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Dall’introduzione al volume della traduttrice e curatrice (Miraggi, 2024)
Trittico è l’ultima opera (se si escludono brevi testi più recenti) di Saša Sokolov, giunta nel 2011 a grande distanza dai tre romanzi che hanno garantito allo scrittore russo un posto indiscusso nella storia letteraria del Novecento: La scuola degli sciocchi (Škola dlja durakov, 1976), Tra cane e lupo (Meždu sobakoj i volkom, 1980; non tradotto in italiano) e Palissandreide (Palisandrija, 1985). Sokolov con tre soli romanzi ha saputo influenzare non poco lo sviluppo della letteratura russa del secondo Novecento e contemporanea, riallacciando i rapporti con la tradizione modernista e le avanguardie, entrambe occultate da decenni di imposto realismo socialista e da lui rispolverate e riattivate attraverso un originale gusto barocco che culmina in Trittico.
Un “Trittico” di ricerca linguistica
Come suggerisce il titolo, in Trittico sono raccolti tre testi inizialmente pubblicati su rivista nel 2007 (Rassuždenie, Ragionamento), 2009 (Gazibo) e 2010 (Filornit, Il filornita), il cui processo di stesura è stato fluido e consecutivo per l’autore: “Trittico è stato composto in maniera graduale, a lungo, ma non dolorosamente. Non vi era un’unica grande idea. Ve n’erano di piccole, che comparivano nel processo di composizione”, spiega.
Il lungo silenzio di Sokolov – che è stato anche detto “salingeriano” – intercorso tra il terzo romanzo e quest’ultima opera ha avuto un suo riflesso nella scarna ricezione che ha riscontrato Trittico presso la critica e il pubblico, scarna soprattutto se confrontata con l’accoglienza che hanno avuto i suoi tre romanzi precedenti.
Eppure, sotto i più diversi aspetti, è proprio Trittico il risultato più maturo e condensato della ricerca incessante di Saša Sokolov attorno a (e mediante) quella lingua che costituisce il centro di gravità del suo originale cosmo letterario.
Una ricerca consapevolmente iniziata ancora da studente della facoltà di giornalismo dell’Università Statale di Mosca, quando, inviato volontario in zone rurali, sperimentava in libertà nella scrittura: “non mi commissionavano nulla, potevo scrivere tutto ciò che desideravo, potevo permettermi persino di sperimentare. Scrivevo, principalmente, bozzetti sulle persone: prendevo i loro cognomi, nomi e patronimici, e poi tutta la loro vita me la inventavo. Erano in sostanza racconti, e il mio eroe poteva essere un guardiacaccia, un taglialegna, un trattorista, chi volevo. Erano racconti-bozzetti scritti in prosa ritmica”.
Uno scrittore dalla biografia a dir poco romanzesca
Nato nel 1943 a Ottawa dove il padre era un’importante spia sovietica, Aleksandr Sokolov (poi auto-ribattezzatosi Saša, diminutivo di Aleksandr, nel nome d’arte) giunse per la prima volta a Mosca nel 1947, dove il padre fu richiamato in seguito all’affaire Guzenko (tra i più importanti eventi che inaugurarono la Guerra Fredda).
Fin dai tempi della scuola il futuro scrittore non ha mai nascosto la propria insofferenza per costrizioni, obblighi e normatività, dimostrando una personalità che mal si conciliava con il contesto famigliare di origine e più in generale con l’ambiente sovietico (per un assaggio della sua personalità si consiglia la visione del documentario Saša Sokolov. L’ultimo scrittore russo, 2017).
Per sottrarsi, ad esempio, agli obblighi di leva nel 1962 si ingegnò di simulare (evidentemente in maniera convincente) un’infermità mentale, affermando di sentirsi ora un tamburo, ora un’arpa, ora una bomba inesplosa e guadagnandosi così tre mesi di ospedale psichiatrico (una struttura, vale la pena sottolinearlo, dipendente dal ministero degli Interni, e non della Salute, fino all’avvento di Michail Gorbačëv in Unione Sovietica).
Della follia Sokolov apprezza proprio la capacità di mettere in discussione il reale e il “normale”, il suo essere, per questo, tanto estromessa dal quotidiano. Non è un caso che tutti i principali personaggi sokoloviani si presentino affetti da malattie psichiche vere o presunte, da eccessi di ego, da disagio emotivo e/o fisico.
Poco più che ventenne, dopo un breve periodo tra i giovani dell’underground moscovita degli anni Sessanta, Sokolov scelse – una scelta che tornerà a più riprese nel corso della sua vita – di allontanarsi dalla città, preferendo gli ambienti rurali e solitari come la tenuta di caccia di Bezborodovo lungo il Volga (poco distante da Tver’) che diventò per lui tra 1972 e 1973 un’oasi di feconda scrittura e riflessione.
Poco dopo, nel 1975, venne – come per tanti intellettuali dell’epoca – l’emigrazione, ottenuta dopo un lungo ed estenuante iter (con tanto di appelli inviati a Leonid Brežnev e alle Nazioni Unite) che lo vide infine disconosciuto dalla famiglia e approdare, dopo una sosta viennese, negli Stati Uniti. Qui, grazie all’attenzione speciale dell’editore Carl Proffer, Sokolov vide pubblicati i suoi tre romanzi, il primo dei quali fu un successo tanto inaspettato quanto immediato.
Sebbene il mondo culturale russo abbia conosciuto e apprezzato l’opera sokoloviana in maniera clandestina fin dal suo esordio, la ricezione in patria è stata per forza di cose posticipata al periodo post-sovietico (la prima pubblicazione ufficiale de La scuola degli sciocchi in Urss risale al 1989 su rivista). Sokolov fu allora canonizzato – visto soprattutto il duraturo silenzio seguito a Palissandreide – quale autore della “terza ondata di emigrazione” (quella concentrata in particolare tra gli anni Settanta e Ottanta e che ha visto tra i suoi protagonisti moltissimi autori di prim’ordine, da Iosif Brodskij a Sergej Dovlatov).
Al momento dell’uscita inaspettata di Trittico, oltre vent’anni dopo la pubblicazione dell’ultimo romanzo, il silenzio imbarazzato che accoglieva il libro traduceva a suo modo anche la difficoltà di ricollocare questo autore nel panorama letterario russo dopo la sua lunga assenza. Da Saša Sokolov, inserito nell’orizzonte letterario in uno specifico momento storico, non ci si aspettava forse una novità editoriale quale Trittico.
Sokolov spiega che a spingerlo a rompere il lungo silenzio è stata la volontà di mettere alla prova se stesso e il pubblico, rinnovando il proprio stile, come di prassi per uno scrittore autentico.
Trittico si presenta come un testo ibrido e, sebbene questo aggettivo possa risultare adatto a descrivere generalmente tutte le opere dell’autore, la pregnanza del termine pare qui ancor più fondata anche in virtù di determinati accorgimenti grafici: la forma “verticale” dell’opera; la divisione in strofe numerate che sembra quasi alludere ai versetti della Bibbia, la cui bellezza letteraria è per Sokolov uno dei modelli a cui attingere; la mancanza di maiuscole e punti; l’intreccio di lingue, alfabeti e neologismi, come ricordano anche i titoli della seconda e terza sezione dell’opera (Gazibo e Il filornita).
Il tema unificante delle tre sezioni di Trittico è la creazione del Bello (il “come” ideale), che nell’originale viene definito izjaščnoe (letteralmente “raffinato”, “elegante”, ma anche “bello” nell’espressione izjaščnaja slovesnost’, “belle lettere”), prodotto dell’unità delle arti. È così che suono e immagine, generati dalla “danza linguistica” di Sokolov, seppur già fondamentali per le sue opere precedenti, diventano imprescindibili in Trittico: su questa base poggia l’intero impianto del testo.
A questo punto potrebbe sembrare che il mirabile virtuosismo linguistico di Sokolov conduca perlopiù a un godimento estetico del Bello creato e interpretato; in realtà, ciò che risulta dalla lettura di Trittico è una riflessione di una portata molto più ampia: l’arte, che insegue l’ineffabile izjaščnoe come fanno le voci di Trittico, è capace, suggerisce Sokolov, non meno di altri discorsi riconosciuti come scientifici (quali l’aritmetica, l’astronomia o la filosofia citate nel testo), di parlare di ogni cosa.
Soltanto, essa lo fa a suo modo, in forme non sempre trasparenti: “come parlando di altro, ma in sostanza proprio di questo”. Si esprime attraverso le sue tante bocche e lingue, anche in silenzio (come la signora ispanica che compare nella terza sezione, Il filornita), in modalità spesso enigmatiche, sibilline. L’arte parla in Trittico in questa maniera oscura, sintetica, eppure precisa; basta saper ascoltare il suo discorso. Essa rivela tanto quanto la scienza, se non di più, la bellezza del mondo, delle sue creature e dei suoi fenomeni; li elenca dettagliatamente, riconoscendo a ognuno la sua importanza.
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Come leggere “Trittico”?
Come leggere questa proezija (proza + poėzija) in versi? Sokolov si è lamentato dello scarso orecchio di molti suoi lettori: “Il suono, le assonanze, l’eufonia sono per me assai importanti. Tuttavia il problema è che pochissimi sono in grado di leggere correttamente i miei testi. La maggior parte non riesce a sentirne la musica”.
In molti non hanno affatto capito Trittico. E so che ciò è bene. Essenziale è capire come leggere questo testo: è tutto musicale. Molte persone, anche quelle istruite, persino gli intellettuali, semplicemente non sono in grado di leggerlo: non sentono la musica del testo. Mentre per me è questa la cosa più importante.
L’intero testo è costruito come una partitura e invita apertamente lettrice e lettore a concretizzarlo a voce (l’autore suggerisce, più precisamente, una lettura in “glissando”), permettendo in tal modo che si palesi la ritmicità dei versi. Le parole, nella qualità e quantità delle loro sillabe, si fanno note, la cui lunghezza determina il ritmo della sinfonia testuale.
Trittico di Saša Sokolov, traduzione di Martina Napolitano, Miraggi, 2024.
Dottoressa di ricerca in Slavistica, è docente di lingua russa e traduzione presso l’Università di Trieste, si occupa in particolare di cultura tardo-sovietica e contemporanea di lingua russa. È traduttrice, curatrice di collana presso la casa editrice Bottega Errante ed è la presidente di Meridiano 13 APS.