Con il colpo di stato del 2016, il percorso della Turchia verso l’autoritarismo è apparso inarrestabile. Da anni si prevedeva la rottura con l’impianto giudiziario costruito da Atatürk e le riforme attuate per l’adesione all’Unione Europea. Il fallito golpe, però, ha fornito l’occasione perfetta per lo scatto finale, dando il via a un’inedita operazione volta a distruggere le basi dello stato di diritto in Turchia, attraverso la detenzione illecita di personalità invise al regime, l’indebolimento della funzione sociale degli avvocati e, infine, la totale subordinazione della magistratura al potere governativo.
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La fine della Turchia moderna?
Con la salita al potere di Recep Tayyip Erdoğan nei primi anni Duemila la Turchia ha subito una rapida metamorfosi; la Repubblica progettata da Atatürk ci appare infatti irriconoscibile in numerosi tratti fondamentali che avevano caratterizzato il progetto del “padre dei turchi”, con risultati paradossali se si focalizza l’attenzione all’ambito giuridico.
Con l’obiettivo di trasformare l’ex Impero in uno stato nazione moderno su modello delle repubbliche occidentali, Atatürk aveva avviato nel 1926 una serie di riforme radicali che prevedevano l’eliminazione totale del sistema dei millet (nazioni), struttura ottomana almeno in parte sopravvissuta negli attuali Grecia e Israele che stabiliva la competenza, in materia di famiglia e successioni, delle corti della confessione di appartenenza del singolo individuo.
Con le riforme del 1926 venivano quindi eliminate le corti sharaitiche e le altre corti religiose, con l’enorme vantaggio di risolvere una volta per tutte il conflitto e il continuo sovrapporsi tra il potere giurisdizionale delle confessioni riconosciute (solo le religioni ‘tollerate’ dal diritto islamico, infatti, potevano avere questo potere giurisdizionale, e dunque solo cristianesimo ed ebraismo) e la normativa delle Tanzimât, che invece attribuiva una serie di diritti fondamentali in virtù di una comune cittadinanza ottomana.
Con il 1926, quindi, si tracciava una cesura netta con il sistema pre-esistente, ottenuta grazie all’adozione di quelli che venivano individuati come i migliori codici dei paesi occidentali in vigore all’epoca, il codice civile svizzero e il codice penale italiano, e di una Costituzione moderna, incardinata sul principio di laicità e democrazia dello stato.
Il drastico passaggio, avvenuto in poco più di settant’anni, dalla visione kemalista di una Repubblica laica con suffragio universale all’attuale “neosultanato” di Erdoğan, si rispecchia nel paradosso dell’applicazione in Turchia di un codice penale italiano talmente liberale da essere stato, nel frattempo, sostituito nella sua terra d’origine con il codice di impostazione fascista del 1933.
Scelto per la sua innovatività, il codice penale turco ha ormai del tutto abbandonato i principi liberali su cui era radicato. Non esiste più, infatti, il principio del contraddittorio e il diritto, da parte di un soggetto imputato in un processo penale, a confrontarsi con i testimoni a proprio carico: sono state segnalate sentenze di condanna basate su testimonianze rimaste segrete durante tutto il processo e un numero impressionante di arresti illeciti, mai sfociati in alcun processo e quindi senza possibilità di reale difesa da parte dell’arrestato. Ciò è stato possibile grazie al sistematico abuso della legge anti-terrorismo: per restituire un’immagine dell’effettiva portata della repressione, basti pensare che si stima che gli accusati di adesione ad un’associazione terroristica costituiscano oltre il 20-25% della popolazione ristretta nelle carceri turche.
Secondo le stime dell’Associazione europea dei giudici, ben 282.790 persone sono state processate per adesione a organizzazioni terroristiche e, di queste, 94.975 sono state sottoposte a custodia cautelare in carcere.
Osservando questa tragica evoluzione si potrebbe ritenere che nella Turchia di oggi non sia rimasto niente nelle riforme del 1926: a uno sguardo più attento, tuttavia, appare evidente la forte impronta nazionalista e identitaria che riconduce l’islamismo di Erdoğan all’ambizioso progetto politico di Atatürk e al culto della sua personalità.
Le origini della falla nello stato di diritto in Turchia
Sarebbe un tragico errore individuare nel fallito colpo di stato del 2016 l’inizio del tramonto dello stato di diritto in Turchia: in realtà, infatti, il golpe è stato l’opportunità per la corsa finale di un tragitto già segnato alla fine del 2013.
Il World Justice Project, organizzazione internazionale che monitora lo stato di diritto in vari stati, ha registrato nel crollo della Turchia dalla posizione 59 nel 2014 all’attuale 117 la caduta più bassa del decennio dal punto di vista dell’indice sullo stato di diritto. Si tratta di un elemento fondamentale dal momento che lo stato di diritto, definibile come l’assoggettamento dei pubblici poteri alla legge, è intrinsecamente collegato al principio della separazione dei poteri e la relativa garanzia, da parte di qualsiasi cittadino, di poter chiedere la tutela dei propri diritti davanti a un giudice effettivamente terzo e imparziale.
Nel dicembre 2013, nel corso di un’investigazione per corruzione, vengono arrestati importanti membri del Parlamento, inclusi figli di esponenti del governo e figure molto vicine all’esecutivo.
Non è la prima indagine a finire nel mirino del regime, che aveva già cercato di ostacolare un’investigazione sul trasporto illegale di armi in Siria, ma stavolta la stretta è immediata e brutale: viene promulgata subito una normativa per limitare l’autonomia delle indagini, sottoponendole a un controllo del Ministero dell’Interno, e, con una serie di atti amministrativi, viene sostituita l’intera compagine dell’organico dell’Hsyk (organismo di autotutela della magistratura turca, corrispondente al nostro Consiglio Superiore della Magistratura) e, soprattutto, la composizione della commissione disciplinare.
Con la strumentalizzazione del potere disciplinare dell’Hsyk iniziano quindi i primi trasferimenti punitivi e la revoca degli incarichi più importanti ai giudici sospettati di dissidenza; con la pronuncia dello stato di emergenza, l’operazione si allarga presto alla messa al bando delle associazioni di categoria di stampo più progressista, accusate di adesione o incitamento al terrorismo, e arriva presto a coinvolgere la modalità di composizione della Corte costituzionale.
Il contesto politico del 2013, la feroce repressione delle proteste di Gezi Park (estate 2013), è uno dei momenti chiave della storia recente: le richieste dei manifestanti pacifici, riuniti per protestare contro la costruzione di un centro commerciale, richieste presto estese alla richiesta di maggiore libertà di stampa e riunione, si sono subito scontrate con la reazione del governo, lasciando 11 morti sulla piazza gremita e soprattutto segnando l’avvio della prima ondata di incarcerazioni di massa in Turchia, di cui verrà fatto largo uso dopo il fallito colpo di stato del 2016.
La stretta sulla magistratura
“Quando sono andato a dormire, ero un giudice. Mi sono risvegliato ed ero diventato un terrorista.”
(Yavuz Aydin, ex magistrato)
Il 15 luglio 2016 parte delle forze armate tenta di rovesciare il presidente Erdoğan; il colpo di stato, su cui sono state elaborate le spiegazioni più disparate, fallisce nell’arco di una notte ma lascia una ferita incolmabile nell’apparato statuale. Viene dichiarato subito lo stato di emergenza e si apre quindi una lunga fase di legislazione speciale, emergenziale, che rappresenta il pretesto perfetto per il passaggio alla fase successiva dello smantellamento dello stato di diritto in Turchia: le vere e proprie purghe nei confronti di tutti i dissidenti nella società civile, inclusi giornalisti, intellettuali e professori, ma anche la categoria dei giudici.
Con la promulgazione dei decreti d’emergenza, esclusi da un sindacato giurisdizionale, vengono introdotte nuove limitazioni alla libertà d’espressione e segnato il colpo decisivo. Il 16 luglio 2016 – il giorno successivo al colpo di stato – in un’assemblea straordinaria l’Hsyk, ormai interamente sotto il controllo dell’esecutivo, decide l’immediato licenziamento di 2.745 giudici e pubblici ministeri, accusati di appartenere al movimento di Gülen, presunto responsabile del fallito golpe.
L’elenco, una vera e propria lista di proscrizione, appare evidentemente già predisposto da tempo e viene immediatamente ratificato con decreto emergenziale: tutti i soggetti citati – inclusi due giudici della Corte Costituzionale – vengono licenziati in tronco, privati del passaporto e sottoposti a processo con l’accusa di affiliazione ad un movimento terroristico. Per dimostrare il legame si rivela sufficiente, al momento del processo, la scelta di una scuola o di un istituto bancario considerati affiliati al movimento.
Solo i primi giorni dopo il colpo di stato ben 1.684 magistrati vengono incarcerati; l’associazione Yarsav, che raggruppava giudici e pubblici ministeri ed era inserita nella rete delle associazioni di categoria a livello europeo, viene sciolta con decreto emergenziale. Ad essere colpita, direttamente o indirettamente, è l’intera categoria: è sintomatico, da questo punto di vista, che oltre la metà dei giudici oggi in servizio abbia meno di 3 anni di esperienza e, in alcuni casi, non abbia nemmeno terminato il percorso formativo di tirocinio al momento della presa di servizio. La procedura di selezione dei magistrati, come analizzato dal report indipendente dell’Unione Europea, chiede anche apertamente conto delle opinioni politiche dei candidati.
Con la riforma costituzionale del 2017, infine, l’esecutivo si è assicurato la nomina della maggioranza dei giudici costituzionali, sigillando la pietra tombale definitiva sullo stato di diritto in Turchia.
La persecuzione degli avvocati
Fondamentale, per il mantenimento dello stato di diritto, non è solo l’indipendenza della magistratura, ma anche la presenza di un’avvocatura adeguatamente formata, organizzata attraverso proprie associazioni indipendenti, in grado di prestare una difesa effettiva persino nei casi più difficili e controversi, che coinvolgono gli interessi centrali dello stato.
Non è quindi casuale il percorso con cui, a partire dal 2016 e in totale analogia con quanto avvenuto per i giudici, il governo ha promosso una serie di riforme per mettere sostanzialmente al bando le associazioni tra avvocati e limitare l’autonomia e l’attività degli ordini degli avvocati.
L’ambiguità con cui talvolta l’avvocato viene confuso con la persona del cliente ha assunto, in questo contesto, dimensioni grottesche: la persecuzione nei confronti della minoranza curda, avallata dall’incriminazione dei movimenti politici filo-curdi, è stata realizzata anche attraverso l’arresto, con l’accusa di terrorismo, degli stessi avvocati dei curdi incriminati, lasciando così quest’ultimi alla ricerca di un nuovo difensore in un’intera categoria ormai sotto intimidazione.
Dopo il colpo di stato del 2016 centinaia di avvocati, soprattutto tra i più attivi per la difesa della minoranza curda, per la tutela della comunità Lgbt+ e il contrasto alla violenza di genere, sono stati arrestati e esclusi dall’esercizio della professione. Secondo il report di The Arrested Lawyers Initiative, sono 476 gli avvocati processati nell’arco temporale a cavallo tra il 2016 e il 2022, sospesi e condannati a pene esemplari (2966 anni di reclusione in totale).
La brutalità della repressione ha implicato per gli avvocati turchi non solo la perdita del proprio lavoro e della libertà personale ma, in alcuni casi, anche della vita: nel 2020, a soli 42 anni l’avvocatessa curda Ebru Timtik, condannata a 13 anni di reclusione dopo un processo farsa per terrorismo, si è spenta all’interno di un carcere di massima sicurezza dopo 238 giorni di sciopero della fame, chiedendo di essere sottoposta a un processo equo.
Il suo corpo martoriato, che al momento del decesso pesava appena trenta chili, non è riuscito ad assistere all’accoglimento dell’appello, arrivato troppo tardi come una sorta di ridicola riabilitazione postuma: angosciante metafora di una macchina rotta e farlocca, incapace di arginare qualsiasi abuso di potere da parte del regime.
Per approfondire
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Dying to divorce: documentario incentrato sulla violenza di genere in Turchia, con l’enorme pregio di contestualizzare il fenomeno nel contesto politico generale, affrontando anche il tema della persecuzione degli avvocati.
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The Arrested Lawyers Initiative: sito di informazione curato da avvocati turchi perseguitati dal regime.