata, nel luogo prescelto dallo Stato Indipendente di Croazia – il regime collaborazionista instaurato dalle forze dell’Asse – per la costruzione di uno dei campi di concentramento e sterminio più letali d’Europa, interamente gestito dagli ustaša di Ante Pavelić.
Entro e fuori dai suoi reticolati, da una parte e dall’altra del fiume Sava, migliaia di persone (i numeri, ancora imprecisi e oggetto di aspre polemiche, variano dalle decine alle centinaia di migliaia) vennero imprigionate, torturate e barbaramente uccise con talmente tanto accanimento e sadica metodicità da venire indicato quale esempio “virtuoso” presso le massime cariche del regime nazista.
A far risultare particolarmente delicato il lavoro di Bogdanović vi era la composizione etnica delle vittime (in larga parte serbe) e dei carnefici (gli ustaša croati), che rendevano qualsivoglia commemorazione e monumento pubblici problematici e potenzialmente esplosivi per la Jugoslavia di allora, fondata sullo slogan bratstvo i jedinstvo, “fratellanza e unità”.
L’architetto di Belgrado ricercò quindi un simbolo neutro, che non rimandasse con il pensiero agli orrori della guerra ma che allo stesso tempo richiamasse al perdono, alla riconciliazione, alla rinascita: cosa meglio di un fiore di loto, che affonda le sue radici nel buio passato, nella morte, ma che apre i suoi petali ad un sole raggiante?
L’olmo della foresta di Brezovica
Restiamo in Croazia e riprendiamo la E70, per abbandonarla all’altezza del villaggio di Potok. Direzione: Sisak. Dopo dieci minuti di viaggio raggiungiamo il piccolo villaggio di Novo Selo. Qui prendiamo la destra e seguendo una strada bianca ci inoltriamo all’interno della foresta di Brezovica. Man mano che si attraversa la vegetazione, sempre più fitta, cresce l’attesa per lo spomenik. Si tratta di un avvicinamento lento, graduale, nel ventre della foresta. Finché finalmente ecco stagliarsi di fronte a noi, ai piedi del bianco viale di accesso, alto e imponente, un albero stilizzato di cemento armato.
Approcciandosi al memoriale il monolite si staglia in maniera scenica, ponendosi al centro di un gioco prospettico che vede in basso i bordi del viale d’accesso convergere sullo spomenik, mentre dall’alto le fronde degli alberi ai lati dello stesso ricreano il medesimo effetto. Lo sguardo del visitatore, che non può che giungere da quell’unico accesso, viene così accompagnato in maniera gentile ma ferma a posarsi sullo spomenik, senza possibilità di fuga.
Avvicinandosi al memoriale in realtà ci si accorge che, in prossimità dello stesso, la vegetazione si allarga a formare un’ampia radura, all’interno della quale erano posti numerosi altri elementi artistici e commemorativi.
Purtroppo gran parte di questi sono stati vandalizzati e distrutti nel corso degli anni Novanta, quando in Croazia si verificò una vera e propria furia iconoclasta volta a eradicare i simboli del passato comune socialista e jugoslavo dallo spazio pubblico. Fu in questo contesto che i 12 pugni bronzei presenti all’interno del monolite, in una sezione circolare accessibile da tre scalinate poste alla base del piedistallo, vennero rubati.
Lo spomenik è un chiaro riferimento alla leggendaria formazione del primo distaccamento partigiano di Sisak, avvenuto il 22 giugno 1941 all’ombra di un olmo centenario della foresta di Brezovica. Il distaccamento di Sisak è comunemente considerato la prima unità di resistenza armata formatasi nell’Europa occupata, e il 22 giugno marca ancora oggi la Giornata nazionale della lotta antifascista nella Repubblica di Croazia.
Le ali della vittoria di Podgarić
Di nuovo in auto ripercorriamo la strada fatta in precedenza, ma invece di riprendere l’autostrada puntiamo su Popovača, per poi inerpicarci lungo un tortuoso passo montano che attraversa i villaggi di Podbrđe e Gornja Jelenska fino a raggiungere il nostro obiettivo: Podgarić.
Qui sono sepolti più di 900 soldati provenienti dall’area della Moslavina, che hanno sacrificato la loro vita per la libertà e l’indipendenza del nostro popolo durante la lotta di liberazione nazionale dal 1941 al 1945
Targa commemorativa in bronzo posta sul camminamento verso il monumento
L’elemento principale dello spomenik di Podgarić è costituito da una struttura astratta in cemento armato alta dieci metri e larga il doppio, posta sulla sommità di un’altura dalla quale domina incontrastato il paesaggio circostante.
Le “Ali della vittoria”, così come descritte dallo scultore macedone Dušan Džamonja, simboleggiano il trionfo della Rivoluzione sugli occupatori, traendo significativamente le proprie energie dai circa novecento partigiani caduti per la liberazione dal giogo nazifascista che riposano in una serie di cripte ai piedi del monumento.
L’asimmetria della struttura è generata dal diverso numero di elementi orizzontali che costituiscono le braccia del monumento – rispettivamente due e tre. Il centro della struttura, su ambo i lati, è composto da una serie concentrica di pannelli in alluminio dalle forme differenti, via via più piccoli man mano che si avvicinano al loro nucleo.
L’insurrezione della Moslavina al terrore ustaša assurge un’importanza tutta particolare, in quanto rappresentò il primo movimento di insurrezione armata contro le forze dell’Asse a seguito dell’invasione della Jugoslavia, avvenuta appena due mesi prima, nell’aprile del 1941.
In breve tempo il villaggio di Podgarić, grazie anche alla naturale asperità del circondario e alla conseguente difficoltà nel raggiungerlo, divenne uno dei centri partigiani più importanti della Croazia, dotato di diversi complessi ospedalieri e fornito di strutture di supporto, tra le quali si annoverano teatri, scuole e servizi di prima necessità.
Il monumento ai caduti di Mirna
Riprendiamo la E70 in direzione Zagabria e, superata questa, ci lasciamo alle spalle anche la Repubblica di Croazia. Una volta in Slovenia – dopo aver acquistato la celeberrima vignetta – seguiamo la A2 e poco prima di Trebnje prendiamo l’uscita alla volta di Mirna.
Tutta quest’area durante la Seconda guerra mondiale venne annessa direttamente al Regno d’Italia, con conseguente italianizzazione forzata dei nomi, delle strade, dei toponimi. Alla stragrande maggioranza dei cittadini a tutti gli effetti sloveni di punto in bianco non fu più consentito parlare lo sloveno in pubblico, con pene fino alla fucilazione.
Emblematica la storia di Lojze Bratuž, italianizzato in Luigi Bertossi, al quale in seguito ad un brutale pestaggio fu fatta trangugiare dagli squadristi italiani una miscela di olio di ricino e olio motore per aver osato insegnare ai suoi alunni canti religiosi in lingua slovena.
Violenze di questo genere spinsero molti ad imbracciare le armi, andando ad ingrossare le fila del movimento partigiano. Movimento che, a costo di innumerevoli vite umane, sconfisse prima i fascisti italiani e poi i nazisti, liberando definitivamente Mirna nel febbraio del 1945.
Nella collina di Roja in città oggi sorge un triplo obelisco in cemento armato alto 11 metri, che sostiene una sfera di acciaio inossidabile. Le pareti esterne dello spomenik sono solcate da motivi geometrici, mentre la base di ciascuna delle tre componenti risulta più stretta rispetto al resto della struttura. Questo espediente crea al contempo un’impressione di leggerezza e fragilità, nonché un ampio spazio vuoto alla sua base, esattamente al di sotto della sfera metallica. La sfera amplifica questa sensazione di leggerezza complessiva poiché sembra sospesa nello spazio vuoto tra il cemento, piuttosto che sorretta da esso.
A pochi metri di distanza una cripta esagonale ospita i resti dei 106 combattenti della regione caduti nella lotta contro il nazifascismo. Sui suoi lati sono riportati i versi di una famosa canzone partigiana in lingua slovena, padlim tovarišem: compagni caduti.
La liberazione di Žužemberk
L’ultima tappa prima di rientrare in Italia ci conduce a una ventina di chilometri in direzione sud-ovest, nella piccola cittadina di Žužemberk. Sulla collina Cvibelj il villaggio ospita il più grande ossario partigiano della Slovenia, a pochi minuti di cammino dal vicino castello. In una cripta adiacente allo spomenik sono interrati i resti di circa mille partigiani sloveni che combatterono per la liberazione della città nell’intera regione della Suha Krajina.
Elementi in comune con il monumento di Mirna mi fanno pensare che il ricorso ad alcuni motivi geometrici non sia poi una casualità o un fattore puramente estetico. La cripta, per esempio, anche in questo caso assume una forma esagonale. L’unica spiegazione che so darmi è che 6 sono anche le repubbliche socialiste che, dopo la Seconda guerra mondiale, andarono a comporre la federazione jugoslava: un lato dell’esagono per ciascuna repubblica. Potrebbe quindi essere un riferimento all’apporto di sangue comunemente versato da parte di tutti i popoli costituenti nella guerra di liberazione nazionale per la costituzione di quella nuova realtà statuale.
In effetti, leggendo i nomi dei 1.134 caduti riportati nella serie di dieci pannelli in pietra posti sul lato meridionale del complesso commemorativo, si possono trovare partigiani provenienti da tutta l’ex Jugoslavia.
A riprova di quanto si trattasse di un conflitto internazionale contro la barbarie nazifascista, tra le nazionalità dei caduti per la liberazione di Žužemberk si annoverano anche italiani, cechi, kazachi, lituani, ungheresi, polacchi, russi e ucraini. Altri 913 nomi non sono ancora stati inscritti e 123 combattenti restano, ad oggi, non identificati.
Altro elemento in comune con Mirna è la parte centrale dello spomenik, un obelisco alto dieci metri che riposa su una triplice base e che, dopo essersi fuso in un blocco unico al centro, slancia altrettante braccia verso il cielo.
Nonostante la notevole differenza estetica con il suo simile, resta inalterato il ricorso a un materiale riflettente – metallo lucido nel primo caso, alluminio nel secondo – e il richiamo al numero tre. Mentre la scelta dell’alluminio, tipica di molti spomenici, sarebbe motivata dalla contrapposizione tra la luminosità del sacrificio dei partigiani e l’oscurità dell’occupazione nazifascista nella quale era piombata tutta l’Europa degli anni Quaranta, il numero tre potrebbe essere un riferimento alle tre confessioni religiose prevalenti tra gli slavi del sud: islamismo, cristianesimo ortodosso e cristianesimo cattolico.
Come spiegato da questo video, la liberazione di Žužemberk fu anche il teatro per il primo attacco missilistico aereo mai fotografato, realizzato dagli Alleati ai danni del castello della città il 13 febbraio 1945. La roccaforte fu il quartier generale degli occupatori italiani prima e tedeschi poi, supportati dai domobranci, i collaborazionisti sloveni.
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Mosso da un sincero interesse per la storia e la cultura della penisola balcanica, si è laureato in Studi Internazionali all’Università di Trento, per poi specializzarsi in Studi sull’Europa dell’Est all’Università di Bologna. Ha vissuto in Romania, Croazia e Bosnia ed Erzegovina, studiando e impegnandosi in attività di volontariato. Tra il 2021 e il 2022 ha scritto per Osservatorio Balcani Caucaso Transeuropa. Attualmente risiede in Macedonia del Nord, dove lavora presso l’ufficio di ALDA Skopje.