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Il 24 maggio 1978 allo stadio Marakana di Belgrado il Rijeka alzò al cielo la sua prima coppa nazionale. Grazie a un gol di Milan Radović al primo minuto dei supplementari, gli adriatici piegarono la resistenza accanita di un avversario ostico, che era inaspettatamente arrivato a giocarsi quella gara nonostante in campionato occupasse l’ultima posizione: il Trepča di Kosovska Mitrovica.
Fu un traguardo insperato per la squadra proveniente dalla provincia autonoma del Kosovo. L’anno precedente aveva trionfato nel girone est della seconda divisione, guadagnandosi per la prima volta il diritto a disputare il massimo campionato jugoaslavo. Fondata nel 1932 durante il Regno di Jugoslavia, prendeva il nome dalle miniere che si trovano a pochi chilometri dalla città e che sono state per molto tempo uno dei fiori all’occhiello dell’economia della Jugoslavia, nonché uno dei più importanti centri lavorativi per il Kosovo. Fra gli anni Settanta e Ottanta, nel momento di massimo splendore, le miniere hanno rappresentato fino al 70% del Pil della provincia autonoma, grazie all’estrazione di lignite, piombo, carbone, zinco, argento e all’impiego di più di 20mila persone.
A quel tempo serbi e albanesi scavavano insieme e insieme giocavano a calcio la domenica, con la maglia nera e verde e il doppio martello incrociato sul petto. E ancora uniti sostenevano la squadra allo stadio olimpico cittadino, che a quel tempo riusciva a contenere circa 30mila persone.
Mai più insieme
Oggi la parola “insieme” è bandita dal vocabolario della città. Il fiume Ibar segna un confine che non è sancito ufficialmente, ma è molto più reale di tanti limiti del vecchio continente. A sud vive la componente albanese della città, a nord quella serba. Da una parte la moschea chiama alla preghiera i fedeli, dall’altra gli ottoni di una orchestrina accompagnano i festeggiamenti di un matrimonio alla chiesa ortodossa di San Demetrio. Poco più in alto un grande monumento brutalista celebra la lotta unificata dei partigiani serbi e albanesi per la liberazione del Kosovo. Svetta ancora sulla collina, nonostante il suo messaggio di fratellanza appaia ormai fuori dal tempo. Sul ponte transennato, che si può oltrepassare soltanto a piedi, la polizia kosovara e i carabinieri italiani in missione che controllano che non succeda niente di spiacevole. Intanto il fiume scorre placido e sembra non avere fretta.
La guerra degli anni Novanta ha cambiato la fisionomia della città che – ironia della sorte – dal 1982 al 1991 ha portato il nome di Titovska Mitrovica, in onore di Josip Broz Tito, il padre della Jugoslavia socialista scomparso nel 1980, quando tutto nello stato degli slavi del sud ha iniziato piano piano a scricchiolare per poi franare fragorosamente negli anni Novanta.
Trepča contro Trepça
Neanche la squadra di calcio è uscita indenne dal quel decennio. Oggi esistono due formazioni dalla chiara appartenenza etnica: il Fudbalski Klub Trepča e il Klubi Futbollistik Trepça. Nei primi anni dell’ultimo decennio del Novecento i calciatori albanesi lasciarono la squadra cittadina, che nel frattempo si trovava nella terza divisione del sistema jugoslavo. Fu un gesto che rispondeva alle tensioni con la componente serba, identificata in quel momento storico con il potere di Belgrado, che pochi anni prima aveva rimosso l’autonomia della provincia e attuato politiche discriminatorie fra le due etnie.
Inizialmente vennero organizzati campionati paralleli, che non potevano però usufruire delle infrastrutture ufficiali. Per questo gli incontri si svolgevano su campi “informali” e le gare erano spesso interrotte dalle forze dell’ordine, che ricorrevano a manganelli e arresti. I calciatori e i dirigenti albanesi si organizzarono in un nuovo club, portato avanti grazie all’impegno e all’autofinanziamento dei cittadini. Ormai la scissione era avvenuta: Trepça e Trepča non erano più una cosa sola, ma due squadre gemelle e parallele, che non avrebbero più avuto modo di incontrarsi. Infatti mentre gli albanesi presero parte al neonato campionato, i serbi rimasero nel sistema calcistico che faceva capo a Belgrado. Chi può vantarsi di essere il legittimo erede della formazione storica? Difficile rispondere a questa domanda; probabilmente nessuna delle due squadre può vantare questo titolo al 100%.
I colori e il nome rimasero praticamente identici, ma restava aperta la questione su dove le due squadre avrebbero disputato gli incontri. Lo stadio olimpico si trovava a Sud del fiume Ibar e quindi nell’area albanese. Mentre i serbi si spostavano a giocare a Zvečan, a pochi chilometri da Mitrovica, in quello che era stato lo stadio della squadra fino al 1945, il Trepça poteva giocare le proprie partite nella struttura che aveva visto i grandi successi degli anni Settanta. Lo stadio, che alla fine della guerra versava in un grande stato di abbandono, fu intitolato alla figura di Adem Jashari, padre dell’Uçk: eroe nazionale per gli uni, terrorista per gli altri.
Addio ai fasti del passato
La scissione non ha più permesso al Trepča/Trepça di tornare ai fasti del passato, né a nord né a sud del fiume Ibar. I kosovari hanno vinto il titolo soltanto una volta e oggi si dibattono in uno dei due gironi della seconda divisione, sopravanzati da squadre provenienti da piccoli centri. Lo stadio Adem Jashari è chiuso: erano previsti dei lavori di ristrutturazione, ma subito dopo l’inizio uno scandalo di tangenti e malagestione ha bloccato il restauro. Un rivestimento metallico incorona le vecchie tribune ormai logore, mentre i ferri del cemento armato spuntano ovunque, testimoniando un lavoro cominciato e mai portato a termine. Il tabellone del punteggio spicca in questa desolazione, e stona nella sua relativa modernità. Oggi il Trepça gioca in un piccolo stadio vicino al fiume dedicato all’ex juventino Riza Lushta.
A nord invece, quando tira un po’ di vento, il movimento del bianco, rosso e blu delle decine di bandiere serbe crea un effetto colorato che colpisce il visitatore. Si beve birra e si chiacchiera nei bar di Kosovska Mitrovica. Il corso principale porta dal ponte alla grande statua alta sette metri di Lazar Hrebeljanović, comandante delle forze cristiane nella battaglia della Piana dei Merli del 1389, simbolo della resistenza contro l’avanzata ottomana in Europa. Tutto è scritto in alfabeto cirillico e sui muri spiccano dei murales ben realizzati dai chiari richiami bellici. Sembra esserci poco spazio per il Trepča, nonostante il forte peso simbolico della squadra. Non sono poi tanti coloro che seguono assiduamente il club. Il livello è molto basso e ogni trasferta è lontanissima e sfiancante. Al contrario ci sono gruppi di tifosi che si recano con regolarità a Belgrado a sostenere la Crvena Zvezda o il Partizan e che ogni tanto si scontrano a Mitrovica, ricreando su piccola scala le dinamiche calcistiche che animano tutta la Serbia.
Minatori, stelle e un vecchio dirigente
Nel 2016-17 per la prima volta nella storia una squadra kosovara partecipò alle qualificazione per la Champions League. A difendere i colori nazionali fu proprio una formazione di Kosovska Mitrovica/Mitrovicë: il Trepça 89. Nonostante il nome e i colori praticamente uguali alle altre compagini questa squadra non ha niente a che vedere con le prime due. Nel 1992 un imprenditore privato decise di darle nuova vita chiamandola Minatori 89, con un chiaro riferimento agli scioperi di fine anni Ottanta che avevano lo scopo di spingere Belgrado a concedere nuovamente l’autonomia al Kosovo. Nella sua bacheca vanta solo quel titolo e oggi rimbalza fra la prima e la seconda divisione. In città non è molto seguita e quei pochi che vanno allo stadio ci vanno per sostenere il vecchio Trepça, come gli ultras della Torcida, uno dei gruppi più antichi della regione.
Il calcio a Kosovska Mitrovica/Mitrovicë regala ormai più tensioni che vittorie. Nell’ottobre del 2019 il Trepča doveva affrontare la Stella Rossa in coppa nazionale. Dopo tanti anni la squadra più titolata della ex Jugoslavia tornava in città per una partita. Dopo una raffica di accuse incrociate, il pullman con la squadra belgradese dovette però fare marcia indietro e tornare a casa. Il peso sportivo e simbolico della gara però non era passato inosservato alle autorità kosovare, che avevano vietato l’ingresso ai bianco-rossi. La Stella non è un club qualunque, poiché viene considerato vicinissimo alla leadership serba in carica al governo. Non a caso dopo anni di dominio del Partizan, la Zvezda è tornata alla vittoria, grazie anche alle ritrovate disponibilità economiche (derivanti soprattutto dalla ricca sponsorizzazione Gazprom). La partita si è giocata qualche settimana dopo, in campo neutro, nella sede della federcalcio serba a Stara Pazova.
Petar Milosavljević è stato il più longevo dirigente del Trepča. C’era negli anni Settanta, c’era nel 1991 all’ultima partita “unita” del club di cui ha sempre amato i colori. “Vincemmo 2-0, ma la gente era spaventata. La politica era già arrivata allo stadio”. Il New York Times e These Football Times hanno raccontato la sua storia, che è anche quella della squadra. Dal suo ufficio a nord del fiume guardava quello che era stato il suo stadio, dove non poteva più andare. “Era la mia casa. Quando lo vedo mi viene da piangere”. Prima che un infarto lo portasse via all’affetto della sua gente, la bandiera del calcio kosovaro Fadil Vokrri incontrò il dirigente serbo e insieme – da uomini di calcio – si dissero che si poteva fare qualcosa, che le porte erano aperte. Ma non successe niente. Arrivato a 76 anni, nel 2016, Milosavljević parlava con la voce di chi non si arrende all’evidenza delle cose: “Mia moglie è morta tre mesi fa e non sono sicuro di quanto tempo ancora mi concederà Dio. Ma sarei davvero felice un giorno di vedere di nuovo noi tutti, serbi e albanesi, giocare a calcio assieme”.
Autore dei libri “Questo è il mio posto” e “Curva Est” - di cui anima l’omonima pagina Facebook - (Urbone Publishing), "Predrag difende Sarajevo" (Garrincha edizioni) e "Balkan Football Club" (Bottega Errante Edizioni), e dei podcast “Lokomotiv” e “Conference Call”. Fra le sue collaborazioni passate e presenti SportPeople, L’Ultimo Uomo, QuattroTreTre e Linea Mediana. Da settembre 2019 a dicembre 2021 ha coordinato la redazione sportiva di East Journal.