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Matteo Pioppi* ci racconta il suo viaggio nel Caucaso meridionale, alla scoperta della Georgia e dell’Azerbaigian. Territori irrequieti e ricchi di storia, dove le culture si mescolano.
Tbilisi, il vino agli amici la spada per i nemici
Il mood caucasico è qualcosa di lento e inesorabile. Il treno per Tbilisi impiega sei ore per percorrere poco più di duecento chilometri. Nelle stazioni aggiungono carrozze e cambiano a più riprese il locomotore. Nel nostro vagone un gruppo di georgiani molesti tiene banco attaccando bottone con chiunque. A ogni stazione che lo permette scendono dal treno e vanno al bar per farsi richiami di chacha. Più le soste aumentano, più aumentano le dosi di alcol, più loro diventano molesti. Fino a raggiungere un plateau, talmente tanto saturi e satolli che alla fine dormono beati un paio di ore lasciandoci quietare il tempo giusto di arrivare.
A Tbilisi la stazione dei treni è un brulicare di persone, metropoli caucasica. Masse di individui che si spostano senza sosta. Ciascuno ha il suo pezzo di Dio. Potrei fare un elenco di città in cui il sincretismo religioso irrompe nella storia come una valanga, ma Tbilisi fa storia a parte: georgiani, azeri, armeni e russi; osseti, abcasi, curdi, assiri, ebrei e yazidi. A ognuno un Dio a cui chiedere perdono.
La città vecchia è un saliscendi di vie con edifici bassi, balconi a sbalzo, verande, ballatoi e tettoie, tutte rigorosamente in legno intarsiato nel tipico stile georgiano. Sopra il centro si estende una parte collinare con giardini, corsi d’acqua e cascate alte dieci metri. La natura in città, a pochi passi dai monumenti principali del centro storico. Tbilisi di roccia e di acque, pietre e piccoli canyon. Superate le cascate, sulla cima della collina, la statua della Madre delle Georgia: il vino agli amici la spada per i nemici. Da qui si vede tutta Tbilisi, tagliata in due dal fiume Kura.
Sulla riva opposta alla città vecchia si sviluppa il quartiere di Avlabari (quartiere armeno). Qui si iniziano a notare le contraddizioni della città. Tipiche case georgiane in mattoni rossi con veranda e giardino si alternano a edifici nuovi e alberghi di lusso. Più sono abitazioni fatiscenti e semicrollate (si capisce che ci abita qualcuno dai panni stesi ad asciugare), più hanno attorno edifici per persone abbienti. La divisione in classi si nota ed è spietata, tutto quello che sta attorno al capitale ha un equilibrio spinto verso il crollo.
Decisamente diversa è la zona di Rustaveli, via imperiale costruita durante il periodo zarista. È sempre una via in prossimità dei quartieri centrali, ma non è toccata da processi di turistificazione.
Le vie laterali in salita contraddistinguono l’organizzazione urbana di questa città. Sono vie lastricate con grandi alberi ai lati, principalmente betulle e platani. A ridosso degli ampi marciapiedi troviamo vari negozi di prossimità. Panifici che spuntano sulla via grazie a una finestra poco più alta di una bocca di lupo, attraverso la quale da sottoterra vendono il pane ai passanti. Piccoli barbieri di quartiere che fumano in attesa dei clienti in una stanza troppo stretta. Bar e locali sotterranei con le scale colorate che scendono verso il basso. Negozi di ferramenta, edicole, taverne, ristoranti, piccoli market caucasici, fruttivendoli e venditori ambulanti. A fare ombra al loro affaccio la chioma degli alberi, alti e maestosi, così forti da aver sollevato buona parte della pavimentazione.
Anche in questa zona, come in ogni quartiere popolare della città, è presente la pianta della vite. Nasce tra le crepe dei palazzi diroccati, nelle rotture dei marciapiedi, alla base degli edifici, si dipana, arrampicandosi, tra costruzioni e tubature esterne del gas. Si attorciglia poi, diventando fusto potente e flessibile, avvinghiando a sé interi palazzi a tre piani. Vince l’incolto. È il rampicante di tutta la città. Ovunque vai, alzi gli occhi e da qualche parte vedi le foglie di vite e i rami carichi di grappoli.
I muri di Tbilisi
Nei quartieri popolari sotto la collina boschiva di Mtatsminda i muri della città iniziano a parlare. È un susseguirsi di scritte murarie in solidarietà all’Ucraina e a Israele, per un ingresso della Georgia nella Nato e nell’Unione Europea. Solo una scritta, minuscola, le vandalizza: Free Gaza, vergata a bomboletta nera sopra il disegno di una bandiera degli Stati Uniti. Più si gira la capitale, più queste scritte murarie si diversificano, alcune con stencil di soldati armati con grandi mitragliatrici, altre con scritte di richiesta di F16 per Kyiv, altre ancora con rivendicazioni continue in solidarietà a Israele. Tantissime bandiere della Nato e dell’Ue disegnate sui muri, mai frase fu più vera: muro pulito, popolo muto. Non più guerra alla guerra per la ricerca di un percorso di pace, ma guerra per la guerra. Voglia di armamenti e richiesta di politiche belliciste.
Ma non solo sotto la collina di Mtatsminda, anche in piazza della Libertà, in un edificio istituzionale, sventolano la bandiera georgiana, quella europea e quella della Nato. Nel quartiere ebraico, davanti alla sinagoga, sotto a un grande menorah è presente un altarino commemorativo con la bandiera di Israele e della Georgia per i soldati israeliani morti. Associare la condanna dell’invasione russa all’Ucraina è nell’ordine delle cose, a maggior ragione per i georgiani che hanno già pagato sulla loro pelle l’invasione dell’esercito russo nel 2008. Ma invocare l’adesione alla Nato e la solidarietà a Israele fanno di queste manifestazioni murarie qualcosa che supera il nazionalismo e va ben oltre.
Da Tbilisi si percepisce maggiormente il timore della guerra, è una sensazione più vicina e più vivida che altrove. Si percepisce la fragilità di vivere in un territorio in perenne tensione verso l’ipotesi di una nuova invasione russa. Di nazionalismi vari ed eventuali ne abbiamo piene le tasche e ne è piena l’Europa. Stanno tutti dalla stessa parte. La risposta alla paura non può essere il nazionalismo euroatlantico. In solidarietà al popolo ucraino e in solidarietà a Gaza, per il raggiungimento della pace, questo ce l’hanno insegnato i muri di Sarajevo. Ma l’inganno dei bagliori occidentali sottrae forza al pensiero critico.
Non mi aspettavo tutto questo. Contraddizioni e domande. Problemi. I muri di Tbilisi rappresentano al meglio una delle tante posizioni del nazionalismo contemporaneo, comunicano posizioni reazionarie, conservatrici e belliciste. Un popolo costretto tra scelte sbagliate e prevaricatrici. Senza possibilità di uscita.
Cronache della Georgia
Kutaisi è una città che risponde ad altre logiche. Il fiume Rioni la taglia in due, anch’esso è un fiume di roccia, proprio come la Kura. A sud si espandono quartieri periferici connotati da larghe strade e palazzi di stampo sovietico. Un susseguirsi ininterrotto di grandi cubature di cemento armato intervallate da negozi e autolavaggi.
Al centro dell’arteria Davit Agmashenebeli, un viale pedonale ornato da palme sferzate dal vento caucasico. Camminarci in mezzo dà un senso di prospettiva razionalista, all’orizzonte una montagna, proprio al centro del viale. Un palmizio così borghese lo ricordo solo sulla Promenade des Anglais a Nizza.
Nelle vie laterali di Davit Agmashenebeli tutto cambia radicalmente. Case basse di mattoni rossi, verande in ferro battuto nel vecchio stile georgiano, balconi a sbalzo e giardini con alberi da frutto e vite. Il traffico è lontano, la quiete vicina.
In questo dedalo di viuzze, in una piccola chiesa ortodossa si celebrano alcuni battesimi. Il prete esce a suonare la campane, si vede solamente la mano che tira il batacchio della campana, ne esce un suono spesso e nitido che apre la quiete profonda di questa ruralità urbana fatta di alberi di melograno, cielo limpido e giardini curati. Ortodossia in terra caucasica, qualcosa che risuona da millenni. Il tempo sembra bloccato a un punto così fisso e profondo da risultare immutabile.
La vita sociale della città si dipana al mercato coperto: un bazar vasto e cunicolare in cui trovare qualsiasi cosa: frutta, verdura, oggetti in legno, pesce d’acqua dolce preso direttamente dall’acquario, carne, verdure in salamoia, formaggi e ogni sorta di chincaglieria domestica. Poi ancora vestiti, scarpe, arredo per la casa, vino e chacha.
All’ingresso del bazar è presente un grande bassorilievo in ceramica, grande quanto la parete di un edificio di media dimensione. Si tratta di Klokheti, dell’artista georgiano Bernard Nebieridze. Iniziato nel 1980 e finito due anni prima della sua morte avvenuta nel 1987. Un lavoro svolto a più riprese che rappresenta la storia della Georgia tramite varie figure storiche e mitologiche alternate ai volti delle persone che hanno contribuito allo sviluppo della città di Kutaisi. Nella parte inferiore del bassorilievo, in modo didascalico, possiamo leggere per immagini la disfatta dell’impero zarista e la vittoria sul nazismo rappresentata dalla svastica spezzata dall’avanzata sovietica.
Anche a Tbilisi esiste una cosa simile, ma più vasta e titanica. Cronache della Georgia è un memoriale creato da Zurab Konstantinovič Cereteli, scultore, pittore e architetto. Opera coeva a Klokheti non fu però mai terminata nonostante Cereteli sia ancora in vita. Attraversare questo memoriale è come entrare dentro a un film di fantascienza. Su una collina svetta infatti un monumento strutturato in 16 colonne di pietra alte 30 metri forgiate da bassorilievi che raffigurano la storia della Georgia e le sue radici cristiane. Imperatori con la spada alti venti metri, scene religiose, misticismo ortodosso, battaglie e carestie. Un monumento mastodontico, esagerato e debordante. Sovietico. In un film di fantascienza potrebbe essere il tempio alieno di un misterioso culto divino.
Dalla collina su cui è posizionato, sulla sinistra possiamo vedere le montagne boscose e il corso selvaggio del fiume Kura. In prossimità, una distesa sterminata di palazzi sovietici immersi nel verde delle vie alberate, dei parchi pubblici e di tutto quello che il terzo paesaggio informale permette di collegare tra la piana alluvionale della Kura e l’edilizia popolare sovietica.
Sulla destra un colpo d’occhio rotondo, il mare di Tbilisi, un piccolo lago artificiale costruito nel 1953, su cui sono ormeggiate piccole imbarcazioni a vela, persone sulla spiaggia prendono il sole, un piccolo chiosco in lontananza. Oltre il lago, sullo sfondo, le montagne del Caucaso meridionale.
Baku, depressione caspica, meno 28 m s.l.m. Eppure il Caspio ci guarda, con le sue chiazze oleose di idrocarburi, con il suo olezzo di fogna e l’acqua verde e marrone. Baku è una città incomprensibile, senza facili letture. Baku onirica e sognante, proiettata sull’odierno, fissa il sole nascente nella luce rarefatta del mattino.
I quartieri centrali e il suo centro storico sono dei grandi nonluoghi per turisti ricchi, quasi tutti stranieri. Nelle strade si alternano macchine di lusso dei marchi più blasonati.
Le strade di questa parte di città assomigliano a quelle di molte vie delle grandi città del mondo: negozi, ristoranti, fast food di catene, marche di lusso e di alta moda. Si aggirano per questi posti uomini di affare, business men, che passano il tempo a parlare riproducendo il loro stesso stereotipo. Questi quartieri sono una barriera contro il resto della città, una narrazione fondata sul business del petrolio e sul capitalismo estrattivo. Qui vanno a nozze tutti i governi, i turchi con gli israeliani, i russi con gli europei. In questa capitale tutto è permesso, basta avere i denari derivanti dal petrolio e dal gas e fare affari con i capibanda locali. Il centro di Baku serve a questo, a fare affari sul mercato internazionale. Tutto è una rappresentazione stereotipata di se stesso.
In questo eccesso sproporzionato colpisce, in prossimità delle stesse vie, la presenza del MUM. Il MUM è un centro commerciale di epoca sovietica, una rivisitazione in chiave moderna dell’idea esotica di bazar che si poteva avere a metà degli anni Settanta.
A ogni piano dell’edificio corrisponde un oggetto di vendita: gioielli, orologi, stoffe, vestiti, chincaglierie. Vi sono poi altri due piani adibiti a uffici e laboratori artigianali poi, al sesto piano, la mensa dei lavoratori. Di fronte all’entrata una donna sulla cinquantina vestita con camice bianco rimane dietro a un tavolo alla cassa, sulla sinistra un uomo basso, tozzo e burbero riempie i piatti.
La sala da pranzo gode di una meravigliosa vista sul Mar Caspio. La zuppa di montone è saporita, il brodo è grasso e corroborante. I lavoratori del MUM sono i più disparati: poliziotti più simili alle nostre guardie giurate che alla nostra polizia di stato, commessi, operai, inservienti. Nel silenzio più totale si mangia, chi parla lo fa sottovoce. La mensa dei lavoratori in prossimità della zona più costosa della città. Un’isola di ristoro e di riconoscibilità umana. Un contrasto con i nuovi ricchi che credono al potere dirimente del capitalismo e non alla funzione salvifica di ciò che un tempo era rivoluzione.
Nella prima cerchia di quartieri fuori da quelli centrali si notano gli antichi mahalla in fase di sbancamento per fare spazio a nuovi grattacieli e a palazzi di oltre venti piani. I mahalla che rimangono sono vissuti da ciò che affiora del passato.
Bambini giocano in mezzo alle strade, una nonna porta in braccio un neonato che piange, svariate Pobeda sovietiche giacciono logore e abbandonate nei parcheggi tra le case. Segno che quel luogo è esattamente così da almeno settant’anni (la Pobeda fu prodotta negli anni Cinquanta del Novecento) e che tutto quello che vediamo oltre il mahalla è il nuovo che avanza sospinto dal capitalismo globale. Sulla strada, una fornaia vende pane per pochi manat (la valuta locale) mentre il canto del muezzin buca la foschia e richiama i fedeli alla preghiera.
Un partigiano a Baku
La statua di Mikhailo, partigiano comunista, si trova nel parco che porta il suo nome, Mehdi Huseynzade. È in un luogo anonimo, sotto a un cavalcavia, all’incrocio tra via Tbilisi e via Bakikhanov. La statua lo vede raffigurato con una granata in mano e un mantello da supereroe.
Nato in provincia di Baku, durante l’adolescenza frequenta il liceo artistico della capitale. In seguito si trasferisce a Leningrado provando a entrare all’Accademia delle arti. Non riuscendoci ritorna a Baku e si iscrive alla Facoltà di Lingua e Letteratura dell’Istituto pedagogico Vladimir Lenin. Grazie agli studi, Mikhailo impara a parlare tedesco, francese e inglese. Nel 1941 si arruola nell’Armata Rossa e nel 1942 viene ferito durante la battaglia di Stalingrado. Catturato dai nazisti, è arruolato in modo coatto nella Legione Turchestana della Wehrmacht come traduttore.
Nel 1943 la sua divisione viene inviata nel nord est italiano per reprimere la Resistenza. L’anno successivo, mentre si trovava nei pressi di Trieste, Mikhailo e altri due compagni azeri disertarono la Legione turchestana e, nascosti nei boschi, si uniscono ai partigiani jugoslavi. Esperto sabotatore, nell’aprile del 1944 è a Opicina all’interno di un cinema dove fa esplodere un ordigno durante la proiezione di un film per soldati.
Seguono altre azioni dinamitarde sempre a ridosso del confine: casinò, circoli, ponti, treni merci, carceri. L’ultima azione di Mikhailo è a Gorizia ma l’attacco partigiano viene respinto e deve darsi alla fuga. Braccato dai nazisti decide di scaricare tutto il caricatore contro di loro, tranne l’ultimo colpo. Da certe gente meglio non farsi prendere vivo. Viene seppellito, appena venticinquenne, al cimitero di Čepovan in provincia di Nova Gorica.
Nel 1957 riceve il riconoscimento di Eroe dell’Unione Sovietica. Ora guardo la sua statua che impersonifica l’internazionalismo antifascista, qualcosa che ora abita a livelli siderali dalla quotidianità e dell’orizzonte della nostra epoca. Questa storia della prima metà del Novecento è una storia ormai eternamente lontana e sempre più persa in questo nostro tempo annegato nei ricordi di un passato glorioso. Un’epopea partigiana, così meravigliosa, così splendida, così dolorosa.
Breve geografia di un mare
Al mattino sul Mar Caspio una linea di nebbia impedisce la vista dell’orizzonte. È il mare condiviso: a sud dall’Iran, a est da Turkmenistan e Kazakhstan e a nord dalla Russia. Un mare chiuso con le foche, la Pusa caspica, gli storioni e i salmoni.
La profondità massima di questo mare è di mille metri, i suoi principali immissari sono il Volga, l’Ural, la Kura e il Terek, due russi e due caucasici. È un mare che si trova in una depressione. Fino agli anni Settanta del Novecento, da queste parti si poteva trovare una sottospecie della tigre, la tigre del Caspio, la più grande, la più rara, ora definitivamente estinta.
L’affaccio al mare di Baku è esteso e multiforme. Verso ponente si trova il porto commerciale e i vecchi docks sovietici riconvertiti a spazi espositivi per l’arte contemporanea. Verso levante l’imbarco traghetti per Türkmenbaşy (Turkmenistan) e Aktau (Kazakhstan). In mezzo si alternano strutture ultramoderne che hanno colonizzato lo spazio spezzando il paesaggio, frantumandolo.
Una serie inaspettata di edifici moderni e avveniristici, dalle cubature enormi e spaziali. Vetro e acciaio a modellare lo skyline della città. Ultracontemporaneità, ci perdiamo dentro questa nuova dimensione che nella sua totale inconsistenza, permette temporanei sprazzi di serenità.
Baku è una città ventosa, si alternano sempre due venti: il khazri, un vento freddo che proviene dal nord del Caspio, direttamente dalle steppe asiatiche. E il gilavar, un vento caldo che proviene da sud, iranico. Grazie a questi due venti il clima a Baku è estremamente secco e piacevole.
Entroterra azero
Per arrivare nell’Azerbaigian nordoccidentale si attraversa un panorama stepposo, arido e desertico. Montagne brulle, secche e gialle. Cielo dalla luce rarefatta e il nulla per chilometri. Ogni tanto spuntano greggi di mucche e pecore al pascolo, pastori a cavallo e carretti trainati da ciuchini. Sembra di vederli all’orizzonte i cavalieri mongoli arrivare, alzare un polverone su questa terra gialla, con le lance piene di teste mozzate.
Mentre guido il fuoristrada in queste lande desolate li vedo avanzare nella pianura, al trotto veemente dalla conquista spietata, alzare la polvere sospinta verso il cielo dal forte vento che soffia negli altipiani caucasici. Solo dopo alcuni chilometri però lo scenario cambia. Grandi montagne iniziano a increspare la pianura, sono verdi e rigogliose. Le stesse montagne nelle quali trovarono rifugio gli abitanti del Caucaso, risalendole e scalandole in fuga dalle avanzate mongole da un lato, e dai vari imperi succedutisi nel Medio Oriente dall’altro.
Il Caucaso è figlio di una compressione. In questo modo si sono strutturati e mantenuti nei secoli tradizioni, usanze, lingue e micropopolazioni diverse le une dalle altre. Creare comunità, poi villaggi e poi città sui monti ha permesso il proseguimento della vita ma ha promosso l’isolamento. Così, ancora oggi, in questa epoca digitale e planetaria, troviamo conservate tradizioni millenarie tra queste montagne che si stagliano alte all’orizzonte, con le vette che terminano rocciose e affilate oltre i cinquemila metri. È la catena del Grande Caucaso, quella che vediamo all’orizzonte.
Al villaggio di Kish ci si arriva a piedi partendo da Sheki, capoluogo dell’omonimo distretto. Montagne a perdita d’occhio, strade mattonate, salite, fiumi e ruscelli. Un mondo di acque selvagge. Verde ovunque, nei giardini delle case, nei viali alberati, sulle montagne ai confini con il cielo.
Dietro il monte più alto che vediamo, c’è il Daghestan russo. In strada solo vecchie Lada che sfrecciano a tutta velocità, maršrutka piene di gente e stipate di babuška di ritorno dal bazar di Sheki. Il motore arranca in salita, al massimo dei giri, una potenza limitata. Ne passano una dopo l’altra, lente e inarrestabili. Mucche pascolano in mezzo alla strada, sulle aiuole a brucare l’erba, in mezzo al boschivo incolto, sui marciapiedi ferme a leccare le orecchie della mucca a fianco.
Il villaggio di Kish era uno dei tanti insediamenti dell’Albània Caucasica, uno dei primi paesi al mondo ad adottare la religione cristiana diffusa dal predicatore Eliseo, discepolo dell’apostolo Taddeo. Inviato nel Caucaso per conto del primo patriarca di Gerusalemme, Eliseo iniziò a costruire quella che sarebbe diventata l’antica Chiesa apostolica Albana di rito orientale del Caucaso.
La via che porta alla chiesa di Kish è una ripida mattonata di ciottoli, case in pietra da un lato, montagne dall’altro. I bambini salutano, chiedono informazioni tramite l’inglese che hanno imparato a scuola. Hanno una grande voglia di comunicare e di sapere. E noi con loro.
Dopo un paio di tornanti la si vede spuntare da lontano. La chiesa albanica è qualcosa di primordiale: quattro mura spoglie ad ambiente unico, pianta quadrata, senza campanile. Dentro è l’essenziale all’ennesima potenza. Un’edificazione primordiale, lontano dallo sfarzo e dall’eccesso. Nel giardino esterno varie aiuole piene di fiori e di alberi per un ristoro all’ombra. Gattini e una tartaruga di terra, anziane signore che guardano video dallo smartphone, il cielo terso, l’aria fresca di montagna, il sole tiepido.
Di fianco alla chiesa una sorta di locanda gestita da tre donne, una rarità. Ilhame è quella che tira le fila, non smette di muoversi un secondo. È cinetica e indispensabile, come tutte le persone consapevoli del proprio ruolo all’interno di un gruppo sociale. È anche una delle poche persone che parla inglese e con la quale riusciamo a comunicare per più di qualche minuto.
Hanno aperto questo posto l’anno scorso grazie a un finanziamento a fondo perduto della United States Agency for International Development (USAID), agenzia governativa statunitense per la lotta alla povertà. A ciascuno le proprie contraddizioni, del resto quando non hai niente ogni cosa è buona per campare. Il luogo è un incanto, immerso nella luce e attorniato da montagne. Si sente lo scrosciare del ruscello e il cinguettio degli uccelli. Il cibo è frugale, ma buono, abbondante e sostanzioso, mentre il vino azero si conferma di una bontà unica.
In un paese come l’Azerbaigian questo posto è qualcosa che nasce nel punto oscuro della luna. Sulla via del ritorno, mentre stiamo camminando verso Sheki, qualcuno strombazza da una Lada blu. È Ilhame che, dovendo scendere in città per far compere, ci fa cenno di salire in macchina per un passaggio. Va come un treno, cambia le marce come se fosse a un rally e la Lada costruita sul modello della Fiat 128 risponde positivamente a tutte le sollecitazioni.
Mi sembra di fare un passo temporale di trent’anni. La macchina è curatissima “quando si ha cura delle proprie cose si ha anche cura di sé e degli altri”, forse era mia nonna che me l’ha detto la prima volta. Guida come se avesse appena fatto una rapina, sorpassa le macchine facendo ululare il motore, conosce la strada a menadito. Dice che i giovani vanno via dall’Azerbaigian per andare a studiare e lavorare in Russia. Dice di non capire come mai il suo paese, così ricco di petrolio e di gas, permette ai giovani di emigrare.
A me sembra ovvio e palese il perché, ma magari qui, tra la stampa controllata, la mancanza delle informazioni e il governo dittatoriale di Ilham Aliyev, le motivazioni si faticano a trovare. Ci salutiamo e la ringraziamo per il passaggio, dice che è lei a dover ringraziare noi. Ci sorridiamo mentre lei riparte a razzo.
Lahic è un villaggio a 1700 metri di altitudine, posizionato su montagne rocciose e attorniato da vette altissime. Ci si arriva tramite una strada scavata nella roccia della montagna a strapiombo sul corso del fiume. Rocce nere, grigie e color porpora si alternano nel paesaggio alieno e silenzioso. Sembra che le montagne non finiscano mai.
All’ingresso del paese il canto del muezzin rimbomba in tutta la vallata rimbalzando tra le due rive opposte del fiume. Solo una piccola parte del borgo è pensata ad uso turistico, il resto è qualcosa di indispensabile. Anziani che giocano a nard (come viene chiamato il backgammon nel Caucaso) sotto a un porticato, un’automobile parcheggiata sotto a un albero espone un banco di verdure dell’orto. I cavalli dei pastori attraversano il borgo, a chiudere le fila un pastore a cavallo immerso con la testa dentro lo smartphone. Pastorizia e algoritmo, due mondi che si incontrano.
Bambini e bambine escono da scuola, corrono per le strade incuriositi, anche qui comunicano con noi grazie all’inglese imparato tra i banchi, ci chiedono chi siamo e da dove veniamo, sorridono. Una di loro corre a casa, si cambia la divisa da scuola e ci raggiunge camminando assieme a noi per un centinaio di metri, poi corre incontro a un amico. E poi ancora di corsa, assieme a perdersi nel dedalo delle vie. Quanta libertà, quanta gioia, quanto entusiasmo.
Un nonno alla guida di una Lada Niva carica il nipote e si inerpica su strade acciottolate e ripidissime. I ragazzi più grandi, anche loro appena usciti da scuola, ci seguono per la strada incuriositi dal meccanismo a calamita della clip da sole dei miei occhiali. Ne sono entusiasti. Mentre scambiamo due chiacchiere con loro davanti al portone di una casa escono dal cancello, facendo capolino, una coppia di signori che si unisce alla chiacchierata. Lahic è un luogo di persone cordiali, accoglienti e curiose.
Poco più avanti, su una strada in salita, davanti a una casa, la foto di un soldato azero nato nel 2000 e morto a vent’anni nella seconda guerra del Nagorno-Karabakh. Davanti all’abitazione una giovane donna con una bambina sono sedute al sole, chiacchierano con la vicina di casa.
In giro per l’Azerbaigian, soprattutto nella zona di Baku, è pieno di bandiere azere e turche che commemorano i morti in guerra. Altrove le troviamo spesso all’ingresso dei paesi, con foto ricordo dei soldati morti in combattimento, sulle staccionate delle case private, sulle ringhiere dei passaggi pedonali sopraelevati, all’ingresso di centri ricreativi e in generale in tutti i luoghi di aggregazione.
I morti per la patria invadono le strade. Nei piccoli borghi come Laich testimoniano una casa a lutto. Come sempre è la miseria a lasciare uno spiraglio aperto alla morte, ed è così che i giovani muoiono per la conquista di un pezzo di terra.
L’ultima guerra, in Azerbaigian, è presente ovunque si vada. La percezione è quella di un sacrificio capillare per terminare un conflitto e riappropriarsi definitivamente del Nagorno-Karabakh. Terra e sangue alimentano il nazionalismo e delimitano le nuove frontiere. La storia insegna, noi continuiamo a non imparare.
Proseguendo la strada oltre Laich si raggiunge un altopiano a duemila metri di altitudine con strade talmente ripide e scoscese che arranca anche il fuoristrada. Sono ore di macchina in mezzo alle montagne e niente attorno. Si incontrano solamente pascoli di capre, pecore e mucche. Cani pastore, pastori a cavallo e montagne fin quante ne vuoi.
Al limite di una salita, con il motore su di giri, appare come una cometa un massiccio roccioso illuminato dal sole, poco più a valle una mandria di cammelli e dromedari al pascolo ci ricorda che l’Asia Centrale inizia probabilmente da questa terra ibrida, di convergenze storiche e conflitti secolari.
Qualcosa alla fine non torna. I conti sono sempre dispari perché, davvero, sono luoghi a tratti imperscrutabili, in continuo rimescolamento. Territori inquieti, in perenne agitazione e mutamento. Né sedentari né nomadi, un tempo, né europei né asiatici ora. Territori che ci interrogano, entrano nelle contraddizioni, alimentano le incertezze e assottigliano le nostre verità.
Siamo a metà tra due mondi, in questa terra di mezzo l’eco della guerra è più nitido e tagliente. Rischia di avvolgere tutto. Belligeranza e autoconservazione. Quando il sole si accende è la fiducia nel giorno, quando alla sera si spegne, lo sguardo è adirato verso il futuro incerto di un nuovo giorno che incombe.
Mini bibliografia:
- Azerbaigian. Crocevia del Caucaso, Carlo Frappi, Sandro Teti Editore, 2012
- Breve storia del Caucaso, Aldo Ferrari, Carocci Editore, 2018
- CCCP Cosmic Communist Construcions Photographed, Frédéric Chaubin, Taschen, 2020
- Nostalgistan. Dal Caspio alla Cina, un viaggio in Asia centrale, di Tino Mantarro, Ediciclo, 2019
- Georgia. Viaggio nel cuore del Caucaso, di Maura Morandi, Polaris Edizioni, 2015
- Azerbaigian, di Francesco Neri e Giusy Palumbo, Polaris Edizioni, 2019
* Classe 1983, nel 2012 ha fondato con alcuni amici Bébert Edizioni per cui ha curato vari libri, tra cui Sopravvivere a Sarajevo, Visto Censura. Lettere dei prigionieri politici in Italia 1975-1986, Questi fiori malati. Il cinema di Pedro Costa, Armonie contro il giorno. Il cinema di Béla Tarr. Con la raccolta di racconti Geografie, nel 2020 ha vinto il Premio Navile – Città di Bologna. Collabora attualmente con la rivista QCode.