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Meridiano 13, media partner del Trieste Film Festival 2025, ha scelto anche quest’anno di raccontarvi alcuni film per ciascuna delle categorie previste dal festival.
Iniziamo dalla categoria Wild Roses, che dal 2021 viene dedicata a registe provenienti da un paese diverso ogni anno. Quest’anno il focus è ricaduto sulla Serbia.
Tra le proposte del festival, segnaliamo in particolare il fresco e tagliente Kelti (Celti; SRB, 2021, 106’) di Milica Tomović. Ambientato nel 1993, il film si svolge pressoché interamente durante una festa di compleanno di bambini, ma mentre questi si auto-intrattengono in salotto, gli adulti invitati svelano – attraverso un fitto intreccio di dialoghi, sguardi e approcci erotico-amorosi – le contraddizioni sociali e politiche del loro tempo. Più volte la tragedia risulta appena sfiorata, mentre i non detti restano sottesi e non del tutto risolti: un film inverosimilmente realistico che ammalia, diverte e lascia riflettere.
Tra i lungometraggi in concorso al Trieste Film Festival ha meritato la nostra attenzione innanzitutto il film Akiplėša (Toxic; LT, 2024, 99’), splendido lungometraggio d’esordio della giovanissima regista lituana Saulė Bliuvaitė (classe 1994) che alla 77esima edizione del festival di Locarno si è aggiudicato il Pardo d’Oro.
Il film racconta a un tempo una realtà molto lituana che tuttavia trasversalmente può risultare vicina a tante periferie urbane. Qui due adolescenti sognano di sfuggire alla quotidianità gretta e desolante che le circonda, immaginandosi un vago – quanto “tossico” – futuro come modelle.
Evidentemente il film è stato apprezzato anche dal pubblico del Trieste Film Festival: Akiplėša si è aggiudicato il Premio Trieste di questa edizione!
Sempre tra i lungometraggi in concorso, segnaliamo anche Lesson Learned (Fekete pont – Il punto nero; H, 2024, 119’) dell’ungherese Bálint Szimler.
In questo caso, ci immergiamo nella dura realtà del sistema scolastico del paese di Viktor Orbán. “Due anti-eroi in una scuola che è anche metafora dell’intera Ungheria”: può davvero essere riassunta così la trama del film, la cui storia vede come protagonisti Palkó, un bambino di dieci anni, e Juci, una giovane insegnante, entrambi in difficoltà nell’integrarsi nella nuova scuola e che devono fare i conti con un sistema scolastico tradizionale, molto rigido e per niente aperto ai cambiamenti.
Per due ore Szimler ci chiede di rimanere all’interno delle mura di una scuola di Budapest senza mai lasciarla nemmeno per un istante; sarà l’ambiente circostante a entrarci – i vicini che si lamentano delle urla dei bambini nel cortile, i genitori per niente solidali durante una riunione, i funzionari dell’amministrazione che ignorano i problemi concreti per mancanza di budget, e perfino un gatto considerato portatore di germi – e a farci capire che tutto ciò che avviene al suo interno rispecchia inevitabilmente la realtà conservatrice e ostile in cui naviga l’Ungheria contemporanea.
Il sistema scolastico ungherese oggi è in crisi: lo scarso numero di insegnanti e le nuove leggi che li censurano si ripercuotono su ciò che possiamo imparare a scuola. Questo mi ha spinto ad analizzare l’autocensura in Fekete pont.
Lo spettatore di Fekete Pont si ritrova a essere un vero e proprio osservatore esterno che, aiutato anche dallo stile delle inquadrature particolari, assorbe quel ritmo scolastico pieno di regole senza poter battere ciglio, incanalando lentamente la frustrazione di un sistema fallito fino all’ultima scena.
“Devi pensare a te stessa e non cercare di salvare sempre il mondo perché non succederà nulla, nulla”: sono queste le tristi parole rivolte a Juci da parte di una collega nel momento in cui la giovane donna (che cerca di adottare metodi di insegnamento diversi da quelli tradizionali) vorrebbe denunciare un collega per i suoi comportamenti insolenti nei confronti dei suoi alunni, Palkó in particolare.
All’interno di un contesto simile ci si chiede allora: quanto è possibile esporsi e ribellarsi come individui in un sistema basato su gerarchie e relazioni di convenienza, e quali sono le possibilità reali di poter cambiare l’ordine delle cose?
Per quanto riguarda i documentari in concorso, un’interessante rielaborazione di materiale video d’epoca è Rok z žycia kraju (Un anno nella vita di un paese; PL, 2024, 85’) del polacco Tomasz Wolski.
Il film ruota attorno al 1981, anno in cui in Polonia venne introdotta la legge marziale per arginare quello che sembrava essere lo scoppio di una vera e propria rivoluzione dal basso, grazie alla diffusione del movimento Solidarność nelle principali città del paese.
Riesumando video d’epoca e giocando con i materiali “scartati”, Wolski ha creato un curioso documentario che racconta non solo gli eventi di quell’anno, ma anche il modo in cui vennero raccontati in Polonia e nel mondo.
Invece, tra i documentari fuori concorso, segnaliamo innanzitutto I diari di mio padre (I, 2024, 93’) di Ado Hasanović, giovane regista di Srebrenica che lo scorso anno ha dato inizio al Silver Frame Festival nella sua città natale, cercando di portare luce e cultura in un luogo segnato da una delle più gravi tragedie della nostra epoca contemporanea (lo abbiamo intervistato a riguardo qui).
Il documentario che Hasanović ha presentato a Trieste nasce dalla volontà di recuperare i video girati dal padre tra il 1993 e il 1995 attorno a Srebrenica, assieme ad alcuni suoi diari, un prezioso materiale miracolosamente giunto fino ad oggi. Il film tocca con spontaneità e tenerezza la cruda realtà di ciò che è avvenuto a Srebrenica e le ferite che ciò ha lasciato nel tempo.
Per la coraggiosa scelta di istituire un festival cinematografico a Srebrenica, Ado Hasanović è stato insignito del Premio Cinema Warrior, con cui il Trieste Film Festival riconosce l’ostinazione, il sacrificio e la follia di quei “guerrieri” che lavorano – o meglio: combattono – dietro le quinte per il Cinema.
Sempre tra i documentari fuori concorso, Deda-shvili an rame ar aris arasodes bolomde bneli (Madre e figlia o La notte non è mai finita; GE-F, 2023, 89’) di Lana Gogoberidze è una vera e propria perla.
Usando fotografie, frammenti di film e facendo da voce narrante, la regista di Tbilisi (classe 1928) racconta la storia di sua madre Nutsa Gogoberidze, prima regista donna in Georgia e autrice dei film Buba (1930) e Uzhmuri (1934).
Non è un racconto facile, i due film vennero banditi dalle autorità sovietiche e la madre venne arrestata durante le grandi purghe del 1937. E il suo non è un caso isolato, gli intellettuali georgiani che frequentavano la casa di Lana Gogoberidze quando lei era bambina uno dopo l’altro caddero vittima delle repressioni staliniane. Tuttavia, è un documentario che offre speranza: nonostante le difficoltà la vita va avanti, i lavori censurati vengono ritrovati e nuove generazioni crescono potendo esprimere la propria arte.
Per la categoria Fuori dagli sche(r)mi, il metalinguaggio di Faruk di Asli Özge (DE-TR-F, 2024, 97’) è sicuramente singolare: è un film che racconta il film girato dalla regista turca attorno alla figura del padre, Faruk, novantenne costretto dai piani di rinnovo urbano di Istanbul a lasciare la sua casa di sempre. La realtà è amara e senza lieto fine; l’unico a mantenere dignità e umanità in fin dei conti risulta essere solo il vecchio Faruk.
Quest’anno il Trieste Film Festival ha dedicato una sezione particolare al Cinema sperimentale rumeno, portando sugli schermi sia pellicole di oggi che del passato.
Tra queste ultime, una splendida riscoperta è Memoria trandafirului (The Memory of the Rose; RO, 1963, 11’) di Sergiu Nicolaescu, un cortometraggio guidato da una sapiente scelta di brani di musica classica su cui danzano dei fiori come antropomorfizzati, a raccontarci la bellezza, ma anche la tragedia esperita dagli esseri viventi.
Infine, per la sezione Eventi speciali, abbiamo trovato molto intrigante – per recitazione, temi trattati e fotografia – Sterben (Lo spartito della vita; DE, 2024, 180’). L’unica pecca di questo film è forse l’eccessiva lunghezza, ma anche l’Orso d’argento ottenuto alla Berlinale del 2024 per la miglior sceneggiatura sottolinea l’ottimo risultato ottenuto dal regista Matthias Glasner lavorando su un tema non facile da affrontare con il giusto mix di serietà e ironia: la morte.
Vuoi sapere cosa abbiamo visto lo scorso anno? Ecco qui le nostre brevi recensioni!
*A questo articolo hanno contribuito anche Claudia Bettiol e Aleksej Tilman.
Dottoressa di ricerca in Slavistica, è docente di lingua russa e traduzione presso l’Università di Trieste, si occupa in particolare di cultura tardo-sovietica e contemporanea di lingua russa. È traduttrice, curatrice di collana presso la casa editrice Bottega Errante ed è la presidente di Meridiano 13 APS.