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“È assurdo cercare un’eredità ottomana nei Balcani. I Balcani sono l’eredità ottomana”, così scriveva la storica bulgara Maria Todorova nel 1996. Un’eredità frutto di cinque secoli di dominazione (dal XIV al XIX secolo) che ha avuto un impatto duraturo sulla regione, in termini di cultura, religione e relazioni politiche. I rapporti tra la Turchia e i Balcani sono quindi il risultato di una storia complessa che ha conosciuto periodi di tensione ma anche di cooperazione e reciproco vantaggio.
Dalla dominazione imperiale al disimpegno
All’inizio del XIX secolo la Penisola Balcanica stava attraversando una condizione di profonda instabilità, anche a causa dei mutati equilibri tra le grandi potenze dell’epoca. L’Impero ottomano cominciava a mostrare i primi segni di cedimento in favore delle mire espansionistiche dell’Impero austriaco e della Russia zarista. Con le difficoltà della Sublime Porta scoppiarono, già a partire dal 1804, importanti rivolte in Serbia che aprirono un periodo di lotta per la deottomanizzazione dei Balcani che si sarebbe concluso solo con la sconfitta definitiva dell’Impero nella Prima guerra mondiale.
Nel 1923, Mustafa Kemal Atatürk proclamò la nascita della Repubblica di Turchia, di stampo laico e neutrale a livello internazionale. In questo contesto, nel 1934 Turchia, Grecia, Romania e la Jugoslavia monarchica ratificarono un’intesa, nota come Patto Balcanico. L’accordo preveda la non belligeranza tra i membri, l’inviolabilità delle frontiere e soprattutto il sostegno reciproco in caso di attacco da parte di uno stato terzo. Lo scoppio della Seconda guerra mondiale e l’occupazione nazista dei Balcani resero di fatto inapplicato l’impegno alla difesa reciproca.
Dopo la guerra gli equilibri regionali si erano trasformati: la Turchia venne inclusa nel blocco euro-atlantico, con tanto di adesione alla Nato nel 1952, mentre la Jugoslavia divenne un paese socialista anche se in aperta rottura con l’Unione Sovietica stalinista. Proprio per la comune opposizione a Stalin, Turchia e Jugoslavia sottoscrissero un accordo per il reciproco sostegno in caso di occupazione sovietica. Anche in questo caso però, l’accordo si rivelò inutile anche per il riavvicinamento tra Belgrado e Mosca durante la de-stalinizzazione e la successiva nascita del Movimento dei Non Allineati fortemente voluta proprio dalla Jugoslavia.
Il ruolo della Turchia nelle guerre jugoslave
Per tutto il periodo della guerra fredda i rapporti turco-jugoslavi si mantennero su livelli cordiali, senza particolari momenti di crisi. Il processo di dissoluzione violento della Jugoslavia all’inizio degli anni Novanta e i cambiamenti politici interni voluti da Halil Turgut Özal in Turchia portarono però importanti cambiamenti.
Per Ankara si trattava dell’occasione perfetta per riscoprire un particolare interesse per la regione. Questa rinnovata attenzione ai Balcani si poneva tra gli obiettivi quello di presentarsi come guida e modello di un Islam moderato in grado di dialogare con l’Occidente, anche grazie alla forte presenza musulmana (circa 8 milioni e mezzo i fedeli che vivono prevalentemente in Bosnia ed Erzegovina, Kosovo e Albania). I Balcani inoltre giocavano un ruolo centrale sul piano economico, rappresentando una vera e propria “porta” per il commercio con il resto d’Europa.
La veste di protettrice della comunità islamica si manifestò durante la guerra in Bosnia ed Erzegovina, tra il 1992 e il 1995. Ankara, infatti, si dimostrò particolarmente attiva nel sostenere la politica occidentale senza far mancare un concreto supporto in campo militare, tanto a livello ufficiale con la partecipazione alle operazioni Nato quanto in via ufficiosa con la partecipazione di volontari e l’invio di armi alle fazioni bosgnacche (bosniaci musulmani) nonostante l’embargo imposto al paese. Il supporto immediato fornito alle dichiarazioni di indipendenza di Slovenia, Croazia, Bosnia e Macedonia del Nord, con cui furono sottoscritti anche accordi militari in chiave anti-greca, misero in crisi le già fredde relazioni con la Serbia di Slobodan Milošević.
Con la fine della guerra e la firma degli Accordi di Dayton nel 1995 cambiò anche l’approccio turco. In occasione della successiva guerra in Kosovo del 1999, Ankara, nonostante la comune appartenenza religiosa con i kosovari, non intervenne direttamente come fatto in precedenza in Bosnia. Un sostegno alle rivendicazioni kosovare sarebbe infatti apparso contraddittorio vista la dura lotta portata avanti contro l’indipendenza del Kurdistan.
Nel frattempo, un poco più a sud, il crollo dell’asfissiante regime di Enver Hoxha in Albania facilitò un avvicinamento tra i due paesi. Un primo accordo di amicizia e cooperazione venne firmato nel 1992, cui fece seguito un’altra intesa di natura militare. Quando nel 1997 il paese delle aquile venne travolto dalla guerra civile, nota come “anarchia albanese”, la Turchia giocò un ruolo primario all’interno della missione internazionale ALBA, promossa dall’Italia con l’autorizzazione dell’Onu, inviando 780 soldati con il compito del mantenimento della pace.
Un nuovo impegno
La vittoria del Partito della Giustizia e dello Sviluppo (Akp) alle elezioni del 2002 confermò l’interesse turco nel mantenere la stabilità politica nella regione senza discostarsi dalla linea strategica adottata dagli alleati Nato. In questa fase, il governo turco si spese per sostenere l’inclusione dei paesi ex-jugoslavi nel blocco euro-atlantico, posizione utile per accreditarsi come partner credibile agli occhi dell’Unione Europea.
Una vera e propria accelerazione avvenne a partire dal 2009 con la nomina di Ahmet Davutoğlu a ministro degli Esteri. Davutoğlu vedeva i Balcani come una priorità della politica estera turca, tanto da considerare la Bosnia come “l’avamposto politico, economico e culturale della Turchia per raggiungere l’Europa Centrale”. La proiezione turca nella regione, con un aperto riferimento al glorioso passato ottomano, non si limitò però a rafforzare i legami con le popolazioni musulmane di Bosnia e Albania ma coinvolse anche paesi come la Macedonia del Nord e la Serbia.
Dal punto di vista politico, Ankara puntò al superamento dei sentimenti conflittuali derivanti dalle guerre degli anni Novanta tra bosgnacchi e serbi attraverso proficui incontri trilaterali, tanto da ottenere con la Dichiarazione di Istanbul del 2010 il riconoscimento da parte serba delle atrocità compiute a Srebrenica e il rispetto dell’integrità territoriale della Bosnia.
I legami culturali tra Turchia e Balcani…
La strategia turca verso i Balcani non si limita solo ai rapporti politici ma comprende strumenti di soft power legati soprattutto al settore culturale e religioso. Uno dei momenti cruciali di questa strategia è avvenuto nel luglio 2010 quando l’allora primo ministro turco Recep Tayyip Erdoğan, durante una visita congiunta con il presidente serbo Boris Tadić a Novi Pazar (Serbia), inaugurò il primo centro culturale del paese volto alla promozione del patrimonio culturale turco.
Il principale strumento utilizzato dal governo di Ankara per promuovere la cultura turca è rappresentata dall’agenzia Tika (Agenzia turca di cooperazione e coordinamento) che opera nel campo della cooperazione tra le istituzioni e le organizzazioni statali, le università, le organizzazioni senza scopo di lucro e il settore privato in ben 150 paesi. L’azione dell’agenzia ha riguardato, per esempio, il sostegno economico per la costruzione e l’equipaggiamento di scuole nelle aree rurali per diversi milioni di euro.
L’intervento turco non poteva che coinvolgere anche il piano religioso con la ricostruzione di centri di cultura islamica e soprattutto di numerose moschee. Tra queste la Valide Sultan di Sjenica, costruita nel 1870 e unico esempio di moschea “imperiale”, costruita cioè direttamente dalla famiglia del Sultano, di tutta la Serbia, e la Moschea Carshia di Pristina, eretta nel 1389 per festeggiare la vittoria ottomana nella battaglia di Kosovo Polje che segnò la definitiva sconfitta dei serbi di fronte all’avanzata ottomana.
Infine, altrettanto penetrante è stata la diffusione in tutte le televisioni della regione balcanica di serie tv ambientate principalmente a Istanbul e che hanno contribuito a rendere familiare la cultura turca riprendendo valori della tradizione in cui i popoli balcanici possono facilmente riconoscersi.
…e quelli economici
Quelli tra Turchia e Balcani non sono però solo legami di natura culturale e politica. Come sempre accade, dietro questi aspetti si celano forti interessi economici. Già a partire dai primi anni del Duemila, Ankara sottoscrisse accordi di libero scambio con tutti i paesi della regione: da quello del 1999 con la Macedonia a quello del 2013 con il Kosovo il primo di questa natura per il paese balcanico.
Negli ultimi anni il volume degli scambi commerciali è praticamente raddoppiato con tutti i paesi, come registrato dai dati forniti dal ministero degli Esteri. Nel 2022 il commercio con la Serbia ha superato i 2,3 miliardi di euro (quinto paese dopo Germania, Cina, Italia e Russia) rispetto a circa 1,2 miliardi del 2019. Di circa 1 miliardo annuo gli scambi con Albania e Kosovo.
Ma se il commercio ha ottenuto risultati importanti ancora meglio hanno fatto gli investimenti turchi nella regione, a dimostrazione dell’interesse crescente per l’area. Il valore totale degli investimenti in Serbia è aumentato da 1 milione di dollari a 400 milioni di dollari negli ultimi dieci anni mentre le imprese appaltatrici turche presenti nel paese hanno generato volumi d’affari per 923 milioni di dollari.
Tra i settori più coinvolti c’è quello turistico, come dimostrato dalla concessione garantita alla società Tav per gli aeroporti di Skopje e Ohrid in Macedonia del Nord e dagli investimenti nel settore alberghiero specialmente in Montenegro. Altro settore “caldo” è quello bancario specialmente in Albania dove si contano ben quattro grandi istituti finanziari di proprietà turca. Non meno importante l’impegno nel settore infrastrutturale con la costruzione, dall’altissimo valore simbolico, dell’“autostrada dell’amicizia” Sarajevo-Belgrado.
Infine gli scambi militari. Anche se non particolarmente imponenti in termini di spesa e di rifornimenti, la fornitura di cinque droni Bayraktar Tb2 al Kosovo lo scorso maggio ha creato non pochi malumori nella regione. Particolarmente critico il governo serbo che ha deciso di fare marcia indietro rispetto a un impegno preso in precedenza per l’acquisto di droni dello stesso tipo dopo la consegna a Pristina. Di segno opposto invece l’atteggiamento albanese, con il governo di Edi Rama che ha firmato un contratto per l’acquisizione di tre droni.
La politica verso i Balcani degli ultimi due decenni mira quindi a riconquistare uno spazio di influenza in un’area che per secoli è appartenuta all’Impero Ottomano. Per questo negli ambienti politici si parla di “neo-ottomanesimo” per identificare la politica estera turca a partire dagli anni Ottanta. Nei Balcani l’obiettivo non sembra però quello di scalzare gli altri attori globali ma di giocare un ruolo fondamentale nel mantenimento della stabilità politica dell’area.
Anche perché l’Unione Europea, nonostante gli enormi limiti della sua politica di allargamento, resta ancora di gran lunga il partner principale dei paesi balcanici mentre, dall’altro lato, Russia e Cina possono godere ancora di ampie simpatie e forti relazioni economiche. Certamente, però, questi attori dovranno fare i conti anche con la forza attrattiva di Ankara, tutt’altro che disposta a ritirarsi dalla regione.
Dottore di ricerca in Studi internazionali e giornalista, ha collaborato con diverse testate tra cui East Journal e Nena News Agency occupandosi di attualità nell’area balcanica. Coautore dei libri “Capire i Balcani Occidentali” e “Capire la Rotta Balcanica”, editi da Bottega Errante Editore. Vice-presidente di Meridiano 13 APS.