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Il “Vera Menchik Chess Club”, ovvero come gli uomini impararono a giocare a scacchi da una donna

di Gianmarco Pane*

È il 30 luglio del 1929. A Karlovy Vary, allora Karlsbad, in Cecoslovacchia, al Kurhaus Imperial Bath Hotel, luogo di villeggiatura estiva dei ruggenti anni Venti, inizia un prestigioso torneo di scacchi internazionale. È la quarta edizione a venire ospitata in città dall’inizio del secolo, e gareggiano i più noti e talentuosi scacchisti del tempo. Fa eccezione soltanto Aleksandr Alechin, campione del mondo in carica, e presente in loco solo in veste di cronista.

Ventidue giocatori. Ventuno uomini. Una donna: Věra Francevna Menčíková, conosciuta semplicemente come Vera Menchik.

Il primo round della campionessa si chiude con una sconfitta dopo una combattuta lotta contro lo scacchista britannico Fred T. Yates. Nemmeno il secondo turno, nella giornata del primo agosto, è fortunato: Paul Johner ha la meglio su di lei in 37 mosse.

La leggenda narra che dopo queste prime sconfitte Albert Becker, scacchista austro-argentino, dichiarò sarcasticamente che, nei giorni successivi, sarebbe nato un esclusivo club scacchistico: l’altisonante e prestigioso Vera Menchik Chess Club. Per entrare nel ristretto circolo bisognava soltanto perdere un match contro Miss Menchik; l’eventuale pareggio sarebbe stato sufficiente invece per ricevere la promozione a candidato-membro.

Facile ironia e indelicate battute risuonarono quindi tra i colonnati del Kurhaus Imperial Hotel, accogliendo la fondazione dell’immaginario Club, tra coppe di champagne e cameratesche fumate di sigaro.

Al terzo turno si ritrovano a giocare l’una contro l’altro Vera Menchik e proprio Albert Becker. Dopo aver assorbito con facilità gli attacchi nemici e aver scomposto pazientemente la difesa avversaria in partita, la vittoria di Menchik su Becker fu inevitabile; così come diventò esecutiva la nomina di quest’ultimo a primo membro del temutissimo Vera Menchik Chess Club, per ironia della sorte.

L’infanzia in Russia e una giovinezza da emigrata

Vera Menchik nacque il 16 febbraio 1906 a Mosca, l’anno che seguì i sanguinosi tumulti della prima rivoluzione russa. La Russia era un paese diviso tra il vento del cambiamento che sarebbe diventato reale con le rivoluzioni del 1917 e un sistema sociale, economico e politico che non riusciva ad abbandonare del tutto la pesante eredità feudale del mondo zarista.

La famiglia di Vera apparteneva alla medio-alta borghesia: il padre, di origini boeme, era un amministratore di possedimenti nobiliari; la madre, invece, di cittadinanza inglese, una governante e tutrice privata. Non ci sono notizie più precise circa la famiglia nobiliare presso la quale prestassero servizio i genitori di Vera, né informazioni più dettagliate sulla loro storia familiare.

La Rivoluzione d’Ottobre del 1917 portò notevoli stravolgimenti alla vita familiare dei Menčik. Il padre perse il suo status e i possedimenti sui quali era estesa la sua amministrazione vennero confiscati. Una parte stessa dell’appartamento della famiglia a Mosca venne requisita e utilizzata da una delle prime amministrazioni provvisorie della città, per ospitare famiglie indicate dal Consiglio cittadino dei Soviet, costringendo la famiglia della prima campionessa a una condivisione forzata.

Una vita decisamente più ristretta e disagiata forse contribuì ad accrescere i malcontenti tra i coniugi, che divorziarono negli anni immediatamente successivi alla Rivoluzione d’Ottobre.

Mrs Olga Illinworth, madre di Vera, fece quindi ritorno in Inghilterra con le figlie Vera e Olga, sorella minore della campionessa, tra il 1920 e il 1921, mentre il padre si trasferì nuovamente in Boemia.

L’arrivo in Inghilterra, in particolare nei pressi della città di Hastings, non fu preludio di anni facili per le sorelle Menchik. La lingua inglese, nonostante le origini della madre, non era mai stata parlata attivamente in famiglia, e Vera fece molta fatica a inserirsi nell’ambiente scolastico e sociale del nuovo paese. Riuscì a oltrepassare le barriere linguistiche, i pregiudizi sul suo esser straniera e, per non lasciar morire il proprio interesse per gli scacchi, lo inseguì fino a riuscire ad essere ammessa nel prestigioso Hastings Chess Club, nel marzo del 1923.

Ebbe due maestri al suo interno, dei quali il secondo fu il maestro ungherese, Géza Maroczy, che divenne per un certo tempo suo mentore e allenatore. La stima tra i due non cambiò mai nel tempo e si ritrovarono anche, negli anni successivi, a partecipare a diverse competizioni sui lati opposti della scacchiera.

Sulla disciplina degli scacchi oltre il meridiano 13, leggi anche: Scacchi e buddismo nelle steppe della Calmucchia

Sulla scacchiera: senso della posizione e cautela

Fu proprio sotto la guida del gran maestro ungherese che lo stile di gioco della campionessa ricevette la sua impronta caratteristica.

Il suo non era certo un modo di giocare “spettacolare”. A eccezione di alcuni incontri, fu molto difficile vederle eseguire indomiti sacrifici di pezzi o tatticismi rocamboleschi, che conducessero la partita a clamorosi ribaltamenti. L’approccio di Vera era al contrario cauto e posizionale, e i suoi punti di forza risiedevano in una grande solidità e sicurezza nella conduzione del gioco, uniti a una penetrante visione sull’evoluzione della partita e nel trarre piccoli vantaggi dalle debolezze avversarie.

Vera Menchik durante un torneo di scacchi nel 1934 (Wikimedia Commons)

In quanto donna veniva spesso sottovalutata dai colleghi: sia per irrinunciabile sessismo, sia per i modesti risultati ottenuti dalla prima delle regine degli scacchi nei tornei più blasonati.

A prescindere da questa considerazione, tuttavia, Vera era temuta da tutti i più noti scacchisti del tempo e fu in grado di mettere in imbarazzo diversi tra loro. Furono tesserati come membri del Vera Menchik Chess Club storici giocatori e teorici degli scacchi come Mir Sultan Khan, Max Euwe (campione mondiale 1935-37 e futuro presidente della Federazione internazionale degli scacchi – FIDE), Fred Yates, Edgar Colle e Friederich Sämisch, solo per citarne alcuni.

Essere donna in un mondo di uomini

Era l’unica donna che sapeva giocare come un uomo.

[Salo Flohr]

Persino dai complimenti è evidente tutto il peso della predominanza maschile nella disciplina scacchistica del tempo. Il sessismo nei confronti delle donne non era ancora argomento di accesi dibattiti come oggi, e la sensibilità era di ben altro tipo in merito alla partecipazione delle donne agli sport o in discipline come gli scacchi.

Le argomentazioni sulla capacità delle donne di eguagliare gli uomini nella sfida sulle sessantaquattro case sono basate ancora, nel modo di ragionare di alcuni grandi maestri, su convinzioni certamente anacronistiche e datate (come ad esempio quella che il verificarsi del ciclo comprometta in modo assoluto le capacità di calcolo femminili) e che spesso non spiegano a fondo i motivi per i quali non compaiono attualmente i nomi delle donne (anno 2024), nella classifica ufficiale dei primi venti giocatori di scacchi al mondo per punteggio ELO (il sistema di valutazione delle performance dei professionisti della scacchiera).

La scacchista ed ex campionessa statunitense Jennifer Shahade ha evidenziato e smontato molti di questi preconcetti nel suo libro Chess Queens. The True Story of a Chess Champion and the Greatest Female Players of All Time, mettendone in luce la fallacia logica e mostrando come il giudizio maschile pesi ancora nella considerazione degli scacchi come disciplina for men only.

I campionati femminili e i duelli con le altre campionesse

Se nelle sfide con gli uomini i risultati non furono costanti e le vittorie non molte, tenendo comunque in considerazione la qualità di diverse partite rimaste negli annali scacchistici, il discorso è ben diverso quando si guarda alle competizioni femminili, dove Vera Menchik impose la propria abilità per molti anni, mantenendo il titolo, attribuito postumo, di campionessa mondiale di scacchi imbattuta fino al 1939.

All’epoca non esisteva una sfida per il titolo di campionessa del mondo, da disputarsi in un match tra una detentrice del titolo in carica e una sfidante emersa da una serie di competizioni indicate allo scopo. Le sfide per il titolo di campionessa femminile, dal 1927 al 1939, venivano tenute in concomitanza con l’avvicendarsi delle Olimpiadi di scacchi. La detentrice del titolo non aveva alcun vantaggio sulle altre all’inizio del torneo e le gare venivano pianificate in base a un girone unico, dove tutte le partecipanti avevano le stesse identiche possibilità di vincita o eliminazione dalla competizione in base ai punteggi ottenute in sfide dirette.

È pertanto notevole che per così tanti anni Vera Menchik riuscì a difendere il titolo, addirittura non perdendo nessuna partita in alcune delle edizioni.

Passò alla storia degli scacchi la rivalità con la scacchista tedesca Sonja Graaf-Stevenson. Le due si scontrarono in due match tenutisi a Semmering, in Austria, nel 1934 e nel 1937, vinti entrambi da Vera Menchik. Era palese il contrasto tra le giocatrici, in termini di stile e di carattere. Sonja Graaf, che ebbe come mentore un illustre scacchista del calibro di Siegbert Tarrasch, aveva un gioco più aggressivo in partita, che trovava riflesso anche nelle apparenze e nelle mode; vestiva spesso infatti con abiti maschili, mantenendo una sigaretta accesa, e alzandosi a guardare le altre scacchiere mentre aspettava la mossa avversaria, in una passeggiata agile tra i tavoli, ma nervosa e altera.

Ribelle e anticonformista, era evidente il confronto con la campionessa, anche lei di indole risoluta, ma di modi decisamente più pacati, e che non lasciavano trasparire, magari per rigida educazione familiare, apparente scortesia o volontà di protagonismo. È probabile che, nonostante la differente visione della vita, le due nutrissero profondo rispetto l’una per le capacità dell’altra.

È curioso notare la differente bandiera e nazionalità che venne riconosciuta a Menchik a seconda dell’anno in cui le Olimpiadi e i campionati femminili di scacchi furono tenuti. Se nella prima edizione del 1927 la bandiera attribuita fu quella dell’Unione Sovietica, nelle successive competizioni Menchik gareggiò sotto la bandiera della Repubblica Cecoslovacca, in quanto fino al secondo dopoguerra l’Unione Sovietica non fece più parte ufficialmente della FIDE.

Nonostante il lustro portato al gioco nel corso di più di un decennio, Vera Menchik dovette aspettare il 1939 prima di ottenere la cittadinanza britannica e gareggiare quell’anno per il Regno Unito.

Lo scoppio della Seconda guerra mondiale pose tuttavia una brusca interruzione a molte discipline internazionali, e gli scacchi subirono la stessa sorte.

Lei continuò a contribuire alle proprie finanze, dando lezioni private, esibendosi in partite simultanee con diversi sfidanti e redigendo alcuni articoli di natura tecnica sul gioco per le riviste specializzate.

Non sappiamo cosa stessero facendo il 6 giugno del 1944 le tre donne della famiglia di Vera nella loro casa nella zona di Clapham, a sud di Londra. Non fecero in tempo a raggiungere il rifugio antiaereo vicino, quando una bomba V-1 distrusse gran parte dell’isolato e la loro abitazione.

Consistente parte della biografia di Vera Menchik è frammentata e la sua memoria rischia di perdersi visto lo scarso interesse suscitato negli storici. Tuttavia, senza le battaglie che la videro protagonista, e che furono perlopiù lotte silenziose e quasi inosservate, non ci sarebbe una “questione femminile” di cui discutere negli scacchi.

Va ricordato poi il rapporto straordinario con i campioni dell’epoca, da José Capablanca ad Aleksandr Alechin, passando per Max Euwe, e molti altri ancora, i quali, pur non considerandola al loro livello, non poterono fare a meno di riconoscerne il valore e di avere uno scambio autentico e alla pari con questa Signora del bianco e nero.

*Gianmarco Pane, registrato all’anagrafe italiana come Giovanni Marco. Siciliano di nascita e adottato dalla Regione Veneto, ha trascorso gli anni universitari a Venezia conseguendo la laurea triennale in lingue. Lavora attualmente nel settore sanitario come amministrativo nei pressi di Milano, ma nonostante le esigenze di lavoro si ostina a mantenere la propria indefessa passione per la recitazione, il cinema, il teatro e gli scacchi.

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Redazione
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