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A ormai un anno da quel 24 febbraio, e nonostante un forte ottimismo delle istituzioni e della classe politica del paese, il processo di adesione dell’Ucraina all’Unione europea è ben più intricato di quanto si possa credere: dopo aver ricevuto l’agognato status di paese candidato a giugno dell’anno scorso, l’Ucraina deve dimostrare di saper mettere in piedi un percorso di riforme che sia credibile e senza sconti. Ma quanto è lontano il traguardo europeo?
Dopo il parere positivo del Consiglio europeo, il governo di Zelens’kyj ha cercato in ogni modo di avviare immediatamente i negoziati formali di adesione all’Unione europea. Tuttavia la Commissione europea ha imposto come precondizione l’adempimento di sette requisiti, che l’Ucraina chiama con ottimismo “raccomandazioni”: si tratta sostanzialmente di sette aree nelle quali sono richieste lunghe e complesse riforme per rispettare una serie di obblighi giuridici in materia di stato di diritto, indipendenza della magistratura, lotta alla corruzione e tutela delle minoranze.
L’acquisizione dello status di membro dell’Unione europea comporta infatti la piena integrazione del nuovo stato nel sistema istituzionale e giuridico comunitario (il cosiddetto acquis communautaire) strutturato su capitoli dedicati ciascuno a un ambito specifico. I sette requisiti posti a giugno 2022 fanno interamente riferimento ai capitoli fondamentali (i cosiddetti fundamentals) dell’acquis, che devono necessariamente essere aperti per primi e chiusi (cioè completati) per ultimi nel lungo percorso dei negoziati di adesione. Un processo molto tecnico e molto complesso, più che mai nel contesto di una guerra.
Il centro di ricerca ucraino New Europe Center, in collaborazione con altri think tank e Ong del paese, ha di recente pubblicato il terzo studio sullo stato di attuazione dei sette requisiti, dai quali emerge una valutazione di 5.8 su 10, sicuramente insufficiente ma che sottolinea un discreto certo grado di progresso raggiunto in pochi mesi (4.7 a novembre scorso e 4.4 ad agosto).
A inizio febbraio di quest’anno, la Commissione europea ha pubblicato i tanto attesi report analitici che valutano la capacità di Ucraina, Moldova e Georgia di rispettare gli obblighi che comporta il percorso europeo sulla base dei requisiti messi in piedi a Copenaghen nel 1993, che sono sostanzialmente tre: avere istituzioni stabili e democratiche, avere un’economia di mercato funzionante e trasporre il corpus legislativo dell’Ue nel proprio ordinamento. Certo l’Ucraina non è nuova a queste procedure, avendo firmato l’Accordo di associazione e di libero scambio globale e approfondito (AA/DCFTA) nel 2014, la cui mancata firma da parte di Viktor Janukovyč l’anno prima aveva dato via alla rivoluzione, e che ha consentito un progressivo adattamento alle norme comunitarie soprattutto su materie commerciali.
Il report analizza nel dettaglio il livello di allineamento con l’acquis communautaire sulla base dei questionari consegnati ormai quasi un anno fa, ma soprattutto a completamento del parere del Consiglio europeo di giugno scorso che, per fretta o per volontà, non aveva posto chiare condizioni di valutazione dei progressi in materia di riforme.
Quale lo stato dell’arte dell’agognato traguardo europeo?
Come per il terzo pacchetto di adesione per il periodo 2021-2027 – IPA III, lo strumento di assistenza alla preadesione – di cui beneficiano i Balcani occidentali e la Turchia, il report si articola su sei gruppi tematici (cluster) sulla base dei quali sono raggruppati i 35 capitoli negoziali, il cui livello di preparazione è valutato su diversi gradi di maturità: fase preliminare, basso livello di preparazione, moderatamente preparato, buon livello di preparazione e avanzato.
Il report è basato sullo stato dell’arte a giugno 2022, dopo il quale molte riforme sono comunque state varate nonostante l’inusuale contesto legale determinato dalla legge marziale tutt’ora in vigore.
I capitoli in cui l’Ucraina ha raggiunto un buon livello di preparazione per il suo traguardo europeo – il voto 4 su 5, per trasporlo su scala numerica – sono proprio quelli rilevanti per il DCFTA, su cui il paese aveva già sancito il proprio impegno e avviato i lavori già dal 2014: l’unione doganale (capitolo 29) e le relazioni esterne in materia di politiche commerciali bilaterali e multilaterali (capitolo 30). Il livello è valutato positivamente anche per la politica estera, di sicurezza e di difesa (capitolo 31) già oggetto dell’Accordo di associazione, ma anche per le politiche energetiche (capitolo 15) su cui la Energy Community lavora da anni al fianco del ministero dell’Energia dell’Ucraina.
Molti di più sono invece i capitoli che l’Unione europea ha valutato con un basso livello di preparazione. Tra questi rientrano: applicazione degli standard di controllo finanziario, disposizioni finanziarie e di bilancio, libera circolazione di lavoratori, proprietà intellettuale, politiche sociali e del lavoro, nonché tutte le questioni ambientali. Soprattutto per queste ultime la partita sarà dura: negli ultimi anni l’Ucraina ha ratificato un vasto numero di protocolli internazionali, tra cui l’accordo di Parigi nel 2021, ma manca un quadro normativo attuativo (tutt’ora non c’è una legge per contrastare il cambiamento climatico). Inoltre, per migliorare la valutazione, l’Ucraina dovrà impegnarsi a rispettare gli accordi per la riduzione delle emissioni di CO2: se fino al 24 febbraio i target non erano eccessivamente ambiziosi, adesso il paese dovrà fare i conti con le sfide di un settore industriale che, in pieno sforzo bellico, difficilmente può concedersi di pensare all’ambiente.
L’Ucraina dovrà fare parecchi sforzi anche sulla politica di sviluppo agricolo e rurale (capitolo 11), settore più che prioritario per entrambe le parti: grazie gli ampi spazi e l’estrema fertilità delle sue terre, il settore agricolo rappresenta circa il 16% del PIL dell’Ucraina e impiega quasi il 20% della forza lavoro, costituendo un’importante fonte di sostentamento per i suoi 13 milioni di cittadini che vivono nelle zone rurali. Inoltre la superficie agricola copre circa il 70% del paese, ma di questa circa 20% è interessata direttamente dalla guerra: in caso di ingresso sarebbero necessari aiuti per la ripresa ancora più sostanziali. Così come avvenne con la prospettiva di ingresso della Polonia nel 2004, non pochi paesi membri potrebbero esprimere preoccupazioni sulla ridistribuzione dei fondi europei destinati alla politica agricola (attualmente circa il 30% del budget dell’Unione).
In aggiunta a tutte queste premesse, sarà necessario un processo di riforma lungo e radicale per rispettare gli standard europei in materia di commercializzazione dei prodotti, controllo della qualità e agricoltura biologica, per modernizzare le tecnologie ma soprattutto per creare le strutture amministrative e i sistemi di controllo dei pagamenti sulla base del modello europeo.
Un altro tasto dolente sono le politiche della pesca, che rimarranno un punto in sospeso finché un’ampia parte della costa ucraina sul Mar Nero sarà sotto il controllo della Russia.
Inoltre sarà importante il lavoro sui fundamentals, senza il quale i negoziati non potranno procedere a passo spedito: nonostante dal 2014 a oggi i progressi dell’Ucraina nel limitare le conseguenze economiche e sociali del sistema sovietico siano stati notevoli, il paese si trova ancora a fare i conti con l’influenza degli oligarchi nella politica del paese, la corruzione e la necessità di riformare il sistema giudiziario.
Certo è vero che in tempi non sospetti l’ondata di allargamento del 2004, che ha visto l’ingresso in blocco di ben 8 paesi dell’Europa centro-orientale, ha dimostrato che le riforme sono possibili quando incentivate (e quando supportate economicamente), nonché quando la volontà europea è espressa all’unanimità dalla classe politica e civile del paese candidato. Le condizioni di quegli anni, tuttavia, sono ben lontane.
La candidatura non basta
Il report è certamente un solido punto di partenza per identificare le aree in cui le riforme sono più necessarie e di conseguenza per poter programmare l’accompagnamento finanziario dell’Ue – sia in termini di assistenza tecnica che di investimenti – in vista del prossimo pacchetto per l’allargamento previsto in autunno. Se si tratterà di IPA o di un altro programma ad hoc per Ucraina e Moldova ancora non è chiaro, ma questo non è l’unico punto in sospeso: un futuro pacchetto di allargamento potrà necessariamente coprire solo le aree sotto il controllo diretto del governo ucraino, escludendo quindi le aree occupate dalla Russia. Nell’ottica di un ritorno dei territori sotto il controllo ucraino, il livello di adeguamento di queste aree agli standard nazionali comporterà un ulteriore sforzo istituzionale.
Tuttavia sarà difficile fare valutazioni fino a quando non verrà definito il perimetro entro il quale si svolgeranno i negoziati, dove verranno fissati i criteri di adesione nonché le regole per la sospensione delle trattative, ma anche i processi che si svolgeranno in parallelo, come ad esempio il rapporto tra Ue e la società civile del paese.
In sostanza ci sono tutte le premesse per potersi aspettare che il processo negoziale sarà molto lungo, soprattutto se confrontato con l’esperienza più che decennale dei Balcani occidentali. La Serbia, ad esempio, a ormai undici anni dal via libera alla sua candidatura all’Ue, ha aperto 22 capitoli su 35 e, stando all’ultimo report annuale, ha raggiunto un “buon livello di preparazione” solo in 6 capitoli, due dei quali sono stati provvisoriamente chiusi (per la cronaca: il capitolo 25 Scienza e Ricerca, e il capitolo 26 Educazione e Cultura). Il Montenegro invece, primo della classe tra i paesi in pre-adesione e candidato dal 2010, ha aperto tutti i capitoli e ne ha provvisoriamente chiusi tre (oltre ai capitoli 25 e 26, anche 30 – Relazioni esterne).
In tutto questo l’Ucraina dovrà fare i conti con la spada di Damocle del potere di veto dei paesi membri, arma che candidati come Macedonia del Nord e Albania conoscono bene.
La strada è ricca di incognite
Sebbene i paragoni con il processo di adesione dei Balcani occidentali o addirittura della Turchia potrebbero essere fuorvianti, ci sono comunque delle lezioni che l’Ucraina può cogliere dal processo di allargamento dei Balcani occidentali.
Innanzitutto il consenso e la fiducia nel paese candidato verso il processo di adesione e il traguardo europeo, che deve rimanere alto non solo a livello politico, ma tra i cittadini: le complessità del percorso di adesione dovrebbero essere spiegate alla cittadinanza e alla società civile per limitare false aspettative, facilmente politicizzabili. E se l’Unione europea dovesse perdere il suo appeal tra gli ucraini, il paese sarebbe costretto a trovare altri punti di riferimento.
In secondo luogo, i capitoli sullo stato di diritto devono essere la priorità non solo per le classi politiche ma anche per la società civile e la cittadinanza intera: corruzione, influenza degli oligarchi e un debole sistema giudiziario possono essere gli ostacoli più difficili da superare e sarà necessario il coinvolgimento di tutto il ricchissimo tessuto associativo e civile di cui l’Ucraina deve fare tesoro.
Infine, il paese si trova davanti a un livello di supporto pubblico senza precedenti in Unione europea, che non dovrà sprecare: per l’Ucraina si prospetterà la necessità di mantenere solidi rapporti bilaterali con i paesi membri per evitare l’eventualità del temuto veto sul processo di adesione.
Dal canto suo, anche l’Unione europea potrebbe avere qualcosa da imparare dalla accession fatigue dei Balcani, termine ormai quasi tecnico che designa il disincanto dei paesi aspiranti membri che, nonostante lunghi anni di processi di riforma, non riescono a vedere i risultati dei propri sforzi, e che fa da sponda all’enlargement fatigue, che indica lo stesso disincanto verso l’allargamento, stavolta tra i paesi membri stessi.
È chiaro che, se anche l’Ucraina riuscisse ad adempiere ai requisiti tecnici in tempi relativamente brevi, il verdetto finale implicherebbe soprattutto scelte di natura politica. Con l’evolversi degli eventi, sulla strada si porranno altre questioni a dir poco critiche e fondamentali, come la sovranità nazionale e l’integrità territoriale sulle frontiere riconosciute dal diritto internazionale.
La guerra in corso e le incertezze socio-economiche che ne derivano costituiscono una minaccia alla stabilità del paese sul lungo termine. Sebbene la priorità rimanga quella di fornire all’Ucraina gli strumenti per ristabilire una pace giusta e mettere le basi per la ricostruzione del paese, è cruciale pensare al futuro europeo dell’Ucraina già da oggi.
Laureata in Scienze Politiche (Studi sull’Est Europa) e in Governance locale all’Università di Bologna, ha studiato e lavorato in Lituania, Slovenia e Ucraina, dove si è occupata di sicurezza e reti energetiche, comunità locali e IDP. Lavora nel campo dell’integrazione europea, sviluppo locale e osservazione elettorale.