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Questo articolo inaugura una serie di contributi, firmati da Sergio Pilu, che ci porterà a toccare diverse realtà dei Balcani. Sono esperienze personali, vissute in prima persona e per questo saranno raccontate con uno stile leggermente diverso da quello al quale siete abituati sulle nostre pagine. Abbiamo pensato che quella di mantenere una maggiore vicinanza fra l’autore e i soggetti raccontati fosse la strada migliore per trasmettere a chi legge un senso di prossimità e di immedesimazione.
Piccolo mondo antico, sette giorni su sette
La sinagoga di Spalato sta in un vicolo della città vecchia, nascosta in bella vista sotto gli occhi di migliaia di turisti che si perdono nel labirinto del Palazzo di Diocleziano. Faccio segno a mia moglie, che mi sta raggiungendo dopo essersi fermata sospirante a visitare, di tutti i negozi possibili, uno che vende palle di Natale trecentosessantacinque giorni l’anno: oggi incluso, anche se ormai siamo a Ferragosto.
“Sei sicuro?” mi dice con un’espressione scettica ma la mia fiducia nei navigatori e nelle loro mappe è più forte dell’aspetto improbabile di questa viuzza che potrebbe tranquillamente essere un carrugio genovese o una calle veneziana. Saliamo i pochi scalini che conducono a una porta di legno alla quale bussiamo per essere accolti poco dopo da un signore elegante e gentile che ci riconosce subito come italiani.
Memore degli asciutti e rigidi orari di apertura della sinagoga di Trieste e delle interminabili chiusure di quella di Sofia chiedo se è aperto, se possiamo entrare: “Certo che siamo aperti” mi risponde l’uomo in un italiano che già si preannuncia molto più buono di quanto ci potessimo augurare. Lo seguiamo lungo le due rampe di scale di marmo, a metà delle quali sta un arazzo che augura il benvenuto in tre lingue e due alfabeti, che ci portano fino all’Aron haQodesh, l’arco di marmo nero che custodisce la Torah. Il signore elegante e gentile inizia a raccontarci la storia della sinagoga, uno dei più antichi templi sefarditi europei costruito nel Cinquecento unendo due case medievali. Ci parla degli ebrei cacciati dalla Spagna e accolti a braccia aperte dal Sultano, dei tempi d’oro della Dalmazia, di un passato nobile e ricco. Lo fa con una grazia e una proprietà di linguaggio che la nostra attenzione e la nostra curiosità si spostano inevitabilmente su di lui.
Dalla pace ad Auschwitz
L’uomo che ogni giorno apre la sinagoga di Spalato si chiama Albert ed era, prima di andare in pensione, un cameraman della televisione jugoslava e poi croata. Ha pezzi di famiglia ad Asti, a Padova e a Cassano d’Adda, si ricorda del negozio Lacoste che stava dietro il Duomo a Milano, snocciola nomi di famose famiglie ebree i cui cognomi si sono adeguati alle congiunture storiche, racconta di conversioni discusse ma comprensibili e sa spiegare con chiarezza da divulgatore televisivo la manovra da fare per entrare nel porto di Pescara. Ascoltandolo cerco di immaginarmi come fossero le immagini che girava, se piatte e insignificanti come da cliché dell’informazione di regime o se ci si poteva trovare dentro lo scintillio personale di quest’uomo amabile, curioso e colto.
Gli chiediamo della guerra, della Seconda guerra mondiale perché in quei tempi bui la Croazia era uno stato fantoccio che rispondeva a Hitler. “Sotto il fascismo italiano abbiamo vissuto tranquillamente” dice. Omette di ricordare, non posso dire se perché all’epoca dei fatti aveva solo cinque anni o se per cortesia nei nostri confronti, che gli ebrei di Spalato vennero considerati soggetti pericolosi, che a differenza di altre comunità sotto dominazione italiana a loro vennero applicate le leggi razziali e che nel 1942 i soldati italiani di stanza in città si mischiarono alla folla che devastò la sinagoga e saccheggiò decine di case di ebrei: dopo settant’anni i ricordi sono una materia scivolosa.
In un angolo nascosto della città vecchia di Spalato, un uomo senza Dio apre ogni giorno le porte della Sinagoga per tenerla in vita.
Verso la fine del 1941 più di un migliaio di ebrei in grande maggioranza croati vennero mandati in campi di internamento italiani, partendo proprio dal porto di Spalato; ma non tutti poterono partire perché la nostra disponibilità si esaurì in pochi mesi, non tutti vollero lasciare la propria casa forse perché comunque in effetti le condizioni di vita non erano delle peggiori. Arrivarono i partigiani titini e ammette scuotendo la testa che “avremmo dovuto dargli retta, ci volevano mandare in Italia dove c’erano gli alleati; invece siamo rimasti, sono arrivati gli ustaša e i nazisti e 111 di noi sono finiti ad Auschwitz”.
Indica la grande lapide sulla quale sono riportati i nomi delle vittime spalatine della Shoah, con un’espressione nella quale si mischiano incredulità e una specie di rassegnazione a distanza. “Dopo la guerra, sotto Tito, stavamo bene” continua a raccontarci dopo che gli abbiamo chiesto come era avere a che fare con un regime che non guardava di buon occhio qualunque tipo di manifestazione religiosa: “Il suo cardiologo e uno dei suoi migliori amici erano ebrei, anche la moglie lo era per un pezzetto”.
Aprire ogni giorno, per restare vivi
Mia moglie gli parla con il piacere che le riconosco quando si trova di fronte alle buone maniere, quelle apprese e ancora di più quelle innate. Lui le si rivolge con quella capacità di dedicare attenzione incondizionata a un soggetto che, immagino, faceva parte integrante del suo bagaglio professionale; per qualche minuto li lascio da soli, ci separiamo, io a girare il piccolo spazio sacro per fare qualche fotografia ai candelabri, ai libri, ai segni di una cultura e di una storia che non smettono di affascinarmi da quando li ho conosciuti per la prima volta tanti anni fa e loro a conversare come se si conoscessero da molto più della mezz’ora nella quale ci siamo imbattuti quasi per caso.
“Apriamo tutti i giorni” ci dice “nessuno di noi cento rimasti è credente, siamo cresciuti in un mondo nel quale non c’era spazio per la religione; ma viene sempre qualcuno, visitatori come voi o gruppi con un rabbino che sa officiare i riti ed è giusto che trovino la sinagoga aperta per ospitarli”. Non riesco a non chiedergli della guerra degli anni Novanta, è veramente più forte di me, voglio sapere in che rapporti gli ebrei di Spalato sono con i musulmani visto che la Bosnia e Mostar stanno a due passi. “Ottimi”, sorride e fa un cenno con la testa accompagnato da un microscopico movimento delle spalle: “Il centro islamico è qui nel nostro stesso palazzo, siamo vicini di casa, sono degli amici”. Dei serbi, quelli che bombardarono anche qui, non parla, e io non chiedo: oggi voglio tenere solo le buone notizie, come se fosse un giorno di festa.
Uscendo, il signor Albert ci mette in mano un piccolo volantino che ricorda la vita e la storia della sinagoga aperta cinquecento anni fa e tenuta in vita da chi non crede più in quel Dio e nemmeno in un Dio. Mentre ci rimettiamo nel flusso incessante dei turisti ci dice “Arrivederci, grazie per essere venuti”. Oggi, dopo molto tempo durante il quale mi sono trovato a pensare spesso e senza preavviso al suo piccolo e prezioso esempio di impegno gratuito e disinteressato, mi pento di non aver avuto la prontezza di rispondergli “no, si fidi, grazie a lei per molto altro, per tutto il resto”.
Si guadagna da vivere come marketing manager di un’agenzia di comunicazione. Conosce e frequenta i Balcani per motivi professionali e personali da una quindicina d’anni e ha scritto due libri: Zona di alienazione su Čornobyl’ e Il Tunnel sul suo viaggio in Bosnia.