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Storia avventurosa delle bandiere del mondo: una recensione

di Sergio Tavčar*

Dopo tantissimi anni passati assieme, prima a scuola e poi sul lavoro, una cosa rimane sicura: io e il mio amico/collega di lavoro Sandro Vidrih continuiamo ad essere anime gemelle. Per il mio compleanno mi ha infatti regalato un recentissimo libro, dal titolo Storia avventurosa delle bandiere del mondo (Utet) scritto da un imprenditore ucraino (a suo tempo anche ministro in uno dei primi governi Zelens’kyj), Dmytro Dubilet, nel quale però non si parla di economia né di guerre, come si potrebbe supporre visto da dove lo scrittore proviene, ma di un argomento che Sandro sa benissimo mi appassiona quasi visceralmente: le bandiere e la loro storia e in generale la vessillologia.

La passione per le bandiere

Ho cominciato ad appassionarmi alle bandiere già da piccolo, per ragioni onestamente misteriose, forse perché, essendo nato a Trieste in un periodo molto turbolento della sua storia, le bandiere sono sempre state dalle nostre parti inequivocabili strumenti di affermazione di identità nazionali e culturali, per cui ho subito capito la loro importanza e, come ogni bambino curioso, ho sempre voluto saperne di più.

Per dire, non ricordo periodo della mia vita nel quale non conoscessi le bandiere, innanzitutto di Trieste con la sua gloriosa alabarda, e poi quelle di Italia, Jugoslavia e ovviamente Gran Bretagna e Stati Uniti che all’epoca della mia nascita comandavano a Trieste.

Bandiera del Territorio Libero di Trieste (Wikipedia)

Se non bastasse, nel 1960 (avevo 10 anni) si svolsero le Olimpiadi di Roma che ho seguito con avidità. Fra le altre cose vidi anche tantissime bandiere nuove che non avevo mai visto prima e sentito anche tantissimi inni nazionali che suscitarono un’altra irrefrenabile curiosità, quella di impararne il maggior numero possibile.

E, se non bastasse ancora, l’anno dopo si verificò con la decolonizzazione (sulla carta) dell’Africa una vera e propria esplosione di nuovi stati con tantissime nuove bandiere che tentai disperatamente (senza troppo successo, visto che tantissime sono uguali o si somigliano fra loro) di imparare a memoria.

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Storia avventurosa delle bandiere del mondo

Dubilet nella prefazione del suo libro scrive che il suo interesse per la vessillologia nacque nel 1994, quando in vacanza con i nonni in Crimea seguì in TV i Mondiali di calcio negli USA e si appassionò subito di quegli strani simboli multicolorati che apparivano accanto alle sigle delle varie rappresentative facendone poi uno dei suoi interessi più profondi e durevoli. Ecco, mi sono detto, un’altra anima gemella. E, infatti, il libro l’ho letteralmente divorato in un paio di giorni imparando tantissime cose che non sapevo e che mi hanno interessato moltissimo.

Copertina del libro Storia avventurosa delle bandiere del mondo (Utet)

Il libro, come dice l’autore nella sua prefazione, non vuole essere (riuscendoci a meraviglia) un’esposizione didascalica o, peggio, enciclopedica, ma una cavalcata nel tempo a braccetto con la storia di ogni nazione che possa spiegare il come e perché alla fine sia nata una particolare bandiera.

Gli stati mondiali sono trattati non secondo criteri geografici, ma secondo le somiglianze, anche casuali o curiose, fra le loro bandiere. I capitoli sono strutturati in vari modi: uno di questi è di prendere all’inizio in esame una particolare bandiera che poi ha dato l’ispirazione per la creazione di tantissime altre.

Gli esempi, penso, possono essere noti più o meno a tutti quelli che si interessano un po’ alla materia: dalla bandiera francese, il primo tricolore verticale del mondo, ispiratore di un numero innumerevole di altre bandiere, prima quella italiana, all’Union Jack inglese (pardon, britannica), vessillo di un impero che dominava tutti i mari del mondo creando colonie a bizzeffe, alla bandiera statunitense, l’Old Glory o Stars and Stripes come volete chiamarla, che, per le stesse ragioni imperiali, ha poi generato tantissime altre. In questa cavalcata storico-geografica l’autore trova anche gustosissimi agganci fra paesi lontanissimi fra loro che nessuno mai potrebbe immaginare potessero esistere.

Bandiere a stelle e strisce

Il caso più clamoroso riguarda proprio la bandiera degli Stati Uniti e ve lo riporto, a mo’ di esempio di altri episodi del genere, come l’ho letto: la domanda fondamentale che ci si fa sempre è da dove gli americani abbiano tratto l’ispirazione per le strisce orizzontali biancorosse della loro bandiera. La loro spiegazione è che siano state mutuate dal vessillo della loro associazione patriottica (o terroristica, se la guardate dal punto di vista inglese) Sons of Liberty – per la cronaca quel gruppo che rovesciò a Boston in mare il carico di tè arrivato dall’Inghilterra dando il via alle rivolte che portarono all’indipendenza – una bandiera sì a strisce biancorosse, ma verticali.

Secondo l’autore (e anch’io trovo la spiegazione molto più plausibile) la ragione dovrebbe essere un’altra: i vascelli che trasportavano il tè battevano la bandiera della Compagnia delle Indie orientali inglesi, una bandiera a strisce orizzontali biancorosse con l’Union Jack d’ordinanza nel cantone. Strisce orizzontali copiate dalla bandiera di un regno storico dell’isola di Giava, il Majapahit, strisce che poi, semplificate, si trovano ancora adesso nelle bandiere dell’Indonesia, di Singapore e Malesia.

Non solo, ma la bandiera delle isole Hawaii, ufficialmente il 50esimo stato degli Stati Uniti, oltre alle strisce di prammatica (che sono peraltro anche blu in alternanza alle bianche e rosse), ha nel cantone ancora e sempre l’Union Jack britannica. Come la mettiamo?

L’aquila bicipite

Ci sono inoltre gruppi di bandiere che si richiamano a precisi simboli, dapprima entrati a far parte dei vari stemmi e poi anche delle bandiere di una quantità innumerevole di paesi in varie parti del mondo. Il caso più eclatante è quello dell’aquila romana che si è poi materializzata in innumerevoli versioni dei paesi che si ritengono eredi dell’Impero romano. Così l’aquila bicipite si è dapprima trasferita sulla bandiera bizantina che ha ispirato i simboli di tutti i paesi ortodossi, alla fine anche della Russia (come dice l’autore, acidamente, gli ucraini la chiamano “il pollo a due teste”).

Stendardo del Presidente della Russia (Wikipedia)

Non solo, ma contemporaneamente è stata adottata come simbolo da tantissimi paesi appartenenti a suo tempo al Sacro Romano Impero (Germania e Austria in primis), ed è stata ancora il simbolo del regno unito di Castiglia e Aragona che l’ha poi esportato in tutti i paesi soprattutto latino americani che ha colonizzato, dal Messico fino alla provincia di Potosi in Bolivia (con le sue leggendarie miniere d’argento) che ha nel suo simbolo un’aquila bicipite, però con le teste mozzate (!).

Sempre a causa della cristianizzazione dell’Impero romano sono ovviamente innumerevoli i paesi che hanno nella loro bandiera il simbolo della croce, da quella nordica derivante dall’antichissimo Dannebrog danese (croce bianca in campo rosso con il braccio verticale spostato a sinistra – all’inizio la bandiera era a coda di rondine, per cui la croce cadeva nel centro) a quella sempre biancorossa, ma quadrata, della Svizzera fino all’attuale bandiera della Georgia che di croci, contando anche quella centrale di San Giorgio, ne ha ben cinque. Rimane un solo mistero: cosa abbia ispirato Serbia, Montenegro e Albania a mettere proprio un’aquila bicipite sui loro stemmi e poi anche sulle bandiere.

I colori base in natura

Un caso estremamente interessante è costituito dalle ragioni per le quali tantissime bandiere in zone ben precise del mondo sono molto simili fra loro tanto da creare non poca confusione. Per esempio: sapevate che la profusione di giallo, rosso e blu sulle bandiere latino americane che non si rifanno a quella celeste-bianco-celeste dell’Argentina è dovuta nientemeno che al grandissimo poeta tedesco Goethe? Una volta fu ospite suo a Weimar il generale sud americano Francisco de Miranda, al quale Goethe espose la sua teoria sui tre colori base in natura, appunto il rosso, il giallo e il blu.

La cosa piacque tanto al generale che tempo dopo, quando fu al comando delle truppe che portarono i paesi sud americani all’indipendenza, volle a tutti costi che fossero questi tre colori a predominare sulle bandiere dei nuovi stati indipendenti.

Un’altra bandiera fondamentale nella storia della vessillologia è quella inventata nel 1915 da un inglese per la rivolta araba, fomentata ovviamente dagli anglo-francesi in funzione anti-turca nella Prima guerra mondiale. L’autore pensò di riunire in una sola bandiera i quattro colori dell’Islam che rappresentano le varie dinastie eredi del Profeta, il rosso, il nero, il bianco e il verde, creando un vessillo con un triangolo rosso a sinistra e tre strisce verticali, nera, verde e bianca. La bandiera venne accolta con grande favore dagli Arabi e infatti anche oggi praticamente tutti i paesi arabi hanno bandiere derivanti da quella.

Bandiera della rivolta araba del 1915 (Wikipedia)

Le bandiere africane

Altro capitolo è quello dei colori pan-africani che sono in realtà due gruppi di origini diverse. Il primo è dovuto a un giamaicano trasferitosi in America, Marcus Garvey, che per la sua organizzazione in difesa dei diritti dei neri d’America inventò un vessillo nero, rosso e verde che ha poi ispirato le bandiere di Kenya, Malawi, Sud Sudan e per vie traverse anche quella della Libia.

L’altro gruppo è invece ispirato ai colori dell’impero etiope, l’unico indipendente in Africa ai tempi della colonizzazione europea, il verde, il giallo e il rosso, e questo è un gruppo molto numeroso, tanto che i vari tricolori rosso-giallo-verdi africani si somigliano tutti in modo molto fastidioso per uno come il sottoscritto che avrebbe la voglia di conoscerli tutti.

Come si vede gli spunti per parlare delle bandiere sono tantissimi e vi rimando alla lettura del libro per scoprire la storia e poi la diffusione planetaria del simbolo per eccellenza di quasi tutte le bandiere, e cioè una o più stelle con un numero di punte che diverge da caso a caso, dalla classica stella a cinque punte a quella giudaica a sei punte fino al numero di punte che indica le province dello stato o quant’altro.

Anche il numero delle stelle sulla bandiera è variabile nella storia, come insegnano proprio gli Stati Uniti. Curioso il caso dell’arcipelago oceanico di Tuvalu, che nella lingua locale significa semplicemente “otto”, ma che di stelle sulla bandiera ne ha nove, includendo anche un’isola disabitata ai tempi dell’indipendenza. Tempo fa decisero di togliere una stella dalla bandiera per non farsi ridere dietro, ma poi dovettero rimetterla quando alla fine anche l’ultima isola cominciò a essere abitata.

Bandiera rossa e cieli stellati

Per non parlare dei colori delle varie stelle, estremamente significativi: se una stella è rossa è di un paese a regime comunista, se è nera è africana, se è verde è islamica, se è gialla siamo nel campo di influenza cinese eccetera.

A proposito: ovviamente tutto un capitolo è dedicato a quanto successe dopo che gli insorti della Comune di Parigi (anche qui protagonista la Francia!) combatterono nel 1871 sotto le insegne di un drappo rosso che poi divenne il colore per eccellenza del movimento comunista in tutto il mondo e di conseguenza anche il colore principale delle bandiere degli stati nei quali i comunisti andarono al potere.

Con tutti i simboli che si possono immaginare: dalla classica falce e martello al machete e mezza ruota dentata dell’Angola.

Un altro capitolo è ancora quello che parla dell’influenza che ha avuto soprattutto in Asia e Oceania quella che è secondo tutti i crismi effettivamente la più antica bandiera mai inventata, il leggendario sol levante rosso in campo bianco del Giappone, poi si parla ancora dell’influenza che ha avuto la mezzaluna turca (domanda mia senza risposta: perché l’hanno raffigurata calante e non crescente?) sugli altri stati turcofoni del mondo soprattutto asiatico, ma anche sulla vicina Tunisia.

E ancora dell’importanza che ha avuto per la creazione di nuove bandiere di stati il più delle volte traballanti, tipo Bosnia ed Erzegovina o Kosovo, il blu stellato delle bandiere di Onu e Unione Europea, insomma ce n’è per tutti gusti.

Bandiera della Bosnia ed Erzegovina (Wikipedia)

Nel fare tutto ciò l’autore usa un tono colloquiale, terra terra, assolutamente non specialistico, se usa una parola del lessico dell’araldica o della vessillologia lo fa quasi scusandosi spiegando in lungo e in largo perché bisogna usare proprio quella parola per non essere fraintesi, il tutto condito da battute e aneddoti molto divertenti.

A me ha fatto molto ridere la definizione scherzosa della bandiera italiana che ha fatto alla fine dopo averle dedicato moltissimo spazio: “visto che la bandiera italiana è una delle più iconiche e conosciute nel mondo per la sua cucina si potrebbe dire che i colori sulla bandiera rappresentano il basilico, la mozzarella e il pomodoro”.

Oppure la definizione che i vessillologi danno della bandiera di Cipro, secondo loro la più brutta che esista per l’abbinamento fra bianco e arancione, che in araldica non esiste, e per la sagoma dell’isola ritrattavi con sotto due ramoscelli d’olivo. Secondo gli esperti la bandiera rappresenta “un uovo all’occhio di bue con contorno di erbe aromatiche”.

Per concludere si tratta di un libro che un bandieromane come il sottoscritto non può che divorare avidamente. Lo consiglio vivamente però anche a tutti quelli che vorrebbero conoscere qualcosa di più sulla materia. Onestamente non riesco a figurarmi un modo migliore e più accattivante per affrontare un argomento tutto sommato difficile, e che presuppone una notevole cultura di base sia storica che geografica, di quello usato dall’autore di questo libro.

* Sergio Tavčar è stato per decenni la voce di TeleCapodistria, cronista sportivo, o per dirla come il titolo del suo libro (BEE, 2022), L’uomo che raccontava il basket.

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