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Sport e nazione: due realtà che, sebbene apparentemente distinte, si intrecciano in modo indissolubile, dando vita a dinamiche che spesso vanno oltre il gioco. Da sempre, gli atleti sono simboli di identità collettiva, i loro successi celebrati come vittorie della patria e i loro gesti osservati come riflessi di appartenenza e orgoglio nazionale. In questo complesso legame, il caso di Vlade Divac e la bandiera croata durante i turbolenti anni Novanta non rappresenta solo una controversia sportiva, ma una pagina di storia in cui il campo da gioco diventa l’arena delle passioni nazionaliste e delle divisioni politiche.
Breve introduzione al basket jugoslavo
Nel suo libro L’uomo che raccontava il basket, Sergio Tavčar, noto telecronista italo-sloveno, identifica con grande lucidità due fattori chiave che hanno alimentato la diffusione della pallacanestro in Jugoslavia. Il primo è quasi un “dono naturale”: l’altezza. Basta dare un’occhiata a Luka Dončić, playmaker sloveno alto 2,01 metri e stella della NBA. Il secondo fattore, invece, è una vera passione: un amore incondizionato per il gioco e il divertimento, un entusiasmo che ha sempre contagiato giocatori e tifosi.
C’è però un terzo elemento, meno visibile ma altrettanto fondamentale: il metodo jugoslavo. Più che una strategia, è una filosofia che ruota attorno all’idea di costante applicazione e dedizione. Non si tratta solo di vincere, ma di farlo seguendo una propria identità di gioco, basata sulla disciplina e sull’eleganza del basket. Un approccio che ha portato la Jugoslavia a scrivere pagine indelebili nella storia di questo sport.
Nella metà degli anni Ottanta, la rappresentativa del basket si trovava a un bivio importante. La nazione stava affrontando un periodo di transizione dopo la morte del maresciallo Tito e il ritiro di una generazione d’oro del basket, composta da leggende come Krešimir Ćosić, Dražen Dalipagić, Mirza Delibašić, Zoran Slavnić e Dragan Kićanović. Questi “mostri sacri” avevano portato la Jugoslavia sul tetto del mondo, vincendo il campionato mondiale nel 1978 e l’oro olimpico nel 1980.
In Europa, avevano dominato conquistando tre titoli continentali consecutivi (1973, 1975 e 1977) e lasciando un segno indelebile nel basket internazionale. Con il loro ritiro, però, si aprì un vuoto difficile da colmare. Le aspettative erano altissime, ma la nuova generazione faticava a mantenere lo stesso livello di eccellenza. Gli Europei del 1983 e del 1985, chiusi rispettivamente al settimo posto, furono deludenti, e anche se il bronzo olimpico del 1984 a Los Angeles rappresentava un successo, i risultati non rispecchiavano la gloria del passato.
Il vento stava cambiando e quello che si stava per abbattere sulla pallacanestro mondiale sarebbe stato uno dei cicloni più potenti mai visti. La nuova generazione di talenti jugoslavi stava emergendo, pronta a eguagliare, se non superare, i fasti di quella che l’aveva preceduta. Era il 1986 quando il Partizan scelse di investire 14mila marchi per un gigante di 217 cm proveniente dallo Sloga Kraljevo: il suo nome era Vlade Divac, e sarebbe diventato il protagonista di questa storia.
Nella stessa estate, da Podgorica, arrivava Zarko Paspalj, un’ala piccola della Budućnost, capace di cambiare le sorti delle partite con il suo estro e la sua velocità. A completare il quadro, c’erano due giovani promesse del settore giovanile del Partizan, destinate a riscrivere la storia del basket: Aleksandar Đorđević, la mente della squadra, e Zeljko Obradović, che da giocatore brillante sarebbe poi diventato un autentico monumento della pallacanestro serba, conducendo i grobari dalla panchina.
Intanto, a Lubiana, Jure Zdovc, promettente playmaker, aveva già preso in mano le redini dell’Olimpija, mentre a Spalato, un diciassettenne dalle movenze eleganti stava scalando le marce a una velocità impressionante: Toni Kukoč, un futuro mago del parquet, che avremmo ammirato in Italia con la Benetton Treviso. Accanto a lui, Dino Rađa, ormai cresciuto e non più chiamato “Tino”, un pivot dal talento straordinario, che con duro allenamento e una dieta adeguata si era trasformato in un colosso pronto a dominare sotto canestro.
E poi c’era lui, il Mozart dei canestri: Dražen Petrović. Un talento unico, capace di suonare sinfonie col pallone in mano, un mix di tecnica sopraffina, visione di gioco e passione bruciante. Petrović non giocava a basket, lo reinventava, trasformando ogni possesso in una pura espressione artistica. La sua carriera è stata folgorante, dai successi con il Cibona Zagabria, il Real Madrid e la nazionale, fino alla consacrazione nel mondo NBA con i New Jersey Nets, dopo una parentesi poco fortunata a Portland.
Il primo grande appuntamento fu ai Mondiali del 1986 in Spagna. La Jugoslavia si presentò con una squadra fortissima, dominando il primo girone eliminatorio a Tenerife, qualificandosi senza problemi. Tuttavia, in semifinale incontrò l’Urss, che prevalse proprio sul filo di lana, vincendo 91-90 in un finale mozzafiato. La Jugoslavia si consolò con una netta vittoria nella finale per il terzo posto, stravincendo contro il Brasile. L’anno successivo, buona parte di quei talenti partecipò ai Mondiali under 19 del 1987, dove la rappresentativa dominò, portando a casa il titolo. MVP del torneo fu un giovanissimo Toni Kukoč, già protagonista di giocate straordinarie.
Nello stesso anno, la Jugoslavia dei “senior” prese parte agli Europei del Pireo, in Grecia, chiudendo nuovamente al terzo posto. Questa volta, però, il risultato venne accolto con malumore, segno che le aspettative su quella squadra erano ormai altissime. La Federazione decise a questo punto di operare un cambio alla guida tecnica: fuori Ćosić, dentro Dušan Ivković. Alle Olimpiadi di Seul 1988, la Jugoslavia era ancora tra le grandi favorite: stravinse nel girone di qualificazione tutte le gare, tranne quella ormai inutile ai fini della classifica contro Porto Rico. Nei quarti, sconfisse il Canada e, in semifinale, ebbe la meglio sull’Australia.
Tuttavia, fu ancora una volta l’Urss a rovinare i piani: Arvydas Sabonis e Šarūnas Marčiulionis spianarono la strada per l’oro, e la Jugoslavia dovette accontentarsi di un secondo posto. Il primo grande successo della nuova generazione arrivò nel 1989, nell’Europeo disputato in casa a Zagabria. Quella formazione stellare, guidata da un Petrović semplicemente immarcabile, vinse tutte le partite e dominò in lungo e in largo in finale contro la forte Grecia di Galis. MVP? Mozart, ovviamente. In vista del mondiale del 1990, la Jugoslavia era la squadra da battere.
La via del tramonto e l’oro di Buenos Aires
Tra il 1989 e il 1990, la Jugoslavia si trovava in un momento cruciale, un crocevia di cambiamenti profondi e tumultuosi. La caduta del Muro di Berlino nel novembre del 1989 non segnò solo la fine di un’era nella geopolitica europea, ma innescò anche una serie di eventi che avrebbero profondamente influenzato il destino delle repubbliche jugoslave. Questo periodo, caratterizzato da un’ondata di riforme e da aspirazioni di indipendenza, vide l’emergere di sentimenti nazionalisti che avrebbero contribuito alla disgregazione della federazione jugoslava.
Anche lo sport, in modo particolare il calcio, visse momenti di profonda tensione. Il 13 maggio 1990, quando, durante una partita tra Dinamo Zagabria e Stella Rossa, Zvonimir Boban colpì un poliziotto nel tentativo di difendere un tifoso. Quel calcio divenne più tardi un gesto-simbolo, un lampo di ribellione e orgoglio. Boban, più che un calciatore, divenne una figura di resistenza, incarnando un’intera generazione in lotta per l’identità e la libertà.
Il 3 giugno 1990, in occasione di un’amichevole tra Jugoslavia e Paesi Bassi poco prima della partenza per Italia ’90, lo stadio di Zagabria, che ospitava l’evento, sembrava più un’arena di tensione politica che un campo da calcio. Mentre l’inno della Jugoslavia risuonava, ventimila voci lo sovrastarono con fischi, gelidi e unanimi, quasi un segnale: quella Repubblica unita era ormai sulla via del tramonto.
In quegli anni turbolenti, la Jugoslavia del basket appariva come un’isola felice in un mare di incertezze. I giocatori, nonostante le notizie inquietanti che filtravano, erano riusciti a forgiare un legame indissolubile, sia sul parquet che fuori dal campo. Soprattutto Vlade Divac e Dražen Petrović, due anime diverse ma incredibilmente affini, che si erano molto avvicinati. Le loro carriere, già decollate dopo essere stati scelti nel draft del 1989 – Divac dai Lakers e Petrović dai Portland Trail Blazers – si muovevano su binari distinti: mentre il gigante buono si affermava sempre più nelle rotazioni californiane, il Mozart dei canestri si trovava in difficoltà, relegato a un ruolo marginale.
In quel periodo di sfide, il loro legame si intensificò. Ogni sera, Vlade telefonava a Dražen, offrendogli conforto e incoraggiamento, ricordandogli che il suo momento sarebbe arrivato, e che, una volta in campo, avrebbe dimostrato al mondo americano il suo straordinario talento. Il pubblico europeo, nel frattempo, era già stato incantato dalle sue magie. Quando il Mondiale in Argentina del 1990 prese il via, la squadra jugoslava sembrò inarrestabile, nonostante l’assenza pesante per infortunio di Rađa.
Le prime due vittorie nel girone di qualificazione contro il Venezuela e l’Angola si trasformarono in un preludio alla sorprendente sconfitta contro Porto Rico. Ma fu nel secondo turno che la Jugoslavia alzò il livello del proprio gioco: sconfisse senza affanni il Brasile di Oscar, dominò l’URSS con un sonoro 105-77 e controllò la Grecia con maestria. In semifinale, gli Stati Uniti, in preda allo stupore, dovettero cedere di fronte all’innegabile qualità del basket jugoslavo. E così, in finale, un altro trionfo contro l’URSS per 92-75 completò un percorso straordinario. L’emozione di quel momento fu indescrivibile: Divac, Petrović e i loro compagni esultavano, celebrando un trionfo che sembrava un atto di unità in un periodo di crescente divisione.
L’episodio di Vlade Divac e la bandiera croata
Il palazzetto “Luna Park” di Buenos Aires era avvolto dai festeggiamenti: la Jugoslavia aveva appena conquistato il titolo mondiale di pallacanestro. Ma quei festeggiamenti durarono solo un istante. A spezzarli fu Tomas Šakić, che scese sul parquet con una bandiera croata legata agli ustascia, il simbolo di un passato che tanti avrebbero voluto dimenticare. Per capire la portata di quel gesto, bisognava tornare nella seconda metà degli anni Quaranta.
Allora, l’Argentina era divenuta rifugio per molti membri del regime ustascia, il movimento ultranazionalista croato responsabile di brutali massacri durante la Seconda guerra mondiale. Tra di loro c’era Ante Pavelić, il dittatore dello Stato Indipendente di Croazia, e insieme a lui Dinko Šakić, comandante del famigerato campo di concentramento di Jasenovac, tristemente noto come l’Auschwitz dei Balcani.
Gli ustascia trovarono a Buenos Aires una seconda patria, in una comunità croata che li accolse e che, in alcuni casi, serbava ancora le ideologie del passato. Tomas Šakić era cresciuto in quel contesto, figlio – si diceva – di Dinko, anche se lui non lo confermò mai. Intervistato da un giornalista argentino sull’identità di suo padre, Tomas evitò la risposta, alimentando ancor più il mistero e le polemiche. Ma quel silenzio, così come quella bandiera in mezzo alla celebrazione jugoslava, fu un colpo. Un colpo che ricordava un passato di violenza e divisione, gettando un’ombra pesante sulla pallacanestro jugoslava, sul suo trionfo e, forse, sull’ultimo baluardo di un’unità che da lì a poco sarebbe esplosa definitivamente.
Tomas Šakić, nazionalista convinto, esultava per i suoi idoli croati: Toni Kukoč, MVP del torneo, il micidiale Velimir Perasović, l’inarrivabile Petrović, e, sorprendentemente, anche Vlade Divac. Convinto che Divac fosse croato, Šakić tifava per lui come fosse uno dei “suoi”. Ma Divac, alla vista della bandiera ustascia che sventolava nel mezzo del campo, reagì di scatto. Allontanò quel simbolo, e con esso Tomas Šakić, come a voler difendere il trionfo di una squadra e di una nazione ancora unita.
Per Divac, quel titolo era un trionfo di tutta la Jugoslavia, e nessuna divisione politica doveva contaminare il momento. In Once Brothers, il documentario uscito per ESPN, Divac spiegò chiaramente il suo gesto: non voleva simboli che separassero i suoi compagni. Quella bandiera ustascia, per il governo jugoslavo, rappresentava una minaccia fin dal dopoguerra, ed era stata vietata con fermezza. La reazione di Divac non era solo un riflesso di quella norma, ma una presa di posizione personale, un tentativo di mantenere intatta la squadra che amava. Eppure, quel gesto segnò l’inizio di una frattura profonda, un presagio di un conflitto che avrebbe spezzato legami, amicizie e un’intera nazione.
L’opinione pubblica viveva già un’altra partita, quella che si giocava sul fronte della politica e delle identità. La reazione di Divac alla bandiera ustascia portata in campo da Tomas Šakić non fu il solo episodio a sollevare polemiche. Ce n’era un altro, meno noto ma altrettanto significativo: un secondo drappo sventolava sul parquet, questa volta tra le mani di alcuni giocatori serbi – Obradović, Paspalj, Jovanović e Divac stesso – mentre gli altri giocatori, croati e sloveni, si rifiutarono di sollevarla. Nessuna parola, nessuna spiegazione: ma quel silenzio, quel rifiuto, parlavano da soli.
Quel momento raccontava di una squadra un tempo unita, ormai segnata da tensioni che nessuno poteva ignorare. La stampa non tardò a interpretare il gesto di Divac, riversando sulle sue spalle il peso di un paese in crisi. I giornali croati, come Vecernji List, Slobodna Dalmacija, e Vjesnik, lo attaccarono ferocemente, accusandolo di essere un traditore, un nazionalista, e persino un “cetnico”, il termine peggiorativo usato per definire i serbi monarchici. Dall’altro lato, i quotidiani serbi come Politika, Borba, e Vecernje Novosti lo elevavano a simbolo d’orgoglio nazionale, un eroe che difendeva l’onore del popolo serbo.
Divac, che si era solo opposto a una bandiera di divisione, diventò suo malgrado il volto di una nazione che si stava disgregando. In Jugoslavia, il legame tra sport e nazione era sempre stato fortissimo. Gli atleti non erano semplici giocatori: erano rappresentanti di un’identità collettiva, ambasciatori della forza e del talento di un popolo variegato ma unito. Ma quel 1990 segnava la fine di un’epoca. Lo sport, che fino ad allora aveva unito le repubbliche jugoslave, iniziava a riflettere le divisioni profonde di un paese ormai sull’orlo del baratro.
Quello che successe dopo
Il legame tra Petrović e Divac si spezzò nell’istante esatto in cui Divac allontanò quella bandiera croata dalle celebrazioni di Buenos Aires. Dražen rimase in silenzio, incapace di accettare il gesto di colui che considerava un fratello. Per lui non era solo una bandiera: era un simbolo della sua Croazia, una nazione che stava lottando per affermare la propria identità e che, agli occhi del popolo croato, aveva trovato in Petrović un portavoce, un eroe che incarnava il sogno di indipendenza. Lo sport, in quel periodo di grande fermento politico e sociale, stava diventando un veicolo cruciale per l’identità croata, un aspetto evidente anche nel ruolo di Franjo Tuđman e nella Dinamo Zagabria, la squadra che rappresentava l’orgoglio nazionale.
Dražen sapeva che non rappresentava solo se stesso o la propria abilità con la palla a spicchi; rappresentava un intero popolo. Era l’esportatore dell’identità croata al mondo, e quella bandiera era un pezzo della sua stessa anima, della sua storia, della sua gente. Quando Divac la respinse, per Dražen fu come se la sua Croazia stessa fosse stata respinta. Il silenzio che seguì tra loro fu carico di dolore, una pausa che si sarebbe allungata fino alla morte prematura di Dražen, nel 1993.
Non ci furono chiarimenti, non ci fu mai una parola in più per sciogliere quel nodo che, per entrambi, era diventato troppo stretto per essere sciolto facilmente. Per Petrović, quella rottura era inevitabile, perché nella sua visione lo sport stava diventando un simbolo di un’identità in formazione. Ogni partita, ogni canestro, ogni gesto sul campo non erano semplici atti sportivi, ma dichiarazioni d’intenti, una battaglia silenziosa per la dignità di un popolo. E quel silenzio nei confronti di Divac, per quanto doloroso, divenne parte di un’epopea che, nel cuore dei croati, avrebbe sancito il suo ruolo di eroe nazionale.
Tra il 1990 e il 1993, i Lakers di Vlade Divac e i Nets, il club in cui Dražen Petrović brillava, si incrociarono sul parquet in più di un’occasione. Ma per i due amici di un tempo, ogni incontro era un silenzioso campo di battaglia, un rituale di cortesia che non andava oltre un saluto fugace. Divac raccontava di quei momenti, un misto di nostalgia e tristezza, mentre Petrović si rifiutava di perdonare quello che un tempo considerava “suo fratello”. L’assenza di parole, di abbracci, di quel legame che aveva reso le loro vite così intrecciate, era un segnale di un’epoca che stava cambiando, e in peggio.
Negli anni successivi, una teoria si è fatta strada, alimentata da un’intervista di Petrović del 1993 alla tv americana TNT. Estrapolando le sue parole, emerse che la rottura tra i due non fosse solo una questione di bandiere e simboli, ma qualcosa di più profondo, di politico. Dražen sentiva un’assenza incolmabile: nel giro di tre anni, con la guerra in corso, Divac non aveva mai speso una parola nelle interviste con i media americani riguardo alla situazione in Krajina o, più in generale, sulla sua Croazia, e non aveva mai cercato di contattare la famiglia di Dražen. Era come se il silenzio di Divac avesse amplificato il dolore della frattura.
E così, Petrović, con la sua voce chiara e diretta, non si trattenne dal lanciare un guanto di sfida. “I serbi sono bravi a cambiare le narrazioni” dichiarò, “ma voglio fargli una domanda: se fosse successo l’opposto, come avrebbero reagito?” Quella domanda riassumeva un conflitto che andava ben oltre il basket. La bandiera, quel gesto, rappresentava un momento di forte frizione, una spaccatura profonda tra le parti. Ma la guerra che seguì aggravò ulteriormente le cose, rendendo impossibile ricucire un legame che, già messo a dura prova, si ritrovò a lottare contro forze ben più potenti di un semplice dissenso tra amici.
La Jugoslavia del basket si trovava a un bivio, un momento di frattura profonda che avrebbe segnato l’inizio della sua disgregazione. Con la scomparsa improvvisa di Dražen Petrović nel 1993 per incidente stradale, secondo l’analisi di Tavčar, il basket jugoslavo come lo si conosceva fino a quel momento subì un colpo mortale. Un rammarico immenso per Vlade Divac, che non ebbe mai l’opportunità di chiarire le incomprensioni con il compianto compagno, e per tutto il movimento cestistico jugoslavo, che si trovava a piangere non solo un grande atleta, ma anche un simbolo di unità.
Erano tempi in cui il mondo assisteva alla nascita del leggendario “Dream Team” guidato da Michael Jordan, e il pensiero che una Jugoslavia unita avrebbe potuto sfidare a testa alta quei colossi era un’idea che brillava nei cuori di molti. Infatti, nel 1992, fu la neonata Croazia di Petrović a conquistare l’argento alle Olimpiadi, un risultato straordinario che dimostrava quanto il basket jugoslavo potesse ancora stupire e affascinare, anche se frammentato.
*Nato a San Giovanni Rotondo (Fg) nel 1997, vive a Barletta (Bt) ed è dottorando al terzo anno in Storia Contemporanea a Bari. I suoi interessi sono la memoria, la storia dello sport internazionale e i rapporti tra Italia e Jugoslavia. Ricopre anche il ruolo di addetto stampa presso squadre sportive della sua città.