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David Lane è uno dei massimi esperti europei in tema di società e politica dell’ex blocco sovietico e della transizione economica dei paesi dell’est Europa. Per lungo tempo ha insegnato sociologia e economia politica all’Università di Cambridge nel Regno Unito. Presso la stessa università è membro dell’Emmanuel College – uno dei college universitari più importanti nel Regno Unito. In precedenza ha insegnato sociologia all’Università di Birmingham e all’Università dell’Essex. Ha un lungo novero di articoli accademici e pubblicazioni sulle società socialiste di stato, sull’Urss, sulle élite e sulla stratificazione sociale e di classe nei Paesi est-europei. Tra i suoi recenti contributi va menzionato l’articolo The Soviet Federative State: Its Exceptional Formation and Dismemberment (Lo Stato federativo sovietico: la sua particolare formazione e lo smembramento).
Lo abbiamo consultato per meglio comprendere gli sviluppi occorsi nei paesi dell’est a partire dalla transizione negli anni Novanta a un tipo di mercato più libero e meno rigido, come anche alcune delle dinamiche che hanno portato allo scontro frontale tra Russia e Ucraina. Il punto di vista di David Lane, pur non sempre allineato con il sentire comune, risulta prezioso se si considera che, nella fase mondiale alquanto turbolenta che stiamo vivendo in questi ultimi anni, egli è tra i ricercatori che stanno cercando di proporre delle valide alternative al capitalismo neoliberale, come testimoniato dal suo interessante ed informativo libro Global Neoliberal Capitalism and the Alternatives (Il capitalismo globale neoliberale e le alternative), pubblicato l’anno scorso dalla Bristol University Press.
Professore, come sono cambiate dopo la caduta del Muro di Berlino l’economia e la società nei paesi che un tempo facevano parte del “blocco dell’est”?
In questo caso possiamo parlare di cambiamenti significativi. Sul fronte economico, praticamente tutti i paesi hanno sottoscritto le condizioni generali indicate dai governi occidentali e dalle organizzazioni economiche internazionali quali il Fondo monetario internazionale e l’Organizzazione mondiale del commercio. Ciò ha significato l’avvio di una transizione verso un’economia di mercato competitiva, l’adozione di un regime flessibile nel cambio dei tassi, ma anche il diritto all’acquisto – pur entro certi limiti – dei beni statali da parte dei cittadini esteri ovvero di altre nazioni. Le sovvenzioni statali sono state considerate contrastanti rispetto ai principi del libero mercato.
All’interno di questa cornice è opportuno differenziare due macroaree con due gruppi di paesi: da un lato quelli che hanno aderito all’Unione europea, i cosiddetti nuovi stati membri; e, dall’altro lato, gli stati che sono rimasti nella sfera del blocco economico guidato dalla Russia, cioè la Comunità degli Stati Indipendenti. Per quanto concerne il primo gruppo, le condizioni di accesso all’Ue sono state rigorose e l’accettazione delle regole del mercato libero è stata la condizione principale. Le strutture e i processi organizzativi dei nuovi membri dovevano risultare compatibili con la società di mercato europea.
Dato che i nuovi stati membri avevano delle economie relativamente povere, avevano anche scarsa forza negoziale. Alcuni paesi hanno potuto preservare la loro valuta nazionale, che servì a garantire una certa protezione economica. A seguito della mancanza di un ruolo di supporto attivo da parte dello stato e data la poca competitività delle economie, abbiamo assistito a un processo di deindustrializzazione e al fenomeno della migrazione verso l’estero – principalmente da est verso occidente. Infine, nei paesi ex socialisti il processo di privatizzazione ha prodotto una maggiore divisione interna in termini di reddito e benessere, mentre prima, da questo punto di vista, le stesse società erano più egualitarie.
Quali sono i paesi che hanno avuto una transizione più favorevole ed efficace, quali invece quelli che hanno faticato maggiormente?
In generale, i paesi collocati geograficamente in prossimità dell’Unione europea sono stati quelli che hanno avuto il miglior rendimento. Si pensi alla Slovenia, alla Repubblica Ceca oppure alla Polonia. Viceversa, la Bulgaria e la Romania hanno avuto una transizione più complessa e un rendimento complessivamente peggiore. Per quanto concerne i paesi dell’ex Unione Sovietica, l’Ucraina è partita avvantaggiata con buone capacità produttive, parte delle quali sono andate perse nel corso del periodo di transizione. In linea di massima i paesi come la Russia e il Kazakhstan, che dispongono di ampie risorse energetiche interne, hanno saputo farne buon uso, diventando però man mano sempre più dipendenti dall’export energetico.
Generalizzando potremmo dire che le società dell’est Europa che hanno abbracciato i principi della società di mercato hanno atteso una piena convergenza con le condizioni occidentali, che però non si è materializzata, perlomeno non del tutto. Inoltre, l’idea di trasferirsi nei Paesi occidentali è diventato un obiettivo diffuso delle giovani generazioni, un fatto di per sé eloquente su cui riflettere.
È complicato elencare in modo schematico i successi e gli insuccessi dei paesi nell’est Europa che sono transitati ad una società e ad un’economia di mercato, ma proviamoci…
In questi paesi la libertà di movimento, con la conseguente possibilità di trasferirsi all’estero, è stata sancita con successo, anche se non so se si possa realmente parlarne in termini di pieno successo. Mi spiego. La conquista del suddetto diritto è stata di fatto notevolmente influenzata dalle dinamiche della disoccupazione e dagli effetti che questa ha prodotto. Per quanto riguarda invece la libertà d’informazione, questa ha indubbiamente portato a delle conseguenze molto positive alla popolazione. Tra i miglioramenti dovuti alla transizione menzionerei il passaggio da un’economia centralizzata a un tipo di economia più specializzata. Va infatti rammentato che in passato le economie socialiste centralizzate non erano in grado di competere con i paesi industrializzati occidentali.
Viceversa, tra i fenomeni con un impatto sociale ed economico negativo va annoverato l’aumento della disoccupazione con i conseguenti flussi migratori all’estero di un cospicuo numero di cittadini. Ma non è tutto. Con la privatizzazione delle economie si sono formate possibilità per la speculazione e forme opache, per non dire scorrette, nell’acquisto di quelli che un tempo erano gli “asset” statali. Altrettanto rilevante nel contesto della trasformazione fu il fatto che il management un tempo socialista è stato capace di manipolare a proprio favore la vendita dei beni e delle aziende un tempo statali: molti manager come anche molti politici hanno potuto così arricchirsi durante il processo di privatizzazione, mentre lo stesso non si può dire per quanto riguarda la restante popolazione.
Sul piano politico invece…
Per l’est Europa rimane ancora attuale la seguente considerazione: se da un lato l’ascesa di una nuova classe manageriale benestante può incentivare la formazione di partiti politici competitivi e preparati, dall’altro lato si cela il rischio che le classi meno abbienti diventino passive e dunque ben poco influenti sul piano politico.
Cosa mi dice dei nazionalismi in ascesa un po’ ovunque, nei paesi europei in centro ed est-Europa possono rappresentare un pericolo per la democrazia?
Molto dipende da cosa intendiamo per “democrazia”. Quasi tutti i paesi al centro di questo nostro colloquio hanno elezioni competitive con partiti politici aperti. Forse il problema nell’Ue è che gli stati sono assai vincolati dai regolamenti comunitari che agli stessi pongono alcuni chiari limiti, per esempio sul versante delle decisioni e scelte economiche. Per questa ragione sentiamo talvolta parlare di “deficit” democratico. Il nazionalismo può essere inteso come un’espressione di malcontento o una specie di rivolta contro la deindustrializzazione che è andata di pari passo con la transizione ad una società di mercato e una maggiore apertura delle economie. I poteri centralizzati nell’Ue hanno rischiato di generare parecchi “sconfitti” negli stati comunitari meno solidi. Dunque questi problemi hanno favorito l’ascesa di partiti e gruppi nazionalisti, oppure sono stati alla base del consolidamento dei partiti antieuropeisti.
Ogni guerra va ripudiata. Ma allo stato attuale quali sono gli insegnamenti che possiamo trarre dalla guerra Russia-Ucraina?
Numerosi sono gli insegnamenti che si possono trarre dalla suddetta guerra. Il conflitto ci aiuta a comprendere meglio il potere della Nato e degli Stati Uniti negli affari internazionali e, allo stesso tempo, la relativa debolezza degli stati europei sul piano negoziale e nel preservare i propri interessi strategici. A mio avviso la menzionata guerra ci ricorda anche che ci sono ancora delle spaccature all’interno di quei paesi che si sono staccati dal blocco sovietico dopo la sua disgregazione, compresa l’Ucraina – seppure poi innegabilmente compattata dalla guerra.
Mi risulta che complessivamente ci sia ancora poca comprensione dei cambiamenti nella posizione politica ed economica degli stati egemonici occidentali a fronte dei nuovi paesi in crescita che si stanno raggruppando nel blocco guidato dalla Cina. Assieme alla Cina, la Russia è attualmente sufficientemente potente da poter perseguire un sistema mondiale multipolare, mentre gli Stati Uniti, con il sostegno del Regno Unito, sono irremovibili nel tentativo di mantenere solida la loro leadership mondiale.
Mi permetta di concludere con una domanda difficile. Si sarebbe potuto in qualche modo evitare la guerra tra la Russia e l’Ucraina: esistevano delle alternative al conflitto e chi può oggi mediare – mi riferisco a paesi come la Serbia e la Turchia?
In principio probabilmente non è stata prestata sufficiente attenzione alle preoccupazioni manifestate dalla Russia in materia di sicurezza, particolarmente a riguardo dell’allargamento della Nato e in secondo luogo dell’allargamento dell’Unione europea.
Per quanto riguarda l’Ucraina, si sarebbe potuto sottoscrivere un qualche tipo di accordo che tutelasse gli interessi di sicurezza del paese e al contempo della Russia, ad esempio durante gli incontri di Minsk e poi di Istanbul. Con il perdurare della guerra, la posizione geostrategica dell’Ucraina sembra essersi indebolita. Oggi sia la Serbia che la Turchia potrebbero svolgere un importante ruolo di mediazione per trovare una strategia per porre fine alla guerra in corso. Tuttavia, la Serbia potrebbe non essere un partner di mediazione accettabile per gli Stati Uniti poiché è considerata politicamente troppo vicina alla Russia.
Nato a Trieste, dopo gli studi conseguiti all’Università dell’Essex e all’Università di Cambridge, è stato cultore in Economia politica all’Università di Trieste. È stato co-redattore della rivista online di economia “WEA Commentaries” sino alla sua ultima uscita. Si interessa di economia, sociologia e nel tempo libero ha seguito regolarmente il basket europeo ed in particolare quello dell’ex-Jugoslavia nel corso degli ultimi anni. Ha tradotto per vari enti ed istituzioni atti e testi dallo sloveno all’italiano e dall’italiano allo sloveno.