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«Il calcio è l’arte di comprimere la storia universale in 90 minuti», diceva George Bernard Shaw e l’Ungheria non fa eccezione. Seppur lontani, sport, storia e società sono fattori le cui dinamiche risultano, apparentemente e coincidentemente, intersecate fra loro.
Ovunque totalitarismo
Nel 1949, dopo una breve fase democratica, l’Ungheria si trasforma in una Repubblica Popolare e assume le vesti di una nazione filo-sovietica. La propaganda comunista viene somministrata ai cittadini magiari con ogni mezzo possibile, anche attraverso lo sport. Il nuovo allenatore della Nazionale ungherese è Gusztáv Sebes, viceministro dello Sport, presidente del Comitato Olimpico in carica e, soprattutto, fedelissimo al regime. La sua ideologia politica è chiave per comprendere a pieno il suo approccio alla squadra: ispirandosi alla Nazionale italiana e al Wunderteam austriaco, Sebes crede fortemente in un calcio socialista, in cui ogni giocatore è in grado di ricoprire tutti i ruoli in campo di modo da mantenere inalterata la disposizione tattica. La squadra in cui attua questa tecnica è una sorta di unione della Honvéd Budapest e della MTK Budapest altrimenti nota come Aranycsapat, la squadra d’oro.
La squadra dorata
Aranycsapat, la squadra d’oro. Così viene ribattezzata la Nazionale magiara in virtù dei suoi successi. L’Ungheria, infatti, è invincibile e non riesce a smettere di collezionare vittorie. Fra queste, si ricordano il 5-2 contro la Polonia nel giugno 1950 e lo strepitoso 12-0 contro l’Albania nel settembre dello stesso anno. Nel 1952 esordisce come nazionale olimpica ai Giochi di Helsinki, durante i quali segna 20 gol in 5 partite, subendone soltanto 2. Nel 1953 vincono la Coppa Internazionale 1948-1953 con 27 gol segnati e 17 subiti in 8 partite. Questi trionfi calcistici valgono alla squadra la possibilità di giocare a Wembley in occasione del novantesimo anniversario della Federazione britannica contro i “maestri” inglesi. Gli ungheresi stregano definitivamente gli avversari e la partita si chiude con Inghilterra-Ungheria 3-6. I protagonisti sono ovviamente i giocatori. Ferenc Puskás, Nándor Hidegkuti, József Bozsik, Zoltán Czibor e Sándor Kocsis non sono solo dei talenti, ma degli eroi che regalano emozioni e rafforzano negli ungheresi un certo senso di appartenenza di cui in quegli anni il regime comunista ama nutrirsi. Per questo motivo, la Aranycsapat viene eletta simbolo del governo filo-sovietico, con l’obiettivo di sottolineare un parallelismo fra successi sportivi e politici.
Ferenc Puskás, Colonnello fuoriclasse
Adorati dal popolo e venerati in campo, i giocatori della squadra dorata volano non soltanto dietro al pallone, ma fino in cima alle classifiche. Il capocannoniere è Ferenc Puskás, detto anche “il Colonnello” per via del suo grado nell’esercito ungherese. Nasce a Budapest da una famiglia sveva di origini tedesche migrata in Ungheria. Il padre, Franz Sr. decise di “magiarizzare” il suo nome e quello dei familiari, e Ferenc Purczeld divenne così Ferenc Puskás. Ferenc esordisce nel calcio all’età di 13 anni. Inizia a giocare nelle giovanili della Honvéd grazie a suo padre, che a quel tempo ne era l’allenatore dopo una carriera come calciatore. In questa occasione Puskás viene soprannominato őcsi (fratellino, piccolino), tanto era giovane e, da qui, inizierà a crescere come giocatore fino a diventare un fuoriclasse. Agile tiratore mancino, Puskás viene considerato il predecessore di Diego Armando Maradona per visione di gioco e fantasia sul campo.
Nándor Hidegkuti, pioniere rivoluzionario
Insieme a Ferenc Puskás, un’altra delle stelle della Aranycsapat è Nándor Hidegkuti. Come il collega Ferenc, inizia a giocare fin da giovanissimo, a 12 anni. Il suo contributo è di grande portata non solo per la Nazionale magiara, ma per il calcio in toto. A Hidegkuti, infatti, si deve una rivoluzione e rivisitazione del suo ruolo, quello di centravanti. Seppur partendo da centravanti, infatti, Hidegkuti tende a muoversi lungo il campo, ad avanzare e ad arretrare, costringendo così il suo marcatore a lasciare la sua postazione per inseguirlo. Grazie a questa sua intuizione, Hidegkuti verrà riconosciuto come il pioniere di un nuovo ruolo, quello del “centravanti arretrato”.
Dorata e spezzata
Nel vocabolario della Aranycsapat non esiste la parola “sconfitta”, almeno fino al 1954. La stringa di magiche vittorie si spezza a Berna, contro la Germania Ovest durante la finale dei Mondiali dello stesso anno. È il 4 luglio e, nonostante un infortunio alla caviglia causato dal difensore tedesco Werner Liebrich, Ferenc Puskás viene inserito ugualmente nella formazione: giocare senza di lui è impensabile. Ma alla finale del ‘54 Puskás zoppica e non riesce a supportare pienamente la squadra, che perde 3-2. La Germania Ovest non vince solo il Mondiale, ma sconfigge la “squadra d’oro”. Il 4 luglio 1954 è uno spartiacque che segna la fine della Aranycsapat e l’inizio di quella che Luigi Bolognini chiama “la squadra spezzata” nella sapiente analisi del suo omonimo romanzo. La squadra spezzata. La Grande Ungheria di Puskás e la rivoluzione del 1956(Ed. Limina, 2016) è una “serie di storie nella Storia” che ripercorre le sorti dell’Ungheria attraverso gli occhi di Gabor, giovane tifoso della squadra ungherese fin dagli albori. Bolognini analizza le vicende politiche e calcistiche magiare di quel tempo, collegando la sconfitta della “squadra d’oro” ai mondiali alle sanguinose rivolte del ‘56.
Sogni infranti
Quella contro la Germania Ovest non è la prima partita persa dalla nazionale ungherese. Ciononostante, le aspettative nutrite nei confronti di questo match erano altissime e niente sarà più come prima. La sconfitta al mondiale innesca una duplice conseguenza: se da un lato fa crollare la maschera di invincibilità strategicamente promossa dal regime, dall’altro libera gli oppositori di quella ormai stantìa poetica del successo. Stanchi della retorica URSS, coloro che sono contrari al governo iniziano sempre più a manifestare la loro insofferenza fino a insorgere il 23 ottobre 1956. L’11 novembre dello stesso anno la lotta viene soffocata duramente dall’intervento armato delle truppe sovietiche: 2.700 ungheresi persero la vita.
Il Miracolo di Berna
L’esito dei Mondiali del ‘54 innesca una concatenazione di effetti anche in Germania Ovest, la nazione vincitrice. Innanzitutto, i tedeschi non soltanto si sono guadagnati un titolo planetario, ma hanno persino sconfitto la “squadra d’oro” ungherese. L’epicità di questo evento varrà alla partita del 4 luglio il soprannome de “il Miracolo di Berna”. Tuttavia, la conseguenza più rilevante è di carattere sociale. Al termine della Seconda Guerra Mondiale, la Germania era vista soltanto come la terra natìa del nazismo. La sua partecipazione ai Mondiali offre loro un’enorme possibilità di riscatto a livello globale. Quando la Germania vince il Mondiale, tornano l’orgoglio e il patriottismo di essere tedeschi. Per la prima volta dal 1945 viene intonato in pubblico l’inno nazionale tedesco e si pensa che proprio in questa occasione sportiva siano state gettate le basi della futura Repubblica Federale. Cresce inoltre l’entusiasmo nei confronti del calcio, che in un effetto domino porterà la Germania a diventare una delle nazionali più forti della storia. Le prodi gesta del Miracolo di Berna sono disponibili anche in pellicola: l’omonimo film “Il Miracolo di Berna” è il racconto in prima persona del giovane Matthias circa la finale Ungheria – Germania dell’Ovest. Trovate il trailer del film qui. Curiosamente, esiste anche un cortometraggio firmato Lego che ripercorre i momenti salienti della partita. Il cortometraggio è disponibile in due parti su YouTube (parte I, parte II).
Inversione di rotta
Sebbene il regime avesse spento in questo momento l’entusiasmo antisovietico, nel periodo successivo la rotta si inverte e l’occidente inizia a rivalutare in chiave negativa il bolscevismo, strizzando l’occhio ai giovani rivoluzionari. Molti ungheresi decidono di lasciare il Paese per trovare rifugio a Ovest. Fra questi ci sono anche alcuni calciatori della vecchia squadra d’oro che come in una diaspora scappano in fretta e in silenzio da una nazione dove la loro fedeltà all’”ideologia dominante” non trova più terreno fertile. Questa scelta costerà caro ai talenti della Aranycsapat. Allo scoppiare della rivoluzione ungherese, infatti, la Honvéd è in trasferta per giocare una serie di amichevoli in Europa. In questo periodo comincia a diffondersi una notizia falsa sulla sua presunta morte di Puskás: Ferenc sarebbe stato ucciso durante l’insurrezione combattendo fianco a fianco con i rivoluzionari. Nel frattempo in Ungheria la rivolta viene repressa duramente e il governo magiaro ordina alla nazionale di rientrare in patria. Ciononostante, molti giocatori si rifiutano di tornare, venendo meno così anche ai loro incarichi militari e macchiandosi così del titolo di disertori della patria. Il governo decide inoltre di sciogliere la squadra, che verrà anche esclusa dalla FIFA per due anni.
Fuga ed esilio
Fra i giocatori della squadra d’oroche hanno trovato asilo al di fuori dell’Ungheria figura anche Ferenc Puskás, la cui storia di fuga vale la pena di essere ricordata. Avendo deciso di non rientrare in patria, che lo renderà un disertore, fa emigrare clandestinamente la moglie e la figlia, le quali riescono a fuggire e ad arrivare a Vienna. La famiglia Puskás si riunisce a Milano nel 1956 e trascorre il periodo successivo fra Austria e Italia, periodo durante il quale Ferenc continua a giocare e partecipa anche a diverse amichevoli, come quella con il Signa, squadra dilettantistica toscana. All’età di 31 anni, firma un contratto con il Real Madrid sotto gli occhi scettici di tutti, che vedevano Puskás ormai finito e fuori forma. Nel 1961, a 34 anni, Ferenc ottiene la cittadinanza spagnola. Rimarrà nella squadra madrilena fino all’età di 39 anni, vincendo sei campionati spagnoli, tre Coppe dei Campioni, una Coppa Intercontinentale e una Coppa di Spagna. Terminata la sua carriera di calciatore, dà vita alla fase successiva, quella di allenatore. Allena l’Hércules di Alicante, il South Melbourne australiano e il Panathīnaïkos di Atene, con cui raggiunge la finale della Coppa dei Campioni persa poi contro l’Ajax di Cruijff.
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Al contrario dei fuggitivi, altre personalità calcistiche decidono di rientrare in patria e rimanere vicini al regime. Si tratta dei più fedeli al partito, come Sebes, la cui infelice dichiarazione rivela profonda amarezza e ingenua illusione nei confronti del regime: «Se l’Ungheria avesse vinto il Campionato del mondo, non ci sarebbe stata la Rivoluzione del ’56».
Laureata in Lingue e letterature straniere a Milano con le tesi “Immagini gastronomiche nelle Anime Morte di N. V. Gogol’” e “Le dimensioni dell’individualismo e del collettivismo nella quotidianità in Russia e in Italia”, Laura Cogo è attualmente docente di lingua e letteratura. Collabora con Russia in Translation e Ilnevosomostro.