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Paesaggi d’inverno. Un viaggio tra Istria e Bosnia

Dopo il suo Diario minimo di un viaggio in Uzbekistan, Matteo Pioppi ci porta in viaggio tra Istria e Bosnia partendo da Trieste, il confine orientale, alla scoperta di Sarajevo e Pola.

Trieste, un trampolino

Poco più di un secolo fa, nel 1913 Trieste aveva 247mila abitanti (oggi ne ha poco più di 198mila), era la quarta città dell’Austria-Ungheria, dopo Vienna, Budapest e Praga. In quegli anni Trieste è stata la patria delle minoranze: ebrei, tedeschi, serbi, turchi, greci e armeni. Le navi partivano da qui per New York, Calcutta e Tokyo. Era l’emporio dell’Europa centrale.

In questo viaggio, Trieste è il trampolino di lancio su cui prendere la rincorsa per lanciarsi, volando, su tutta l’area ex-jugoslava. Anche se Trieste è la Mitteleuropa affacciata sul mare (pochissimo mediterranea e moltissimo asburgica e slava), da qui inizia un mediterraneo altro, quello degli slavi del sud.

Se fosse stata attribuita alla Jugoslavia nel 1947 sarebbe stata la seconda città, dopo Belgrado. Una Marsiglia jugoslava.

(Egidio Ivetic, Storia dell’Adriatico)

Ragionando sull’urbanistica della città mai concetto fu più azzeccato. I lunghi viali in salita dei quartieri centrali, i palazzi maestosi in pietra bianca d’Istria, le dolci salite che portano a plateau urbani disseminati di bar, panifici, buffet triestini, osterie e negozi di prossimità, ricordano moltissimo Marsiglia.

Mentre cammino in via dell’Istria mi vengono in mente i quartieri centrali della città francese, una via brulicante di vita, persone in sosta nei bar a bere vino o caffè, signore cariche con le borse della spesa, nonni che portano in giro i nipoti, buffet dai prezzi popolari e scorci impagabili sul mare. In uno di questi, vicino a via Ponziana, noto l’Ursus ormeggiato al porto. L’Ursus è una gru galleggiante alta più di 70 metri costruita durante il periodo austro-ungarico, una delle tre chiatte con gru rimaste al mondo (sebbene oggi rischi di affondare). Oggi è archeologia industriale, a memoria di quando da queste parti il Lloyd austriaco era una potenza economica europea. Nelle vicinanze di via Ponziana resiste ancora La casa del popolo (Ljudski dom) A. Gramsci, sede di varie associazioni, tra cui l’associazione culturale Tina Modotti, l’ANPI (VZPI), Rifondazione Comunista (Komunistične Prenove) e l’Osteria Sociale al piano terra.

Da qui il mare si vede ancora meglio, ma oggi è immerso in una nebbia grigia che piano piano tenta di risalire in città. A Venezia questo fenomeno si chiama caìgo mentre a Genova caligo, assonanze da Repubbliche Marinare decadute che mi rimbalzano in testa camminando. Navi cargo avanzano lentamente su un mare piatto e inerme, l’orizzonte ristagna come la città.

In prossimità del centro la sera arriva assieme all’odore dell’Adriatico. Il suo profumo di marciume è presente in tutte le vie e rimane sospeso nell’umidità della nebbia. Solo in questo momento si percepisce che questa città è una città di mare. A Trieste è come se tutto sfuggisse di mano, mentre i palazzi nobiliari riflettono le crepuscolari dei lampioni, nel buio delle vie meno nobili i passanti si nascondono come per coprire le loro tracce, perdendosi nella foschia come in una riflessione costante su ciò che gli spetta, inventariando le forze per resistere al mondo.

L’indomani, prima di partire per Sarajevo, decido di fare un giro in quello che un tempo era un piccolo nucleo di ortodossia mediterranea. La prima chiesa ortodossa di Trieste è stata condivisa dalla comunità greca e illira. Quando poi nell’Ottocento le comunità greca e serba iniziano a crescere, si realizzano due edifici.

La chiesa serbo-ortodossa ha quattro cupole bizantine e una facciata rivestita in pietra proveniente dalle cave di Brioni. All’interno si nota la classica iconostasi in oro e argento costruita in Russia nel primo Ottocento. Nella cassetta delle donazioni si può fare un’offerta ai bambini del Kosovo e di Metochia, a fianco una bandiera serba a rimarcare l’identità.

Nella chiesa greco-ortodossa la grande iconostasi cesellata in argento si accende con la luce del sole al tramonto, mentre alle spalle una gigantesca bandiera greca è appesa sul parapetto. Nazionalismo e ortodossia vanno da sempre a braccetto.

Il periplo alla ricerca dei luoghi di culto delle comunità che hanno abitato Trieste più di un secolo fa finisce alla Chiesa degli Armeni, costruita dalla Congregazione dei Padri Mechitaristi. La chiesa ora è fatiscente, semi crollata e circondata dal vuoto. Non è rimasta traccia di niente, il Novecento ha spazzato via tutto in modo definitivo. Girando l’angolo, in quella che oggi è via Ciamician e un tempo era via degli Armeni, si gode di uno degli scorci più verticali sul golfo di Trieste.

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Sarajevo, dalla periferia al centro

La Bosnia è una cipolla, è fatta a strati. Ogni strato è una fatica che levi, quando arrivi al cuore hai superato il limite indenne e puoi iniziare a capire quello che ti circonda.

Fiume Vrbas, Bosnia (Matteo Pioppi)

Ma serve tempo e costanza per eliminare gli strati dei luoghi comuni, gli stereotipi, gli orientalismi, le occidentali e borghesi visioni tribali e le approssimazioni politiche. La Bosnia risponde alla complessità e non a risposte manichee, potabili e rassicuranti. L’organizzazione dello Stato su base identitaria ed etnonazionale in tutto questo non aiuta. Dopo quasi trent’anni gli accordi di Dayton non fanno altro che generare continuamente problemi che si accumulano su una vastità di disgrazie e di mancate riconciliazioni. È un luogo di contraddizioni che allontana anche i più volenterosi.

Poi c’è Sarajevo, dispersa tra le montagne; proprio per questo bisogna meritarsela. Ore di macchina in cui guardi solo le targhe posteriori dei camion o degli autobus, ore di Bosnia, di boschi, di case distrutte, di luoghi kitsch, di fiumi immensi che scavano gole profonde come il Vrbas o fiumi lunghi e docili come la Bosna. Passi, montagne, rocce, dighe, cascate, minareti, chiese ortodosse, paesaggi ancestrali, visioni di luce primordiale, vallate selvagge, gallerie scavate nella pietra, odore di bosco, di pioggia sul muschio ma anche di aria acida come in prossimità della acciaieria (AccerolMittal) di Zenica.

Sarajevo (Matteo Pioppi)

Sarajevo è la capitale più irraggiungibile d’Europa, isolata e scollegata da tutte le altre capitali della zona ma quando arrivi, ogni volta, ti sembra comunque di stare in mezzo a qualcosa di indefinibile. Nonostante i sarajevesi riescano spesso a sorriderti e a trovare il modo per ridere di qualcosa, il contesto in cui vivono è sempre più quello di una città che sta collassando su se stessa. L’abbandono del territorio, il vuoto che avanza nelle periferie rimaste in parte ancora con i segni della guerra, è pieno di cubature urbane desolate. Me ne rendo conto quando cammino per Vrca, per Kovacici e Hrasno, l’abbandono palesa la sua assenza in modo dirompente e totalizzante. È da vent’anni anni che frequento Sarajevo e non l’ho mai vista così persa e abbandonata.

A Grbavica invece il mercato rionale è vivo, i banchi sono pieni di cose buone, c’è un grande via vai di persone che vendono e comprano merci sia in modo formale che informale. Sembra un quartiere reale, quanto meno dinamico rispetto a quello che gli sta attorno. Sarà anche per i preparativi di una mezza maratona che abbelliscono le strade e il camminamento sulle rive della Miljacka, ma questo quartiere costruito in epoca socialista è la cosa più vicina alla normalità che ho incontrato in città.

Tornando verso il centro, tra Grbavica e Skenderija noto due striscioni, uno pro Gaza e Palestina e uno che invita al boicottaggio a Israele. La questione palestinese da queste parti è ovviamente molto sentita, così com’è sentita la questione ucraina. Ma non solo in periferia, anche nei locali del centro e in Baščaršija sono presenti adesivi e scritte che invitano a sostenere la difesa di Gaza (you don’t need to be muslim to stand up for Gaza, you just need to be human).

Nel deserto di Skendarija è il crollo di tutto che la fa da padrone, è come se non funzionasse niente (ne radi), ma allo stesso tempo due realtà preziosissime resistono in quel centro commerciale abbandonato e in rovina: la mostra sulla scena rock jugoslava (Ex-Yu Rock Centar) e il negozio Sarajevo Disk Music Shop. La prima è nella fase del tentativo, mancano ancora vari gruppi seminali come Azra ed Ekaterina Velika, ma lo spazio dedicato ai Zabranjeno Pušenje e agli Idoli va oltre le aspettative. Soprattutto per l’aneddotica legata alla realizzazione del disco più importante della scena Novi Talas jugoslava, Odbrana poslednji dani. La mostra è qualcosa di nuovo che prova con forza a dare un senso a tutto il nulla attorno.

Se ti interessa la musica oltre il meridiano 13, leggi i nostri approfondimenti sul tema!

Il Sarajevo Disk Music Shop invece, oltre alla qualità epocale e alle scelte radicali per quanto riguarda l’offerta musicale, è un avamposto in mezzo al nulla, tra bar deserti, locali abbandonati e luci intermittenti al neon che illuminano i corridoi sotterranei del centro commerciale. Chi sta dietro la cassa lo sa e cura il suo prezioso negozio come se fosse la hall dell’Hotel Europa.

Sarajevo, Bosnia (Matteo Pioppi)

Arrivato in Baščaršija dalla periferia, si notano maggiormente gli effetti della turistificazione del centro cittadino, strade deserte, negozi di paccottiglia vuoti, nulla a che vedere con l’animosità e il brulicare di gente per le strade attorno al mercato di Grbavica. Come tutte le città che provano ad avere nella monocultura turistica un modo di risollevare le sorti avverse, anche Sarajevo sconta il contrappasso di avere organizzato il centro non più ai bisogni dei residenti ma dei turisti.

Nel mio ultimo giorno di permanenza piove, Sarajevo grigia, la Miljacka è ocra dal fango riversato dai rii nei boschi, cammino sotto la pioggia. È domenica anche per la città, ritmi lenti, nei mahala le persone pranzano assieme, si sentono le risate, i cani che abbaiano, i bambini che piangono.

Nonostante il declino della città a Sarajevo mi sento a mio agio, mi vengono in mente le poesie dei suoi più grandi poeti: di Izet Sarajlić (“perché questa è la città dove forse non sono stato/ troppo felice,/ ma dove tuttavia anche la pioggia quando cade non è/ solo pioggia”), di Abdulah Sidran (“ascoltate/ come respira/ il pianeta Sarajevo”) e di Marko Vešović (“conoscere quanto puoi sopportare senza andare in pezzi/ è l’unico bene che, se sopravvivi, avrai da questa guerra infinita”). Tre titani.

In questi vent’anni ho perso il conto delle volte che sono passato di qua. Sono un ospite silenzioso, ho accumulato esperienza, ho assimilato una serie infinita di dettagli sulla storia della città, dagli ottomani fino all’assedio, e dall’assedio fino ad oggi. Ma come scriveva Predrag Matvejević Sul Danubio (“in alcuni settori, che non sono tra i più importanti, abbiamo acquistato più esperienze di quando ne avessimo bisogno. Noi stessi, a momenti, non sappiamo che farcene dell’eccedenza”), vivo questo aspetto con frustrazione, perché sembra non importare più a nessuno dei nostri vicini adriatici. Rimane così la luce dell’abbandono a cui destiniamo chi annoia gravosamente con la sua complessità. Dove si nasconde il sole è nata Sarajevo. Sarajevo nella mente, dentro il cuore, tatuata sugli occhi.

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Pula, Istria

L’Istria di giorno è avvolta nel sole, la sera si ammanta di nebbia che risale dal mare. Nei borghi interni come Vodnjan (Dignano) e in quelli rivieraschi come Rovinj (Rovigno), l’architettura veneziana immersa nella nebbia adriatica regala visioni oniriche e passeggiate nei vicoli al riparo dalla luce. Nebbia in mare come all’inizio del viaggio. Adriatico perso per il caìgo, un mare nascosto. Cittadine fantasma, centri sul litorale svuotati dalla turistificazione, bar e taverne fumose frequentate da chi tenta di sopravvivere alla desolazione invernale. Cippi partigiani, stelle rosse per combattenti titini (italiani e jugoslavi), l’unità nella lotta, l’idea che unisce slavi e latini. Istria rossa e non solo per il colore della terra.

Per parlare di Pula/Pola invece è necessario parlare prima di tutto del suo più grande edificio, la scuola navale dell’esercito austro-ungarico, costruito all’inizio del XX secolo e ora sede del centro sociale Karlo Rojč. 16mila metri quadri di spazio e più di 100 collettivi che lo animano. Scritte anarchiche in solidarietà agli spazi occupati italiani, scritte antifasciste, associazioni, musica, laboratori, sale prove, spazi condivisi, radio, club musicali, famiglie con bambini, corsi di ogni genere, accessibilità e presa bene. Dall’ingresso principale, sul lato sinistro, un grande murales dedicato agli operai dei cantieri navali Uljanik. Pola operaia. Ma chi era Karlo Rojč a cui è dedicato lo spazio?

Cortile interno del centro sociale Karlo Rojč (Matteo Pioppi)

Karlo Rojč è nato nel 1915 a Banja Luka da una famiglia di immigrati sloveni. Cadetto della Scuola Sottufficiali della Marina, un marinaio che diventa rivoluzionario. Fin da giovanissimo infatti Rojč aderisce al Partito Comunista, questo gli frutta due anni e mezzo di prigionia tra Sarajevo e Zenica. Una volta rilasciato inizia da subito la lotta contro il regime ustascia, diventando leader di un gruppo di sabotatori. In quegli anni viene ricordato come un ragazzo piccolo e nomade, teso come un fucile armato, fuoco vivo. Nel 1942, durante la Resistenza jugoslava, Rojč opera nella zona di Banja Luka. È comandante di una compagnia d’assalto che combatte i cetnici vicino all’ospedale partigiano sul monte Čemernica, in Bosnia centrale, dove scorre il Vrbas. Quando però i cetnici, in evidente superiorità numerica, attaccano in massa, per non cadere nelle mani nemiche Rojč si spara con l’ultimo proiettile del suo fucile. Nel 1951 fu dichiarato eroe nazionale. A Banja Luka, sua città natale, dopo la guerra degli anni Novanta la scuola elementare non porta più il suo nome. Ucciso quindi due volte in Bosnia centrale, ora Karlo Rojč vive a Pola.

Una delle prime cose che si notano camminando in città sono i bar pieni di persone che fin dal mattino fumano sigarette e tracannano birra o vino. Mi ricordano i bar della provincia emiliana in cui sono cresciuto, in cui era normale avvinazzarsi senza sentirsi occhi giudicanti e moralizzanti pronti a denigrarti. Soprattutto nella zona del mercato di Pola, bar e taverne sono i punti di ritrovo per chi fa la spesa, punto di incontro e motivo di socialità. Un brulichio di persone che chiacchierano e ridono al sole istriano tra i banchi del mercato e i tavoli dei bar, un pezzo di città organizzato in funzione degli abitanti e non dei turisti. Uno spazio urbano che offre servizi e non solamente pratiche di consumo. La sera però Pola è irriconoscibile, mi ricorda Maja, una canzone dei Kud Idjoti, storica e iconica punk band polesana: “le strade, così famigliari/ perché sono silenziose a quest’ora tarda?/ Nessuno, non c’è nessuno qua fuori/ Solo chi sta zitto continua a lavorare/ qui ci sono solo puttane e grassi ubriaconi […] Pola è noiosa di giorno, Pola è assonnata di notte / Morta”. Il mattino nella luce, la sera senza nessuno in giro.

Slavi istriani e latini, mediterranei adriatici, il mare che entra in città, il centro che si àncora al mare, la costante presenza dei cantieri Uljanik, le presenze urbane che seguono le dominazioni nei secoli (romani, veneziani, asburgo). Pola di palazzi asburgici e strade di periferia, stelle rosse e vicinanze.

Una scritta sui muri del Rojč segnala: Pu/la Pu/nk. A queste latitudini la trap non è passata, la categoria sociale dei giovani si esprime ancora con le controculture musicali. Pola è una città in cui le identità musicali sono ancora un modo per creare una comunità che si riconosce su posizioni condivise. I ragazzi e le ragazze camminano per le strade rivendicando un’estetica punk, incazzati e incorniciati dentro le bretelle che sobbalzano ad ogni passo sospinte dal vento del mediterraneo adriatico, anfibi con centro buchi, creste. Altri giovani, più affini all’area darkettona metallara si ritrovano ciondolanti in centro, capelli lunghi, maglie sataniche, sotterranea voglia di pogare.

È un tuffo nel passato, di un mondo giovanile arrabbiato e desideroso di incontri fuori dagli schemi, che rifiuta le dinamiche stabilite e si riconosce nelle canzoni suonate da gruppi musicali, dove è la pratica collettiva e condivisa a comunicare. In questi decenni di individualismo sfrenato, anche la musica si è adeguata, sfornando individui soli che comunicano la loro voglia di adeguarsi ai valori del capitale. Sono i tempi che abbiamo, dobbiamo farci i conti. A Pola al momento tutto questo non sembra interessare.

Scorci di Pola/Pula (Matteo Pioppi)

Fratelli slavi

Viaggiare per distruggere gli stereotipi e demolire le certezze, annientare le sicurezze per porsi indifesi verso quello che si vede. Non avere verità in tasca, non sentire la necessità degli schieramenti, osservare senza giudicare, analizzare quello che si vede. Il più possibile eliminare tutto quello che si sa per non avere preconcetti ideologici, farsi guidare dalla curiosità degli incontri che nascono casuali durante i momenti più improbabili. Cercare qualcosa oltre le approssimazioni provando ad afferrare tutto quello che normalmente sfugge. Questo è un modo di viaggiare in ex-Jugoslavia, nelle terre dei nostri più prossimi fratelli slavi.

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Redazione
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