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L’Unione europea a vent’anni dall’allargamento a est: tempo di bilanci

Lo scorso 1° maggio l’Unione Europea ha festeggiato il ventesimo anniversario dallo storico allargamento a est – e non solo – del 2004, sicuramente il più significativo che l’Unione abbia finora vissuto. Il 1° maggio 2004, infatti, dieci paesi – Cipro, Estonia, Lettonia, Lituania, Malta, Ungheria, Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia, e Slovenia – entrarono a far parte dell’Ue, portando il numero di paesi membri da quindici a venticinque. In quell’occasione, l’Ue aumentò la sua estensione geografica di quasi un quinto e più di 74 milioni di persone acquisirono la cittadinanza europea. 

L’allargamento del 2004, poi definito big bang enlargement per via della sua indiscutibile portata, ebbe inoltre un fondamentale significato simbolico: per ben otto dei nuovi membri, che facevano parte del blocco socialista, l’ingresso nell’Unione Europea fu un momento di radicale cambiamento e distacco dal proprio passato. Otto paesi, considerati politicamente ostili per decenni, diventarono parte integrante del comune progetto europeo. 

L’istituzione di forme di governo democratiche e l’implementazione di economie di mercato furono i nodi principali da sciogliere affinché gli otto paesi dell’ex blocco socialista fossero ritenuti pronti a entrare nell’Unione Europea. Lasciarsi alle spalle decenni di economia centralizzata e regimi autoritari per allinearsi con i valori fondanti dell’Ue non fu sicuramente un compito semplice. Quello che stupisce, a questo proposito, è che questa delicata transizione avvenne molto rapidamente: solo quindici anni prima, infatti, la caduta del muro di Berlino aveva segnato simbolicamente la caduta del comunismo e la fine della divisione dell’Europa in due blocchi. 

Le bandiere di tutti i 25 stati membri vengono innalzate per la prima volta sulle note dell’Inno alla Gioia (AP archive)

Una delicata transizione 

Non furono solo i paesi del blocco orientale a manifestare immediatamente la loro volontà di aderire all’Unione Europea e distaccarsi dal passato socialista, ma furono gli stessi paesi membri a sentire la necessità di integrarli. In questo senso, il processo di allargamento del 2004 non fu soltanto visto come un’espansione dei confini dell’Ue, ma fu celebrato come l’inizio del processo di riunificazione del continente europeo. La volontà politica e il reciproco desiderio di portare i paesi dell’Europa orientale sotto l’influenza dell’Ue fecero sì che nella prima metà degli anni Novanta tutti gli otto paesi interessati firmarono un accordo di associazione. 

Ad aprire la strada furono dalla Polonia e dall’Ungheria nel 1991, seguite dalla Repubblica Ceca e dalla Slovacchia nel 1993 (in seguito alla separazione della Cecoslovacchia), dai paesi Baltici nel 1995 e dalla Slovenia nel 1996. La firma degli accordi di associazione, però, non rappresentò altro che un primo passo verso l’ingresso nell’Unione Europea. I negoziati veri e propri, che non furono aperti fino alla fine degli anni Novanta, si conclusero velocemente. I paesi candidati firmarono ufficialmente l’accordo di adesione nel 2003. 

Portare a termine il processo di adesione, e farlo in una manciata di anni, non fu certo un processo automatico per le istituzioni europee, che dovettero assicurare che i paesi dell’Europa orientale fossero preparati al loro ingresso nella Ue. C’erano infatti dubbi sulla compatibilità dei paesi candidati con i valori dell’Unione Europea: si temeva, in particolare, che un prematuro allargamento a est avrebbe portato a un aumento dei tassi di criminalità e corruzione e a una migrazione di massa verso i paesi occidentali, rischiando così di mettere a rischio la solidità dello stesso progetto europeo. 

La necessità di pianificare e monitorare la transizione portarono l’Unione Europea a sviluppare una solida strategia di pre-adesione, supervisionando gli avanzamenti di ogni candidato in vari settori su base annuale a partire dal 1998. Una delle priorità era chiaramente la liberalizzazione dell’economia; altrettanta importanza venne data al rispetto dei diritti fondamentali dei cittadini, alle riforme del sistema giudiziario e alla lotta contro la corruzione. 

Allargamento a est: un successo dal punto di vista economico 

Non ci sono dubbi sul fatto che l’allargamento a est sia stato un successo dal punto di vista economico. L’obiettivo dichiarato di ridurre significativamente il divario economico tra paesi occidentali e orientali, garantendo contestualmente una solida crescita al resto dell’Unione, si può infatti dire raggiunto: negli ultimi vent’anni, l’economia dell’Ue è cresciuta del 27% e, nello specifico, la crescita dei nuovi membri si è quasi sempre attestata sopra la media comunitaria.

Nel riportare questi dati positivi, bisogna chiaramente tenere in considerazione che le regioni orientali dell’Ue restano le principali beneficiarie delle politiche di coesione, ovvero di fondi specifici stanziati per favorire la crescita delle regioni meno sviluppate (il cui PIL corrisponde a meno del 75% della media europea). Per avere un’idea della portata di questi fondi, basta considerare che, a partire dal suo ingresso nell’Ue, la Polonia ha ricevuto più di 200 miliardi di euro attraverso le politiche di coesione.

Il pericolo delle derive illiberali

Anche sul piano politico e sociale, l’allargamento a est può essere considerato, mediamente, un successo. I progressi per quanto riguarda il rafforzamento dello stato di diritto, la trasparenza degli apparati giudiziari, il miglioramento delle libertà personali, e la riduzione della corruzione non possono essere negati. Ciò nonostante, lo sviluppo di democrazie solide, allineate con i valori fondanti dell’Ue, non si può dire completo. 

Se i partiti nazionalisti e conservatori si sono rafforzati negli ultimi anni in tutto il continente europeo è sicuramente degno di nota il fatto che le derive illiberali più longeve e preoccupanti riguardano paesi protagonisti dell’allargamento a est. Le vittorie di Petr Pavel in Repubblica Ceca e Robert Fico in Slovacchia alle elezioni del 2023 hanno avvicinato questi due paesi a delle posizioni conservatrici e antidemocratiche; i casi che però evidenziano in maniera più eclatante il deficit democratico interno all’Ue sono quelli di Polonia e Ungheria.

Da quando è diventato il primo ministro dell’Ungheria nel 2010, Viktor Orbán si è posto in netto contrasto con le istituzioni e le politiche europee, assumendo, negli ultimi anni, un atteggiamento propriamente di sfida. Alla fine del 2022, la Commissione europea ha deciso di bloccare una parte dei fondi di coesione destinati all’Ungheria perché il paese non rispettava le necessarie condizioni di indipendenza giudiziaria e di rispetto dei diritti delle minoranze. Questa decisione è stata vista come un ricatto politico e un’intrusione negli affari interni del paese, continuando ad alimentare l’ostilità esistente tra l’Ungheria e l’Ue. 

La situazione poteva diventare ancora più grave in Polonia, che ha rischiato di subire l’applicazione dell’articolo 7 del Trattato sull’Unione Europea (un meccanismo che prevede la sospensione di alcuni diritti degli stati membri, tra cui quello di voto, in caso di serie violazioni dello stato di diritto). La sostanziale perdita di consensi del partito conservatore Diritto e Giustizia alle elezioni del 2023 ha sicuramente segnato un cambio di rotta rispetto alle politiche apertamente nazionaliste e anti-europee implementate negli otto anni precedenti. La procedura riguardante l’articolo 7 è stata sospesa nel maggio del 2024, quando la Commissione europea ha decretato che la Polonia aveva implementato le necessarie azioni legislative e non per migliorare lo stato della democrazia del paese. 

È doveroso però notare che, nonostante le istituzioni europee abbiano il potere di bloccare lo stanziamento di fondi o di sospendere alcuni diritti fondamentali degli stati membri, non è prevista dai trattati su cui l’Ue si basa nessuna misura più incisiva contro le derive illiberali. L’eccessivo potere nelle mani di forze conservatrici e nazionaliste resta dunque un pericolo che, se non attentamente contrastato, rischia di minare la stabilità dei valori europei dall’interno.  

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Giulia Lisdero
Giulia Lisdero

Laureata in Studi Interdisciplinari e Ricerca sull’Europa Orientale, ha vissuto un po’ ovunque nei Balcani occidentali. Si interessa di tutto quello che è successo e succede al di là del muro di Berlino. Lentamente, sta imparando il serbo-croato.