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Questo articolo è uscito originariamente il 9 agosto 2019 su Osservatorio Balcani e Caucaso Transeuropa.
I tatari di Crimea sono una comunità nazionale turcofona e musulmana che vive almeno dal XV secolo sulla costa settentrionale del Mar Nero e, in particolare, nella penisola della Crimea. Il Khanato di Crimea ebbe il suo momento di massimo splendore tra XV e XVIII secolo sotto la dinastia, discendente di Gengis Khan, dei Giray. Lo stato era allora protetto dall’Impero ottomano: quando quest’ultimo entrò in conflitto con l’Impero zarista in espansione fu la fine per questa grande potenza e raffinata cultura. Da allora perseguitata e repressa, la comunità che ancora oggi vive nella penisola rifiuta strenuamente l’occupazione russa del proprio territorio.
La comunità tatara, nonostante l’occupazione della Crimea da parte della Russia iniziata nel marzo 2014, sta mantenendo una propria rappresentanza nelle istituzioni dell’Ucraina. Ci sono infatti tre rappresentanti della comunità tatara di Crimea tra i deputati eletti nella Rada, il parlamento ucraino, il 21 luglio 2019. “Per noi è una conquista: nella precedente legislatura gli interessi dei tatari di Crimea al parlamento erano rappresentati solo da me e Refat Čubarov”, ha dichiarato a riguardo Mustafa Džemilev, il settantacinquenne che è guida e leader dei tatari di Crimea fin dall’epoca sovietica.
Čubarov, presidente del Mejlis (il più alto organismo di rappresentanza dei tatari, vietato in Russia, e quindi in Crimea, dal 2016 in quanto ritenuto “estremista”), alla tornata elettorale del 2019 è rimasto fuori: il partito con cui si era candidato, Sila i Čest’ (Forza e Onore), non ha superato la soglia di sbarramento del 5%.
Džemilev e il vice-presidente del Mejlis Achtem Čijgoz sono stati invece tra i 24 deputati eletti del partito dell’ex-presidente Petro Porošenko, “Solidarietà europea”. Rustem Umerov, delegato del Kurultaj (assemblea del popolo tataro) e terzo rappresentante dei tatari di Crimea nella nuova Rada, si era invece candidato con il partito Holos (Voce) del rocker Svjatoslav Vakarčuk.
“Avevamo solo un unico principio in questa tornata elettorale: non candidarci assolutamente con il partito filorusso ‘Piattaforma di opposizione – Per la vita’ – ha affermato con decisione Džemilev – tutti gli altri partiti invece li abbiamo sentiti”.
Il leader tataro non ha avuto molti dubbi nel presentarsi ai suoi elettori al fianco del presidente uscente Porošenko, per il quale nutre profonda stima e di cui apprezza molto l’operato, soprattutto a livello internazionale: “Penso che il presidente Porošenko sia riuscito a risolvere in maniera ottimale tutte le questioni più importanti; dal nulla ha creato un esercito e ha saputo edificare una potente coalizione internazionale filoucraina”.
Mustafa Džemilev e la lunga repressione dei tatari di Crimea
Mustafa Džemilev è uno dei più noti dissidenti e difensori dei diritti umani della storia sovietica, famoso soprattutto per uno sciopero della fame durato 303 giorni, il più lungo nella storia dei movimenti per i diritti civili. Nel 2016 un giovane regista tataro, Ahmed Sarychalil, ha dedicato un documentario alla sua affascinante figura, titolato “Mustafa”.
Džemilev ha consacrato la propria vita alla lotta per i diritti del suo popolo, in primo luogo quello di tornare nella propria terra, scontando per questo oltre quindici anni nei gulag sovietici. Oggi la sua missione non è cambiata: una volta lasciata nel novembre del 2013 la carica di presidente del Mejlis, che guidava dal 1991, ha continuato a rappresentare la voce dei tatari di Crimea a Kyiv (dal 1998 è membro della Rada) e, soprattutto, dal 2014 porta avanti una nuova lotta – quella di riportare la sua terra, annessa forzatamente dalla Russia – all’Ucraina. Da allora gli è vietato l’ingresso in Crimea (così come in Russia); il suo nome è sulla lista delle persone bandite dalla penisola e dalla Federazione russa.
Non è tra i soli che hanno lasciato la Crimea occupata dal 2014, forzatamente o meno: si stimano tra i 15 mila e i 30 mila i tatari di Crimea che hanno abbandonato da allora la propria casa. Nonostante l’apparente riconoscimento dei diritti alla comunità (la lingua tatara è riconosciuta sulla carta, ad esempio, come ufficiale, accanto a russo e ucraino), la repressione nei loro confronti continua con arresti e perquisizioni quotidiani. “Se confrontiamo le procedure di perquisizione dei tempi sovietici con quelle di oggi, noteremo molte differenze – raccontava Džemilev – da me sono venuti a perquisire una decina di volte in epoca sovietica, ma almeno allora arrivavano e dicevano: ‘Ecco l’autorizzazione del procuratore o del giudice, abbiamo tutte le ragioni di ritenere che lei abbia della letteratura antisovietica. Le chiediamo di consegnarcela volontariamente, altrimenti procederemo con la perquisizione’. Mentre ora non ci sono autorizzazioni: fanno irruzione nelle case, intimano di mettersi tutti a terra e iniziano a cercare arrecando danni materiali; anche se le porte sono aperte preferiscono scavalcare. Visto da fuori, pare che abbiano scovato un covo di terroristi, mentre in realtà si tratta di gente comune”.
Nato nel 1943, Džemilev all’età di sei mesi venne deportato con la famiglia dalla Crimea all’Asia Centrale, in Uzbekistan. Sono oltre 183 mila i tatari di Crimea cui venne riservato in quegli anni lo stesso destino. Furono la comunità nazionale più colpita tra quelle che vennero accusate (o solo sospettate, è lo stesso) di alto tradimento ai danni dello stato sovietico. Per tutte la pena fu la stessa: il trasferimento forzato sugli Urali e in Asia Centrale con il divieto di far ritorno nella propria terra. Il 46% dei deportati tatari morì durante il tragitto o subito dopo. La deportazione puntò a distruggere, a cancellare la cultura del popolo tataro, la sua stessa identità. A tal proposito, è stato contestato un manuale di storia utilizzato nelle scuole della Crimea russa, nel quale i tatari vengono definiti dei collaborazionisti durante la Seconda guerra mondiale e conseguentemente nemici dello stato sovietico. Un modo per giustificare la loro deportazione: il 18 febbraio 2019 il consiglio dei tatari di Crimea si è rivolto al governatore della regione Aksionov affinché il manuale venga ritirato.
Gli anni Sessanta, epoca di quel disgelo breve e precario inaugurato da Nikita Chruščëv, risvegliarono gli animi anche della comunità tatara; si iniziò a parlare di genocidio. Cinquemila tatari si trasferirono nella seconda metà del decennio a Mosca per tener vivo il movimento di rinascita, per far sentire più forte la propria voce nel centro del potere sovietico. E ottennero alcuni risultati: nel 1967 venne emanato il decreto che riabilitò i tatari di Crimea; eppure, nella loro penisola, nel frattempo ripopolata di nuovi cittadini sovietici, non riuscirono a rientrare e le repressioni non si arrestarono. Notizie sulla situazione dei tatari di Crimea cominciarono intanto a giungere oltrecortina, grazie alle voci di dissidenti (soprattutto russi).
Il 6 luglio 1987 fu una giornata importante per i tatari di Crimea: furono circa 150 in piazza Rossa a manifestare (ma le testimonianze sono discordanti e parlano anche di 500 persone) e il sit-in durò tutta la notte. Tra loro c’era anche la moglie di Mustafa, Safinar. L’evento portò i suoi frutti e i rappresentanti dei manifestanti vennero convocati da Andrej Gromyko in persona, allora presidente del presidium del Soviet Supremo dell’Urss.
Nel 1989 la repressione dei tatari di Crimea venne ufficialmente riconosciuta come “illegale e criminale”. Džemilev, eletto quell’anno capo del Movimento nazionale dei Tatari di Crimea, tornò nella penisola, seguito da altri 250 mila membri della comunità.
Prima o poi la Crimea tornerà ucraina
La fontana di Bachčisaraj, immortalata dal sommo poeta russo Aleksandr Puškin nell’omonimo poema (1824), era ridotta a un “tubo di ferro arrugginito” quando il poeta visitò il leggendario palazzo dei Khan nei primi anni Venti dell’Ottocento. La splendida e raffinata residenza dei sovrani tatari era stata distrutta nel 1736 dall’“orda” dei russi, i conquistadores della penisola di Crimea. Puškin se ne rammaricò e fece rivivere la perduta bellezza nel suo poema, rendendo eterna – grazie alla sua poesia – la civiltà tatara, checché ne pensassero i suoi compatrioti.
“L’unica possibilità perché vengano sollevate le sanzioni alla Russia è l’instaurazione a Kyiv di un governo pronto ad accettare l’occupazione e a riconoscere la Crimea come russa. A Putin questo non è riuscito e speriamo non ci riesca mai – concludeva Mustafa Džemilev ancora nel 2019 – per questo, prima o poi, la Crimea tornerà ucraina”.
Dottoressa di ricerca in Slavistica, è docente di lingua russa e traduzione presso l’Università di Trieste, si occupa in particolare di cultura tardo-sovietica e contemporanea di lingua russa. È traduttrice, curatrice di collana presso la casa editrice Bottega Errante ed è la presidente di Meridiano 13 APS.