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Questo articolo è stato originariamente pubblicato su Q Code Magazine. Il viaggio alla “frontiera anatolica” è avvenuto nel novembre 2019. Abbiamo scelto di ripubblicarlo adesso in considerazione del fatto che i negoziati per la riapertura del confine tra Armenia e Turchia prevedono la ricostruzione di un ponte attraverso il confine ad Ani, un luogo di particolare importanza simbolica di cui si parla diffusamente nel pezzo.
La Turchia è una meta turistica conosciuta in Italia e nel mondo. L’area orientale dell’Anatolia, però, non è interessata dal flusso di visitatori: stranieri e turchi occidentali preferiscono evitare una zona che, a torto o ragione, ritengono pericolosa. A spingerci a intraprendere il viaggio è l’aura di mistero in cui la regione rimane avvolta. Volevamo scoprire le bellezze naturali e i luoghi di interesse culturale per dare un’immagine diversa di queste aree al confine con Armenia, Georgia e Iran.
La scelta di viaggiare in autunno non è stata casuale, l’Anatolia orientale è caratterizzata da inverni rigidissimi e ci sembrava logico visitarla nella condizione in cui si trova nella maggior parte dell’anno. Le tappe, invece, sono state scelte in base a criteri disparati che non seguono un vero e proprio percorso logico: Van per il suo lago, Kars per il romanzo “Neve”, Ani per le sue chiese, e altre tappe lungo il percorso.
Come i mercenari greci nell’Anabasi di Senofonte, dopo aver vagato nell’entroterra dell’Asia minore, ci siamo diretti verso il mar Nero, passando da due regioni particolari della Georgia: il Samske-Javakheti, conosciuta anche come la Siberia del Caucaso, e Batumi, città di mare e di frontiera.
Van: la fenice dell’Anatolia
L’aereo raggiunge un’enorme distesa d’acqua azzurra in mezzo alle montagne innevate e inizia a scendere. Il lago di Van appare così a chi arriva in volo dalla Turchia occidentale in una giornata di bel tempo. Sfioriamo la superficie del lago per poi atterrare su una pista a pochi metri dalla riva. Sul piazzale assolato dell’aeroporto i passeggeri si scattano dei selfie con lo sfondo dell’aereo e delle montagne.
Alle porte di Van, una statua dall’aspetto sinistro di due gatti bianchi con un occhio verde e uno blu accoglie i visitatori, la città si fregia di essere la terra di origine del famoso gatto di Van. Per le strade, però, di felini se ne vedono pochi, a dominare la scena sono i cani randagi, immensi pastori che girano in cerca di cibo, compagnia e, soprattutto, cantucci caldi per passare la notte.
Van sorge su una collina a qualche chilometro dal lago omonimo. Nonostante sia un centro abitato antichissimo, ha un aspetto moderno, con strade dritte e palazzoni di cemento. La città è, infatti, crollata e risorta due volte nel corso dell’ultimo secolo. Nel 1916, durante la Prima guerra mondiale, contesa tra russi e turchi, è stata interamente rasa al suolo dai bombardamenti. Nel 2011 è stata danneggiata da un forte terremoto, che ha ucciso più di duecento persone e portato ad una nuova ricostruzione.
Sulla cima di una collina sulla riva del lago sorge un’antica fortezza circondata dai resti della città distrutta dalla guerra. Dalle mura del castello si gode di una vista del lago, delle montagne e della nuova Van. Al calar del sole, da tutte le direzioni arrivano i canti dei muezzin.
Dopo il tramonto, nonostante il freddo, la città si anima. Il venerdì sera tipico prevede una cena presto, una passeggiata per le vie del centro e un numero indefinito di bicchierini di tè in una delle numerose cay evi (case da tè). In alternativa, la shisha e le partite del campionato turco.
In un vicolo pedonale del centro, buttadentro vestiti coi colori delle squadre che stanno giocando fanno a gara per invitare i clienti nei locali. All’interno, gli avventori sono seduti in fila, come al cinema. Il calcio si guardano bevendo tè e sgranocchiando, senza sosta, semini di girasole, i cui gusci hanno ormai formato uno strato che copre il pavimento. La nostra presenza desta più curiosità della partita stessa, il cui risultato è già segnato alla fine del primo tempo.
La conversazione, limitata da una conoscenza elementare del turco e supportata da Google Translate, spazia dai nostri nomi e professioni alla domanda che ci rivolge il cameriere del locale: “Cosa ci fate qui? E soprattutto, perché siete venuti in autunno? Fa freddo!”. Lasciamo il cameriere all’ingrata incombenza di spazzare le montagne di gusci dal pavimento, senza una vera risposta alla domanda.
Nei weekend in città ci si risveglia con la celeberrima, in Turchia, colazione di Van. Un vicolo del centro, soprannominato kahvaltıcılar sokagi, via delle colazioni, ospita una serie di locali specializzati. La solita schiera di buttadentro compete per i clienti, numerosi già di prima mattina. La colazione prevede: formaggio, burro, miele, salumi, olive e uova. Il concetto di pasto più importante della giornata viene preso seriamente da queste parti!
Le caserme di Tatvan
La stazione dei pullman di Van è un caos organizzato. La sala d’attesa è piena di famiglie accampate su tappeti stesi sul pavimento, bambini che corrono, anziani che bevono il tè e dipendenti delle compagnie di bus che chiamano i passeggeri. Iğdır, Dogubayazit, Diyarbakir, ma anche Istanbul, Ankara e Izmir: i cartelli delle destinazioni appesi su tutte le superfici disponibili danno idea delle dimensioni della Turchia.
La strada verso Tatvan corre lungo la sponda meridionale del lago. Il paesaggio è meraviglioso con la distesa d’acqua azzurra da una parte e le montagne innevate dall’altra. Più ci si sposta verso ovest, più aumenta la presenza di militari, rovinando questo quadro idilliaco.
I paesini sperduti che si vedono lungo il percorso sono presidiati da basi militari, vere e proprie fortezze sulle cime delle colline con mura di cemento e cannoni puntati verso la strada. Nel giro di un centinaio di chilometri, l’autobus viene fermato in tre posti di blocco presidiati da soldati e autoblindo; il checkpoint all’ingresso di Tatvan sembra una frontiera di stato. Ad ogni controllo vengono richiesti i documenti di tutti i passeggeri, la procedura è relativamente rapida e non ci vengono fatte domande.
Tatvan è una piccola città rurale con una lunga passeggiata sul lungolago con vista sul porto. L’onnipresente polizia militare che pattuglia le strade a bordo di autoblindo da al luogo un aspetto lievemente sinistro.
Proprio in mezzo alla passeggiata, poi, sorge un isolato circondato da un muro sormontato da filo spinato e presidiato dai militari. Quartieri simili si trovano in tutte le città della zona. Sono le abitazioni delle famiglie dei soldati e dei dipendenti pubblici provenienti da altre regioni della Turchia che, di regola, devono passare parte della loro carriera nelle provincie est del paese. Ricevono degli stipendi maggiorati per un periodo in quella che può essere descritta come una frontiera, deve, però, essere strano vivere isolati dal resto della popolazione.
Alla sera capiamo il motivo di una presenza così massiccia di militari. Al ristorante il proprietario ci chiede: “Sapete in che paese siete? Non siete in Turchia, siete in Kurdistan”. Dopo cena andiamo in una delle fumose case da tè tradizionali sulla via principale della città. Il locale è illuminato fiocamente da lampadine luminescenti e riscaldato da una stufa a legna. Non facciamo in tempo a sederci che dei ragazzi ci invitano a unirsi a loro. Si passa dalle classiche domande sulla nostra provenienza, religione, professione e sul perché siamo qui, ad argomenti più delicati.
Ci viene chiesta la nostra opinione sull’operazione “Sorgente di Pace”, l’offensiva turca nel Kurdistan siriano. I ragazzi sono curdi e ci spiegano di aver studiato il turco a scuola, ma di parlare curdo in famiglia. Dopo una mezz’ora di conversazione, davanti al locale, appare una camionetta della polizia. Veniamo perquisiti e ci controllano i documenti: “È per la vostra sicurezza” ci rassicura uno dei nostri anfitrioni che, nel frattempo, prova a scherzare coi poliziotti.
L’atmosfera, prima conviviale, è rovinata; con le notizie sulla Turchia degli ultimi anni e quanto abbiamo visto a Tatvan, inevitabile che sorgano dei dubbi. Si è trattato di un incontro casuale o un modo delle forze di sicurezza di capire chi fossero i due stranieri in città? Come ha fatto la polizia a trovarci? Chi l’ha chiamata? Sono domande irrisolte che disturbano il nostro sonno.
Una nave tra le montagne
Tatvan si allontana nel sole dell’alba e la vista si apre sul lago. La nave si inoltra al largo nell’acqua azzurra, all’orizzonte si intravedono le cime delle montagne coperte di neve. Lasciare la città è un sollievo, l’incontro con la gendarmeria ci ha lasciato un senso d’inquietudine che si è aggravato al mattino quando, nel piazzale deserto del porto, un gruppo di soldati ci ha chiesto i documenti e se parlassimo curdo.
Soddisfatti delle nostre risposte, alla vista dei nostri passaporti europei, ci hanno provocatoriamente congedato con il saluto militare, con tutti i sottesi politici che abbiamo imparato a conoscere in questi mesi.
Siamo in viaggio per Van su un traghetto carico di vagoni. Queste navi svolgono l’importante funzione di collegare la ferrovia per Ankara a quella per Teheran. Le due capitali sono separate da una serie di catene montuose, ma l’ostacolo più grosso per il trasporto ferroviario è questa distesa d’acqua a duemila metri di quota. I traghetti non hanno orari precisi, basandosi sul traffico dei treni. Scoprire quando partono è stata un’impresa, ma questo viaggio, così particolare, è imperdibile.
Dopo quattro ore di freddo, vento, ma soprattutto, paesaggi spettacolari, ci avviciniamo a Van, la cui fortezza appare sullo sfondo della città. Mentre sbarchiamo gli operai iniziano celermente a scaricare i vagoni, con la locomotiva che corre su e giù per il molo. Fin quando non verrà costruita una ferrovia intorno al lago queste operazioni rimarranno all’ordine del giorno, animando i porti di Tatvan e Van.
Lago e montagne visti dalla nave (Niccolò Alario)
I cavalcavia di Ağrı
Non ci fermiamo a Van, questa volta è solo una tappa del percorso verso nord. Ripassiamo dal caos organizzato della stazione dei pullman e partiamo subito. Col buio raggiungiamo Ağrı, un capoluogo di provincia sperduto in una valle dell’Anatolia.
La cittadina si presenta avvolta dalla nebbia, con l’odore acre del carbone usato per riscaldare che ci riempie le narici. Ağrı è interessante come esempio di città della regione che non è turistica e non si trova su una qualche via di comunicazione. Ha un aspetto dignitoso, un paio di vie pedonali con ristoranti, le immancabili case da tè e gli altrettanto onnipresenti cavalcavia e sottopassi che il governo turco sembra considerabile parte irrinunciabile di un qualsiasi piano di sviluppo urbano anche nelle regioni più remote del paese.
Nell’edificio più fatiscente del centro, troviamo uno degli alberghi a basso costo tipici della zona. Questo tipo di strutture è l’ideale per chi vuole risparmiare e non è troppo schizzinoso. Si riconoscono dalla scritta Otel sulla facciata, dalla mobilia anni cinquanta, e da un certo odore proveniente dai bagni comuni. Come punti positivi, oltre al prezzo, i proprietari sono sempre disponibili e cordiali.
Di Ağrı non rimarrà molto in mente oltre agli strani cavalcavia deserti, al mattino è tempo di rimettersi in moto verso il nord, verso la steppa al confine con l’Armenia.
Kars, la città della neve
Kars è la “frontiera” per eccellenza della Turchia, posizionata com’è su un altopiano gelido in mezzo alle montagne, con i confini di Georgia e Armenia a pochi chilometri. Per le strade della città, rimasta isolata durante una tempesta di neve, Orhan Pamuk ha ambientato le vicende surreali del suo celebre romanzo “Neve”.
Nel libro, Pamuk spiega le origini del carattere peculiare di Kars dove, nel passato, viveva un’agiata borghesia arrichitasi grazie al fatto di trovarsi sulla via dei commerci con il Caucaso e l’Iran. La città è passata, tra il 1878 e il 1921, dal controllo turco a quello russo e viceversa.
L’architettura zarista di molti edifici, le cosiddette “case russe” descritte in “Neve”, caratterizza ancora le strade del centro di Kars. Un esempio è la moschea di Fethiye, una vecchia chiesa ortodossa del XIX secolo riadattata una volta che la città è ritornata in mano turca. La struttura originale dell’edificio rimane ancora ben evidente, non è difficile immaginare cupole dorate al posto dei minareti, un mélange culturale che ha pochi simili al mondo.
Come scrive Pamuk, un’altra popolazione presente nella città e in tutta l’Anatolia orientale fino al genocidio 1915 è quella armena. L’architettura di Kars è molto simile a quella di Gyumri, la seconda città dell’Armenia, a pochi chilometri da qui. L’esempio più emblematico di architettura armena presente in città è la Moschea di Kümbet, del X secolo, anticamente nota come chiesa dei Dodici apostoli, e riconvertita più volte nel corso dei secoli.
Se in epoca ottomana Kars prosperava grazie alla sua posizione geografica, la stessa condannò la città alla crisi economica nel corso del Novecento. Il confine chiuso dell’Unione Sovietica interruppe le vie di comunicazione tra l’Anatolia e Caucaso. La popolazione è andata in cerca di fortuna, in Turchia occidentale e a Istanbul vive un numero di persone originarie di Kars superiore alla popolazione della città anatolica.
Nell’ultimo decennio, il governo turco ha finanziato la costruzione di una serie di infrastrutture per rilanciare l’economia della regione. Una di queste, la ferrovia Baku-Tbilisi-Kars, è stata completata e ha l’ambizioso obiettivo di costituire una via di trasporto alternativa tra Europa e Cina. Più realisticamente servirà a ricollegare Kars al Caucaso meridionale.
Nel frattempo Kars sembra godere di una qualche forma di sviluppo economico. Rispetto a una visita un paio di anni fa, le periferie si sono sviluppate in tutte le direzioni e la città sta diventando una meta turistica importante grazie alle sue piste da sci e al suo patrimonio culturale.
Il proprietario del nostro albergo, un altro dei famosi otel a basso costo, si dichiara ottimista sul potenziale turistico della regione e apertamente scettico sul presidente turco Recep Tayyip Erdoğan. L’uomo descrive il presidente turco come un dittatore, ma non si mostra da meno nei confronti dei suoi dipendenti. Il ragazzo alla reception, sfatto dal sonno al nostro arrivo e in compagnia di un ciarliero collega azero, rimarrà in turno ininterrottamente nel corso dei tre giorni della nostra permanenza. La presenza di clienti stranieri fa sì che i due vengano sgridati per la sporcizia di una tovaglia su un tavolo nella hall dell’albergo. Una scena divertente, considerata la sporcizia delle camere e la condizione irrimediabilmente fatiscente dell’edificio.
Le 1001 chiese di Ani
In mezzo alla steppa che circonda Kars appare un sistema di mura che svetta nel paesaggio spoglio. Siamo a est di della città della neve, letteralmente a pochi metri dal confine con l’Armenia, dove sorge il sito archeologico di Ani, anticamente nota come la “Città delle 1001 chiese”. All’orizzonte spiccano maestose le cime dell’Aragatz e del mitologico Ararat.
La prima cosa che si nota arrivando ad Ani è una gigantesca bandiera turca. La città sorge tra le gole dei fiumi Tzaghkotzadzor e Akhurian/Arpaçay, col secondo che costituisce il confine tra Armenia e Turchia. Una volta passati da una porta nelle mura, la vista si apre su una spianata da cui appaiono, a perdita d’occhio, le cupole diroccate di antiche chiese.
Ani è stata fondata milleseicento anni fa e costituiva uno degli snodi fondamentali sulla via della seta. Tanta era la sua ricchezza che, nel XI secolo, è arrivata ad avere 100mila abitanti. La maggior parte dei monumenti della città sono armeni, Ani è stata la capitale del potente regno armeno bagratide. È passata, poi, sotto diversi conquistatori che hanno lasciato le loro tracce nell’architettura della città: bizantini, georgiani e turchi selgiuchidi tra gli altri. Dopo il periodo di splendore, ha subito un’invasione mongola ed è stata colpita da un terremoto nel 1319, eventi che hanno portato al suo totale abbandono nei secoli successivi.
Il fatto di trovarsi letteralmente sul confine tra la Turchia, membro della Nato, e l’Armenia sovietica ha quasi completamente precluso la città al turismo fino a pochi anni fa. Le cose sono cambiate nell’ultimo decennio e, nel 2016, il sito archeologico è entrato a far parte del patrimonio dell’Unesco. Questo, insieme a un incremento nel numero dei visitatori, ha fatto sì che il governo turco, normalmente restio a conservare le tracce della storia armena, si attivasse per preservare i suoi monumenti.
Vi rimandiamo a questo articolo per saperne di più di questa frontiera anatolica dalla storia travagliata.
Ani è un luogo che offre sensazioni fortissime sotto i punti di vista. Colpisce la natura: le montagne, la steppa brulla, la terra rossa, il cielo terso e i canyon scavati dai fiumi. Lasciano meravigliati le dimensioni degli antichi monumenti della città: la Cattedrale che, a parte la cupola colpita da un fulmine, è ancora integra, la chiesa del Santo redentore, di cui rimane in piedi esattamente la metà, e i resti di un ponte attraverso il fiume Akhurian/Arpaçay, verso l’Armenia. La sua posizione geografica è forse la peculiarità più grande di Ani. A pochi metri dal sito si vede una base militare armena con un’enorme bandiera, in risposta a quella sulla sponda turca del fiume.
Torri di avvistamento sono visibili da ogni parte. Turchia e Armenia non intrattengono relazioni diplomatiche e per arrivare qui i tanti visitatori armeni devono fare un lungo giro attraverso la Georgia. Il fatto che uno delle più grandi testimonianze della loro storia sia in territorio turco, la nazione che ha perpetrato il genocidio dei loro avi, è uno dei tanti motivi per cui gli armeni si sentono vittime della storia.
Le tracce della presenza armena nella zona di Kars non si esauriscono ad Ani. Inoltrandosi per vie secondarie nella steppa, in villaggi abitati da pastori curdi, si trovano i resti di altre chiese, popolate da mucche e uccelli. La speranza è che un incremento di turisti nella zona possa portare al recupero di questi importanti monumenti storici.
Vista su Ani (Niccolò Alario)
Un tè al lago
Un altro viaggio attraverso la steppa. L’Aragatz e l’Ararat ci accompagnano con le loro vette innevate. Andiamo verso nord, verso la Georgia, la strada sale serpeggiando fino a raggiungere il lago di Çıldır, a duemila metri di quota. Non ci sono alberi e incontriamo solo qualche centro abitato.
Sulla sponda nord del lago, troviamo una casa da tè da cui si intravede la cima dell’Ararat; è il luogo ideale per godersi gli ultimi raggi di sole della stagione. Gli inverni qui sono rigidissimi e la superficie del lago ghiaccia per mesi.
La strada sale ulteriormente di quota fino a raggiungere il bivio per la Georgia. Qui sorge il villaggio di Çıldır, poche case sulla vecchia strada Kars-Erzurum, e nostra ultima tappa in Turchia.
Alle sei di sera, una volta calato il sole, la vita del villaggio si ferma come se fosse notte fonda. Troviamo un ristorante aperto in cui il proprietario parla russo, ricordandoci che siamo a pochi chilometri dai confini del vecchio impero sovietico.
Javakheti, confini contesi
“Qui siamo in Armenia, quella dall’altra parte, invece, è l’Armenia occidentale”. È l’alba, abbiamo appena superato quello che pensavamo che fosse il confine tra Georgia e Turchia. Non tutti, però, sono d’accordo. Nel Caucaso nessuna popolazione è pienamente soddisfatta della divisione dei territori maturata in epoca sovietica.
Alla frontiera, altrimenti deserta, c’è un gruppo di armeni che ci spiega la loro versione delle cose; quella che per noi è la Turchia orientale, per loro è Armenia occidentale, visto che fino al genocidio del 1915 ci viveva una numerosa popolazione armena. Per di più, la regione della Georgia in cui ci troviamo, il Javakheti, è popolata da armeni e in strada si sente parlare quasi solo armeno.
Onnipresente è anche il russo, rimasta la lingua franca a quasi trent’anni dalla caduta dell’Unione sovietica; l’eredità del vecchio impero si percepisce ancora: nell’architettura, nel modo di fare delle persone, nelle divise delle forze di sicurezza e in tante altre piccole cose.
Il Javakheti è anche conosciuto come la Siberia del Caucaso a causa dei suoi rigidissimi inverni. Il paesaggio è spoglio e battuto dal vento. Guidando a centocinquanta all’ora sulla strada consumata dalla neve, il tassista ci porta in tempo di record ad Akhalkalaki, la città più popolosa dell’area. La zona era destinazione di esiliati politici in epoca sovietica ed è famosa, in Georgia, per la coltivazione di patate, le più care al bazar di Tbilisi.
Integrare la popolazione del Javakheti nella vita pubblica dello stato costituisce un problema per il governo georgiano. Le vecchie generazioni del Javakheti parlano armeno e russo e non conoscere il georgiano gli rende impossibile leggere un qualsiasi atto pubblico.
La regione mantiene rapporti più stretti con la vicina Armenia e la Russia, destinazione di emigrazione, più che con Tbilisi. In futuro le cose potrebbero cambiare visto che la conoscenza del georgiano tra i giovani sta aumentando.
In una valle boscosa in mezzo alle montagne svettano gli scheletri di palazzoni di cemento abbandonati. Sono quello che resta di vecchi alberghi sovietici. Siamo a Borjomi, una località termale famosa in tutta l’ex Unione Sovietica, dove l’acqua locale frizzantissima e salata è conosciuta come miglior rimedio contro le sbornie.
Come ovunque in Georgia, i turisti sono tornati numerosi a Borjomi dopo il periodo di disordine e guerra civile negli anni Novanta. A fianco agli scheletri dei vecchi alberghi sovietici, ne stanno sorgendo di nuovi, meno grigi, ma più kitsch.
La cittadina ricorda un parco dei divertimenti, i binari della ferrovia passano in mezzo alle case, coi treni per Tbilisi che partono da un’elegante stazione in stile liberty. Dal centro si sale verso il parco delle terme dove si può bere la famosa acqua direttamente alla fonte, quando è ancora calda. Prima della rivoluzione i Romanov avevano un palazzo nelle vicinanze per godere appieno della disgustosa ma salubre acqua di Borjomi.
La città si anima soprattutto d’estate, quando gli abitanti di Tbilisi vi si riversano per proteggersi dal caldo torrido. In autunno Borjomi ha il fascino malinconico di una località di mare fuori stagione, coi ristoranti vuoti e le strade semi deserte.
Vista su Batumi e il Mar Nero (Niccolò Alario)
Batumi, Thalassa! Thalassa!
Raggiungere Batumi in marshrutka, i minibus che costituiscono il mezzo di trasporto più comune nei paesi dell’ex Unione Sovietica, è un esercizio rischioso. Per massimizzare i profitti, gli autisti hanno l’arduo compito di arrivare alla meta nel più breve tempo possibile, avendo il mezzo sempre pieno. Questo significa: sorpassi azzardati, frenate brusche per caricare e scaricare i clienti in qualunque punto della strada (di regola non ci sono fermate prestabilite) e accelerate altrettanto violente per recuperare il tempo perduto. Si viaggia su vecchi pulmini di seconda mano in cui sono stati infilati tanti sedili quanti fisicamente possibile, appoggiati sui serbatoi del GPL, un’aggiunta arrivata con la conversione del mezzo in marshrutka. Se tutti i posti sono pieni, c’è sempre una riserva di sgabellini a riempire il poco spazio spazio rimanente.
Incredibilmente, l’autista oggi è prudente, persino troppo. Dopo l’ennesima esitazione nel superare un camion e l’immancabile sosta per il pranzo, i passeggeri manifestano apertamente la loro impazienza. La giornata è limpida, si vedono sia le cime del Grande Caucaso, a nord, che quelle del Piccolo Caucaso, a sud. Dopo gli altopiani aridi dell’Anatolia, le valli della Georgia colpiscono per quanto sono verdi e rigogliose. Avvicinarsi a Batumi, poi, da l’idea di cambiare continente. Il clima dell’area viene definito come sub-tropicale e le colline intorno alla città, coltivate a tabacco e tè, hanno una vegetazione che, appunto, ricorda i tropici.
Come Van e Kars, anche Batumi si è trovata nella sua storia ad essere contesa tra russi e ottomani. Due secoli di dominio turco hanno portato a una progressiva islamizzazione della popolazione georgiana della regione. Dopo la conquista russa del 1878, il cristianesimo ortodosso georgiano è riemerso, soprattutto negli anni che hanno seguito il crollo dell’Unione Sovietica, ma esiste ancora una minoranza islamica.
Nell’architettura di Batumi emerge il contrasto tra sogni di grandezza per il futuro e la povertà del presente. La città rappresentava l’idea di vacanza per eccellenza dei cittadini sovietici e ha mantenuto la sua fama nei paesi nati dal crollo dell’impero. Quasi a dar vita questo ideale, nel corso degli ultimi dieci anni sono sorti interi quartieri di grattacieli.
Camminando sul scintillante lungomare di Batumi è facile dimenticarsi dei problemi della regione e immaginare di essere in una sorta di Dubai sulle coste del mar Nero. Basta però allontanarsi di un paio di isolati verso l’interno per trovare la zona popolare della città, col bazar e i banchi dei pegni, onnipresenti in Georgia, a riprova delle difficili condizioni economiche in cui versa gran parte della popolazione.
“Thalassa! Thalassa!” gridavano i compagni di Senofonte alla vista del mar Nero, comprendendo che i loro anni di peregrinazioni si avvicinavano alla fine.
Il nostro viaggio finisce sulle stesse sponde, con l’aereo che si inoltra verso il largo al tramonto di un’assolata giornata di novembre. Abbiamo visitato zone che da sempre sono state contese tra le potenze che si sono succedute nelle varie epoche storiche. Romani, bizantini, persiani, russi e ottomani hanno lasciato tracce del proprio passaggio e la propria influenza sulla cultura locale. Al giorno d’oggi, questa zona di frontiera presenta enormi difficoltà economiche, politiche e sociali figlie di una perenne condizione di instabilità. Lo sviluppo turistico dell’area potrebbe essere la soluzione a questi problemi cronici.
Nato a Milano, attualmente abita a Vienna, dopo aver vissuto ad Astana, Bruxelles e Tbilisi, lavorando per l’Osce e il Parlamento Europeo. Ha risieduto due anni nella capitale della Georgia, specializzandosi sulle dinamiche politiche e sociali dell’area caucasica all’Università Ivane Javakhishvili. Oltre che per Meridiano 13, scrive e ha scritto della regione per Valigia Blu, New Eastern Europe, East Journal e altre testate.