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Gender is always in the gift of the other. Even in the banal way that I need another to call me ‘she’.
(McKenzie Wark)
L’identità di genere è sempre un dono che arriva dall’altro.Anche nel mio banale bisogno di sentirmi chiamare al femminile.
Il novembre del 1995 fu un mese importante nella storia della regione post-Jugoslava: nelle sue prime tre settimane, Alija Izetbegović, Franjo Tuđman e Slobodan Milošević vennero convocati in una base militare a Dayton, Ohio, con il compito di porre fine alla guerra in Bosnia-Erzegovina. Spezzando una sequenza di sforzi infruttuosi, i tre leader raggiunsero finalmente un accordo che portò la pace al prezzo di dividere il paese in due entità e cementare l’appartenenza etnica come principio dirimente della sua vita politica.
Solo pochi giorni prima di questo esito tanto ricercato, seppur alla fine controverso, il Tribunale penale internazionale delle Nazioni Unite per l’ex Jugoslavia accusò gli esponenti serbi di Bosnia, Radovan Karadžić e Ratko Mladić, di una serie di crimini di guerra, tra cui il genocidio. Circa nello stesso momento, il Primo Ministro della Croazia Hrvoje Šarinić e il rappresentante serbo Milan Milanović, sotto la supervisione dell’ambasciatore statunitense Peter Galbraith e l’intermediario delle Nazioni Unite Thorvald Stoltenberg, firmarono un documento che sanciva la fine delle operazioni armate in Croazia, aprendo la strada all’integrazione delle aree sotto il controllo serbo all’interno del nuovo sistema giuridico croato.
Per quanto strano possa sembrare, la vita quotidiana nel nord della Serbia, dove all’epoca vivevo in una cittadina ai margini dei conflitti armati, continuava ad andare avanti tra questi cambiamenti tettonici. In un’atmosfera carica di violenza c’era, tuttavia, una parvenza di ordine nel quale l’inconcepibile si ritirava costantemente davanti al (sur)reale. Mentre il nostro spazio attraversava una successione inaudita di conformazioni statali, le norme implicite ma tassative che governavano la nostra comunità allentavano sporadicamente la loro presa, consentendo agli emarginati di affacciarsi dalle rotture del tessuto sociale in una visibilità inaspettata. Così, nel novembre del 1995, in uno straordinario contrappunto alle ‘alte politiche’ maschiliste che ci hanno spinti in decenni di devastazione, gli spettatori della televisione serba ebbero un raro – in molti casi il primo in assoluto – incontro con due donne trans. Vjeran Miladinović Merlinka e Nenad Milenković Sanela vennero invitate dalla giornalista di Novi Sad Tatjana Vojtehovski per raccontare del loro lavoro come prostitute di strada a Belgrado.
Visibilmente tesa per il suo programma dal vivo, Vojtehovski interrogò – con una serie di domande telegrafiche e piuttosto irritanti – gli aspetti più privati delle loro vite. A queste incursioni inquisitorie, che comprendevano di tutto, dai loro genitali e modifiche della voce agli interventi chirurgici, percentuali di ormoni e pratiche sessuali, Merlinka e Sanela rispondevano con una sincerità disarmante. Sebbene mostrassero differenze significative nella maniera in cui vivevano la propria identità di genere e la loro sessualità, probabilmente pensavano che la loro onestà scandalosa fosse la loro “arma” più potente quella sera: sapevano che il loro aspetto avrebbe colpito al cuore l’ipocrisia borghese provocando lo sdegno dell’opinione pubblica da un lato, ma forse conquistando un sostegno più intimo dall’altro.
Quell’insolita e irripetibile intervista con Merlinka e Sanela, sulla quale sarei tornato occasionalmente negli anni successivi, mi mise davanti alle complessità della diversità di genere in un modo a me fino ad allora sconosciuto. Sicuramente avevo già avuto l’opportunità di testimoniare le spietate strategie con cui i bulli della scuola cercavano di portare alcuni dei miei amici in linea con le sempre più rigide norme di genere, e io stesso conoscevo il prezzo da pagare per il non conformarsi al canone maschile, specialmente in quelle circostanze galvanizzate, piene di uomini presumibilmente molto potenti. Tuttavia prima di allora non avevo mai avuto la possibilità di assistere a come i corpi illuminati dai riflettori degli studi televisivi potessero sfuggire ai copioni di genere predeterminati e come questa pratica affascinante potesse persino essere articolata in modi non sempre coerenti ma generalmente affermativi.
Grazie alla loro semplice presenza, Merlinka e Sanela, che all’inizio di quell’anno avevano impersonato se stesse nel pionieristico Marble Ass di Želimir Žilnik, avevano offerto una celebrazione della diversità in un momento in cui l’omogeneizzazione etnica stava prosciugando la politica di qualsiasi contenuto significativo. Non soltanto ci avevano avvicinati a una vita radicalmente diversa, ma resero possibile una immersione imprevista nei mondi trans che allora erano – e sono ancora oggi – impregnati di pericolo e incertezza. Liberando l’energia seducente di chi può permettersi di dire la verità perché ha ben poco da perdere, diventarono una pietra miliare nelle storie fragili dei nostri movimenti. Merlinka con più orgoglio e Sanela con un po’ più di timidezza stavano in uno degli inizi della tortuosa ma resiliente linea liberatoria che attraversa il nostro tempo per convergere con gli altri filoni dell’emancipazione verso futuri migliori, trans e queer.
Quel programma fu per me e molti altri un punto di ingresso inaspettato nell’universo dell’identità di genere, un vero e proprio, seppur anche disorientante, dono della diversità che turbò le nostre allora ovvie e onnipresenti divisioni in uomini e donne. Mentre lo guardavo, non potevo immaginare che più di due decenni dopo avrei unito le forze con due amici trans per mettere insieme un volume sulle vite, attivismo e cultura trans del nostro irrequieto spazio post-jugoslavo.
Con questo libro abbiamo cercato di separare i gesti di emancipazione dalle promesse non mantenute guardando la Jugoslavia attraverso una lente queer. Nel corso della nostra rilettura, che le conferisce dimensioni femminista-queer-trans (in gran parte mancanti sia nella sua vita che in numerosi aldilà fratturati), la Jugoslavia, uno stato cancellato, violentemente dimenticato, viene resuscitata da molti dei suoi stessi cancellati: acquisisce così una rinnovata carica politica e diventa legittimata come progetto collettivo su basi nuove. Tali riarticolazioni queer dell’esperienza (post)socialista ci consentono di sfidare il silenzio che avvolge le traiettorie di genere socialiste in modo che le pratiche dissidenti del passato inizino a vivere nuove vite. Questo non solo ci (ri)connette con i filoni transnazionali più progressisti della liberazione sessuale e di genere, ma ci stimola anche a pensare – e ad agire – per forgiare alleanze trasformative nel presente.
*Bojan Bilić è psicologo e sociologo politico che svolge ricerche sugli attivismi LGBTQ, sulla psicoterapia affermativa LGBTQ e sull’antropologia della non eterosessualità e della varianza di genere nello spazio post-jugoslavo. Insegna il corso Gender and Social Movements in South East Europe presso il Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali dell’Università di Bologna (MIREES).