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Dici Croazia e pensi subito alle sue bellissime spiagge, al mare Adriatico cristallino e alle tantissime isole animate da party e festival estivi. Proprio grazie a queste ricchezze, il paese balcanico è diventato negli anni una delle mete preferite dai turisti durante la bella stagione. Complessivamente, la costa croata è lunga circa 5.800 chilometri di cui la maggior parte, circa 4mila, appartengono a 600 isole e isolotti. Tra queste, solo una cinquantina sono abitate. Alcune sono ormai note in tutta Europa: Pag, Hvar o Krk (Veglia), luoghi meravigliosi in cui natura e divertimento si fondono.
Quello che è meno noto, però, è che alcune di queste isole durante la Seconda guerra mondiale hanno ospitato campi di prigionia gestiti dalle truppe di occupazione fasciste, destinati alle popolazioni slave e agli ebrei.
I campi ebbero spesso una funzione di transito, in attesa che gli internati fossero trasferiti in Italia. Il caso più significativo e conosciuto è quello dell’isola di Rab (Arbe), tra Rijeka (Fiume) e Zara. Aperto nel 1942, era destinato principalmente a civili sloveni, croati ed ebrei, diventando presto il più grande e duro campo italiano in Jugoslavia, capace di ospitare già nel dicembre 1942 oltre 21mila persone, prima di essere liberato dai partigiani comunisti di Tito dopo l’8 settembre 1943. Nello stesso periodo, pochi chilometri più a sud, operò un altro campo: quello dell’isola di Molat con una capienza di circa 20mila internati, di cui oltre mille morirono di stenti o fucilati.
Non fu risparmiata dalla barbarie fascista neppure l’isola più piccola di tutta la Croazia, Ošljak. Situata proprio di fronte Zara e grande 0,33 chilometri quadrati con una popolazione di appena 29 abitanti (censimento 2011), con l’occupazione italiana venne ribattezzata Scoglio Calogero, in onore di una famiglia di origine veneziana. Il campo presente sull’isola era stato uno dei primi a essere aperti, nel 1941, come “campo di transito” destinato ai prigionieri politici comunisti o, come riportato dai documenti ufficiali, “antitaliani”. Altri campi furono aperti nelle isole di Brač, Hvar, Korčula, Lopud e Mamula (entrambi vicino al confine con il Montenegro), destinati principalmente agli ebrei.
Zlarin: isola d’oro
Tra le isole trasformate in luoghi di detenzione e massacri rientrò anche Zlarin, una delle sei isole abitate nella provincia di Šibenik (Sebenico) già dominio veneziano per ben 385 anni (dal 1412 al 1797) e sotto occupazione fascista dal 1941. La presenza di abitanti sull’isola, grande appena 8 chilometri quadrati, viene fatta risalire alla preistoria e oggi, durante i mesi non estivi, conta meno di 300 abitanti. I romani la chiamarono Insulae auri, isola d’oro, per via dei coralli rossi che nei secoli successivi avrebbero fatto la fortuna dei suoi abitanti. Tra il XVI e il XVII secolo, Zlarin si popolò di persone che dall’entroterra fuggivano dall’avanzata ottomana. Qui trovarono un ambiente accogliente, adatto ai vigneti e agli oliveti oltre che ovviamente alla pesca, specialmente delle sardine, ancora oggi uno dei piatti tradizionali.
Nei primi anni dell’Ottocento l’isola diventò preda di diversi occupanti: con la caduta della Repubblica di Venezia passò prima sotto il controllo dell’Austria (1797), poi dell’Italia napoleonica (1806) per poi tornare nuovamente all’Austria nel 1813. Nella seconda metà del secolo la popolazione superò i 3mila abitanti, dediti soprattutto alla navigazione e alla pesca. Durante il loro viaggio in Dalmazia del 1875, l’Imperatore Francesco Giuseppe e la regina Sissi sbarcarono anche a Zlarin per acquistare il suo famoso corallo rosso. In un testo del 1892 dedicato alla Dalmazia, Giuseppe Modrich descrive così i “zlarignani”:
Si distinguono per il loro spirito di intraprendenza, per fermezza di proposito, per laboriosità, per energia. Hanno attirato a sé il monopolio commerciale di tutto il distretto di Sebenico. Zlarin, capoluogo dell’isola, conta parecchie ditte che godono, nelle migliori piazze d’Europa, di fiducia illimitata.
L’occupazione italiana
Con la sconfitta dell’Impero austro-ungarico nella Prima guerra mondiale, la Dalmazia si trovò al centro di diverse rivendicazioni. Il Patto di Londra, firmato nel 1915 tra l’Italia e la Triplice Intesa ma rimasto segreto fino al 1917, prevedeva che in caso di vittoria a Roma sarebbe spettata, tra le altre cose, parte della regione dalmatina comprese le città di Zara, Sebenico e Tenin (Knin). Alla fine del 1918 queste aree vennero occupate militarmente dall’Italia. Durante la conferenza di pace di Parigi del 1919, però, gli Stati Uniti e la Francia si opposero a quanto previsto dal Patto di Londra suscitando la dura reazione di Vittorio Emanuele Orlando, che abbandonò la conferenza. L’occupazione italiana di Zlarin durò fino al giugno 1921. Il Trattato di Rapallo sottoscritto nel novembre 1920 prevedeva infatti che all’Italia spettassero solo la città di Zara, l’isola di Lagosta e l’arcipelago di Pelagosa, mentre il resto della regione venne assegnata al Regno dei Serbi, Croati e Sloveni.
L’occasione di riconquistare l’intera regione si presentò con la Seconda guerra mondiale con l’occupazione della Jugoslavia, divisa tra le forze fasciste e quelle naziste. Nel maggio 1941 venne così costituito il Governatorato di Dalmazia, sotto il controllo del Regno d’Italia, di cui faceva parte anche la piccola Zlarin, militarmente strategica in quanto integrata nel sistema di difensivo di Sebenico. L’occupazione fascista venne però fortemente contrastata dagli abitanti dell’isola tanto che “il 19 gennaio 1942 sui muri delle case di Zlarin spuntavano scritte con slogan anti-italiani e disegni con falce e martello” (Bernard Stulli, Povijest Zlarina, 1980).
Due anni dopo l’occupazione, il 25 marzo 1943, in seguito al rastrellamento di tutti gli uomini di età superiore a 15 anni attuato dalle autorità militari di Spalato venne aperto sull’isola un campo di concentramento. Il campo venne collocato sulla parte più rocciosa e arida dell’isola ed era controllato da 120 soldati e 20 carabinieri. Già il mese successivo il campo ospitava oltre 1.500 persone arrivando a superare, nelle settimane successive, anche le 2mila presenze. Alcune di loro morirono per le scarse condizioni igieniche, per la fame e la sete. Come riportato da un documento del 1976,
quasi due terzi del totale degli internati furono deportati in campi di concentramento italiani (Renicci ad Arezzo, Chiesanuova a Padova e Visco a Udine), mentre altri – per lo più i vecchi e i malati – furono riportati a casa. La maggior parte degli internati fu portata a Rijeka il 15 giugno 1943, data della liquidazione del campo.
Con il ritiro italiano, furono le truppe naziste a prendere il loro posto occupando l’isola dall’aprile 1944 fino alla sua completa liberazione nel novembre dello stesso anno. Proprio a causa della brutalità dell’occupazione fascista, alcuni comuni nelle vicinanze di Sebenico furono quelli con il più alto numero di persone che si unirono ai partigiani comunisti guidati da Josip Broz Tito, tra cui anche 118 uomini e donne provenienti da Zlarin. Con la liberazione del paese e la fine della Seconda guerra mondiale, l’isola passò definitivamente alla Repubblica Popolare di Croazia (dal 1963 Repubblica Socialista di Croazia). Proprio a partire dal secondo dopoguerra, il numero di abitanti cominciò a scendere inesorabilmente e così anche l’importanza economica e militare dell’isola, anche se una sua parte continuò a essere usata come deposito di munizioni fino agli anni Novanta.
Zlarin oggi
Oggi, l’isola si presenta come un vero e proprio paradiso. In gran parte disabitata, occupata solo dalla natura e, in estate, dai turisti che però difficilmente si trattengono per più di un giorno. Ospita già dal 1986 l’associazione Yacht Club e lo scorso 2 giugno è stato inaugurato il Centro del corallo croato, un museo multimediale sulla storia dell’isola e del suo più importante patrimonio culturale. Un progetto costato ben tre milioni di euro che ha come obiettivo quello di attirare turisti e studiosi anche durante i mesi non estivi. Nel 2019 Zlarin è stata dichiarata la prima isola “plastic free” di tutta la Croazia e già da qualche anno la circolazione è consentita solo ai veicoli elettrici. Del campo di concentramento resta solo un piccolo spomen (monumento celebrativo), abbandonato e semi-distrutto.
Dottore di ricerca in Studi internazionali e giornalista, ha collaborato con diverse testate tra cui East Journal e Nena News Agency occupandosi di attualità nell’area balcanica. Coautore dei libri “Capire i Balcani Occidentali” e “Capire la Rotta Balcanica”, editi da Bottega Errante Editore. Vice-presidente di Meridiano 13 APS.